Purghe - Le purghe dirette e
legalizzate personalmente dal presidente turco che doveva essere disarcionato,
e secondo alcune indiscrezioni assassinato, hanno assunto da due settimane la
fisionomia della vendetta, investendo gli elmetti, le toghe, le cattedre e le
mezzemaniche della burocrazia. Tutti nemici. Tutti infiltrati dai fethullahçi, i seguaci dell’imam
riparato in Pennsylvania, seppure in tempi non sospetti perlomeno per le ultime
congiure fra clan islamici. Della comunità (cemaat)
chiamata Hizmet, ormai si sa quasi
tutto. Dall’impatto emotivo offerto dalle predicazioni di Gülen all’epoca dei
suoi sermoni nella moschea di Izmir, sino all’individuazione delle criticità su
cui puntare il dito: ignoranza, povertà, divisione per trovare i giusti
antidoti nella conoscenza, nell’arricchimento derivato dal lavoro, nell’unione
frutto di collaborazione. Su questi temi l’imam visionario e pragmatico ha
fondato l’impero dei licei privati e delle scuole di preparazione sino alle
università, due nella sola Istanbul, e un’invidiabile e seguitissima rete
mediatica con canali tv e quotidiani (Samanyolu,
Zaman) ferocemente colpiti, già nei mesi precedenti la repressione per il golpe
fallito.
Sufismo - Ma chi studia da tempo
l’Islam anatolico, come il professor Alberto Ambrosio insegnante associato
presso l’Université de Lorraine, col suo lavoro offre interessanti scorci di
comprensione dell’Islam che ha permeato per secoli la civiltà ottomana. Un mondo
organizzato e solo a grandi linee offuscato dalla battaglia kemalista per la
laicità della nuova nazione, uno scontro combattuto a suon di repressioni. Un
divieto venne adottato dal ‘padre dei turchi’ nel 1925 che mise fuorilegge il
sufismo ufficiale: i suoi ordini, i conventi, i santuari. La coercizione voleva
spezzare la conflittualità con cui una delle correnti storiche del sufismo (Nakșbendiyye) si scontrava con la nuova
identità statale, evidenziando, fra l’altro, la propria origine kurda. Ne scaturì
una lotta feroce con l’esercito kemalista e persecuzioni non inferiori a quelle
subìte da altre etnie, così certi ordini sufi s’incamminarono verso una sorta
di clandestinità spirituale. Per gli amanti della Storia lo studioso ricorda
come durante i cinque secoli dell’Impero Ottomano il sufismo (tasavvuf) trovò negli ordini (tarikat), comparsi già nel XII secolo,
uno strumento di diffusione di una fede con alti toni mistici e morali.
Tarikat storiche - La prima, sorta a
Baghdad nel XII secolo e denominata Kâdiriyye,
dopo tre secoli s’espanse dalla Siria all’Anatolia, giungendo sino al Corno d’Africa.
La seconda, chiamata Rifâ’iyye e
originaria dell’area di Bassora, ebbe un’ampia diffusione in Medio Oriente,
espandendosi sino all’Indonesia. Gli ordini erano fondati da mistici, sebbene
ci furono alcuni maestri (Ibn ‘Arabî) che, pur non formando una scuola, ebbero
una profonda influenza spirituale. Contemporaneo di ‘Arabî era Mevlâna
Celâleddin Rûmî, originario del Khorasan che si stabilì a Konya e rimase
celebre anche perché da quella confraternita prese vita la tradizione dei
dervisci rotanti. Il sufismo abbraccia, dunque, un’area vastissima che
comprende parte dell’attuale Iran, dell’Azerbaijan, del Turkmenistan. Dalle
confraternite del XII secolo (Yesevviye)
e del XIV (Nakșbendiyye) scaturirono ulteriori
legami e frazionamenti, le correnti che sopravvissero lo dovettero
principalmente ai buoni uffici e favori del sultano. Comunque Nakșbendiyye risultò l’unico ordine a
sopravvivere alle soppressioni decise da Atatürk, e poiché i sufi nei secoli
avevano condotto una capillare opera di islamizzazione nel territorio anatolico
(ma non solo, visto che la divulgazione riguardò anche i Balcani) tutto ciò
proseguiva nella stessa Turchia repubblicana.
Clandestinità
e associazionismo -
Ovviamente con strumenti diversi, da adattare alla citata grande repressione che
si protrasse sino all’inizio degli anni Cinquanta e non risparmiò anche ordini
celeberrimi come il citato dei dervisci rotanti (Mevleviyye). Una parziale distensione si ebbe sotto il governo di
Celal Bayar, che univa l’essere figlio d’un religioso alla personale adesione
al movimento dei Giovani Turchi. Fu questo presidente, in carica dal 1950 al
1960, a riaprire l’attenzione sociale ai problemi della fede. Poi negli anni
Ottanta, col premier e poi presidente del primo liberismo, Turgut Özal, l’Islam
sufista ritrovò spazio per agire alla luce del sole. Di Özal, infatti, si
diceva fosse prossimo alla Nakșbendiyye.
Col presidente Erbakan l’Islam politico, che aveva preso forma partitica, salì
sulla proscenio nazionale, pur subendo, nel 1997, gli ultimi singulti della
reazione militare. Il nuovo volto con cui le confraternite si presentano nella
vita quotidiana turca è l’associazionismo. La fede si mescola con aspetti della
tradizione culturale e s’allarga da questioni meditative e teologiche ad
aspetti filosofici, celebrativi, musicali che proliferano in istituti, scuole. Di
questo si occupano gruppi editoriali, orientati verso la massmediologia.
İskander
Paşa - In
più queste comunità, che sorgono attorno a moschee, rivolgono l’attenzione alla
vita quotidiana. L’esempio della cemaat İskander
Paşa di Istanbul, che si trova nel quartiere islamico per eccellenza della
fascinosa città sul Bosforo, Fatih, è sintomatico del fenomeno in atto da almeno
tre decenni. Ed è una fonte alla quale si sono ampiamente attinti gli epigoni
dell’Islam politico fondatori dell’Adalet
ve Kalkınma Partisi (Akp), a
iniziare dal suo mentore e prim’attore Erdoğan, oggi impegnato nel ruolo di
grande repressore della comunità di gülenista. Lo scopo dell’İskander Paşa, che pare superi il milione e
mezzo di affiliati, consiste nel proseguire e diffondere il messaggio islamico
interpretato dalle maggiori figure spirituali del sufismo. Dal proprio punto di
vista un Islam doc, che alla purezza religiosa aggiunge le strategie di
sopravvivenza, ascetica ed economica, in una società dove tecnologia e
modernità la fanno da padrone. Ora che l’Islam politico governa e controlla
quasi tutto, che l’imprenditoria ha creato una propria ‘Confindustria’, il
Müsiad, contrapposta alla laica Tüsiad, la prassi di strutture parallele nelle
quali ritrovarsi e identificarsi è divenuta ufficiale e lecita, ma
l’impostazione può risultare simile all’infiltrazione nella vita sociale
compiuta dall’Hizmet gülenista. Sempre nell’islamissima area di Fatih
sono presenti altre due comunità: İsmail Ağa e Yahya Efendi.
L’Opus Dei islamica - Così analisti occidentali,
magari avvezzi a paragoni europocentrici, hanno definito la comunità di
Fethullah Gülen che comunque, da anni s’è guadagnata la palma della struttura islamica
più organizzata in base all’impegno personale degli adepti, alla fedeltà
offerta ai superiori, ai legami creati dal Gotha gülenista in patria e
all’estero. Sicuramente l’abile operazione dell’imam turco che a fine anni
Novanta varcò l’Atlantico (temeva forse i generali kemalisti? o già pensava
alla lotte intestine fra islamici? o ancora puntava a radicarsi nella patria
del capitale da cui difficilmente sarebbe potuto vedersi cacciato, come
dimostra la maretta di questi giorni sulla sua richiesta di estradizione) fa
parte della storia recente del Paese. Erdoğan e Gülen, con le rispettive
matrici islamiche, rivolte alla rappresentanza politica pubblica il primo, alla
politica celata dietro l’impresa il secondo, possono essere le facce d’un
medesimo disegno volto a disarticolare lo statalismo laico, che per decenni
aveva impedito e frustrato le velleità di un’Islam che cerca affermazioni
rendendosi un credibile concorrente alla secolarizzazione forzata imposta da
Atatürk. Proprio il dna generazionale, sedimentato per secoli, nei luoghi più
vari dell’Anatolia che aveva visto l’Impero ottomano non estraniarsi dalla sfera
spirituale, ha serbato la novità dell’odierno Islam politico. Le conseguenti
faide per il potere, le tattiche per ottenerlo, le versioni conservatrici e
antidemocratiche che l’odierna Turchia mostra, possono angosciare ma non ne
cancellano insidie e originalità.
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