TEHERAN - La realtà e le
ipotesi s’inseguono, viaggiano a metà strada fra rumors e desideri. Così in
questi giorni nella Teheran del tran-tran lavorativo - fra il corposo traffico
di cinque milioni di vetture sguinzagliate a tutte le ore sui boulevard che
sezionano la metropoli come meridiani e paralleli d’un mappamondo, accanto a una
crescente presenza turistica, itinerante poi verso le più attrattive perle dell’Islam
selgiuchide e safavide - le prossime elezioni presidenziali possono apparire al
tempo stesso strategiche e scontate. Inutili
e speranzose. Modi di pensare e sensazioni, ovviamente variano fra i tanti
soggetti e, in molti casi, le opinioni popolari non sposano il punto di vista
dei politologi. Una delle notizie che la gente mormora è quanto resti da vivere
ad Ali Khamenei. Pensiero nient’affatto nuovo per l’oggi settantottenne Giuda
Suprema, data per spacciata già nel 2006, che invece ha aggiunto undici anni (e
che anni con la doppia presidenza di Ahmadinejad) al controllo sulla vita
politica del Paese. Certo il tumore alla prostata, fu operato nel 2014, ha
peggiorato condizioni di salute non buone, però l’ayatollah di Mashad è rimasto
al suo posto e ha anche proseguito apparizioni e discorsi pubblici, ribaditi
alla vigilia dell’avvìo di queste presidenziali.
Ovviamente i detrattori
del velayat-e faqih, augurano al
Paese la dipartita fisica dell’ayatollah, sperando soprattutto di veder tramontare
il sistema clericale. E non è detto che costoro siano solo i nostalgici dei
tempi andati, che pure non mancano, oppure i giovani (e le ragazze) che sotto
l’hijab, sopportato più che portato, guardano all’Occidente non solo come
possibile riferimento politico, come faceva una parte di quella che fu l’Onda
Verde, bensì per moda e curiosità. Soggetti politici della capitale, che pur nella
sua importanza non è tutto l’Iran, rivolti a un concreto pragmatismo sono divisi
fra i riformisti pragmatici, tuttora speranzosi in Rohani, e i potenti
conservatori del partito dei Pasdaran, nuovamente stretti attorno a Qalibaf.
Costoro sul tema della conservazione della ‘supervisione del giureconsulto’
possono scambiarsi i ruolo. I riformisti di ieri seguaci di Khatami e gli
odierni epigoni sostenitori di Rohani perpetuano la vicinanza ai chierici,
differentemente da quei Guardiani della Rivoluzione laici cui stava e sta stretto
il potere clericale. Quest’ultima tendenza, comparsa anni addietro e censurata
dagli ayatollah più tradizionalisti e da Khamenei in persona, non è stata affatto
cancellata.
E tornando alla
congettura della possibile morte prematura della Guida, ecco che sulle attuali
elezioni, sui nomi dei candidati in corsa, sull’enigma di chi prevarrà,
s’aggira l’incognita di chi potrebbe ricoprire quell’incarico strategico voluto
da Khomeini e rimasto finora indelebile e prestigiosissimo, visto che
conferisce molto ma molto di più potere di qualsiasi presidenza. Giorni
addietro la tivù di Stato ha trasmesso il primo di tre dibattiti pubblici fra i
sei candidati che il 19 maggio si sottoporranno a giudizio dell’urna. Sono il
presidente uscente Rohani, lo sfidante del 2013 Qalibaf, tuttora sindaco della
capitale, l’ayatollah Raisi, custode del
sacro santuario Imam Reza di Mashad, l’ex vicepresidente (con Rafsanjani e
Khatami) Jahangiri, e due outsider: Hashemi-Taba e Mirsalim. Secondo i commentatori
la prima manche è andata bene a Qalibaf e Jahangiri, mentre Rohani con la sua
sorridente compostezza ha arrancato. Anche a causa dei pesanti attacchi rivoltigli
dal sindaco di Teheran che gli rinfacciava incoerenza e promesse non mantenute,
fra cui un programma sociale con quattro milioni (sic) di posti di lavoro che
non si sono visti. Nel rigettare l’accusa il presidente non ha perso l’aplomb,
ma ha picchiato duro anch’egli quando ha affermato di “non aver mai espresso le cifre riportate dal bugiardo Qalibaf”.
Così la composta
educazione del nuovo corso ritrova tono aspri come nel decenni politico
precedente. In effetti quella promessa sul lavoro risultava impegnativa per una
nazione sottoposta a sanzioni che non riesce neppure oggi, dopo quindici mesi
dalla caduta delle restrizioni, a fare passi concreti per l’occupazione dei
tantissimi giovani che sperano in un futuro migliore. E chi un lavoro ce l’ha,
come Bahram, 34 anni e incarichi tecnici nel settore metallurgico, che vede la
propria azienda in partnership con la ThyssenKrupp, a fine mese mastica amaro poiché
guadagna 1/5 di ciò che riscuote un suo collega tedesco a Essen. Bahram voterà
Rohani, perché guarda il presente e spera di conservarlo e migliorarlo in
futuro, almeno dal punto di vista salariale. Seppure non come accadrebbe se lavorasse
nel bacino della Ruhr. Un sogno irrealizzabile? “In assoluto, no - risponde -
ma per andare lì dovrei ricevere una chiamata personale dall’azienda partner e
non posso sperare tanto: perché dovrebbero scegliere proprio me? E poi se il
miracolo accadesse la mia azienda e l’amministrazione statale dovrebbero
concedermi permessi per l’espatrio”. Il tema è un’incognita con cui i
cittadini, nei vari ruoli, devono fare i conti, se è vero che ottenere un visto
di studio, come ci racconta Sara che dovrebbe recarsi in Francia a giugno,
l’attesa è di tre mesi e la preziosa ‘visa’ non è ancora nelle sue mani.
(1 - continua)
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