Alla vigilia del voto il gioco delle parti fra i
conservatori iraniani è giunto al capolinea. Qalibaf si ritira, appoggiando
Raisi. Il sindaco di Teheran aveva fatto una sorta di melina calcistica con una
precedente retromarcia e un successivo rientro, tanto da alimentare l’idea di
un’alternativa laica a quella clericale dell’ayatollah di Mashhad. Ma si
trattava di tattiche, che fanno dire a commentatori per nulla benevoli verso il
locale sistema-paese che quest’ultima mossa è solo uno dei risvolti della
pantomima elettorale. Come e più degli ipercritici che anche in Occidente, o in
varie repubbliche autoritarie del globo, preferiscono tenersi lontani dalle
urne alcuni osservatori si chiedono se il prossimo voto iraniano sia un
esercizio utile o futile. Al di là di palesi brogli, come quelli denunciati
all’epoca dell’Onda verde dai cartelli “Dov’è il mio voto?”, c’è chi torna a
domandarsi se la partecipazione popolare diventi di fatto una legittimazione di
un sistema che si sostiene con o senza il voto. Ovviamente si tratta di
oppositori riformisti che, ad esempio, nella passata tornata elettorale avevano
in extremis scelto di partecipare appoggiando il candidato “meno pericoloso”:
il moderato Rohani. Da oggi a venerdì, giorno della consultazione, ciò che
appare inconfutabile è la partita a due fra ayatollah: il presidente uscente e
il mullah conservatore.
Come a dire: dal potere clericale non si
prescinde. Il primo vincitore, ben oltre le schede da segnare, è dunque il
contestato (da una parte della popolazione) velayat-e
faqih fortemente voluto da Khomeini e tuttora presenza giuridica
intoccabile. Gli analisti che non amano Rohani, fanno notare come le
incongruenze che hanno retto in questi quattro anni potrebbero non sostenerlo
più dal 19 maggio. Perché il mullah diplomatico sta recitando la parte del
riformista senza esserlo, né riguardo all’emancipazione femminile, né sui
diritti civili di minoranze ed etnìe. Ben lo sanno i fan di Mousavi, che
decisero di appoggiarlo solo come male minore. Rohani a detta di molti è un
globalista, vicino in tal senso a quel che pensano degli assetti mondiali molti
governanti occidentali, e un liberista come lo era Rafsanjani. L’accordo sul
nucleare che gli ha conferito popolarità e fiducia doveva portare investimenti
e mercato, ridurre disoccupazione e produrre un abbattimento di quelle fasce di
povertà ancora presenti in alcune zone del Paese. Doveva, ma finora s’è visto
poco e nulla è scontato, perché non è scontata la geopolitica. Dunque chi vuole
sostenerlo deve firmare un’altra cambiale in bianco. Certo, l’alternativa
rappresentata da un tradizionalista col turbante qual è Raisi, non può
allettare i ceti medi e quei giovani che in Rohani hanno creduto e che ora
sperano meno, ma sperano ancora.
Nonostante per il rush finale il fronte
conservatore abbia un unico candidato, venerdì prossimo il successo potrebbe
arridere al presidente uscente proprio perché il voto per l’ayatollah nero sarà
clericale e fortemente ideologico e contro di lui si schierano radicali,
moderati e anche una gamma di vari nostalgici. Il ricordo di alcuni dialoghi
avuti nel recente viaggio in quella terra fa emergere un fattore con cui la
popolazione, magari usata dal ceto politico, fa i conti. La storia collettiva,
più di quella personale, il passato più del presente. Lo spettro del colpo di
mano o i tentativi di cambio di regime pilotati dall’esterno, riavvicinano la gente
che vuol vivere in pace all’establishment. Li avvicinano i devastati panorami
di nazioni confinanti come l’Afghanistan e l’Iraq, lo scenario siriano dove ben
vivo e attivo è il jihadismo dell’Isis fanno propendere per un rapporto del
popolo coi propri governanti. Chiunque essi siano? Secondo il giudizio di chi
sottolinea il mantenimento del governo clericale sì, con una ripetizione di
quel che accadde nel dopo Khomeini fra Khamenei e Rafsanjani: l’avvio di una
diarchia che riveste i ruoli di Guida Suprema e Presidente. Per questi due
poteri i due attuali ayatollah contendenti potranno tendersi la mano.
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