Nonostante le bandiere talebane che pavesano, quasi fosse una nave, la valle arida, stretta,
infida del Panshir – coi cinquemila e oltre del Kuk-e Kolzaro Zaghicha a ovest
e i quasi seimila di Mir Samir a Levante – il problema dei turbanti restano le
turbe interne. Scardinare l’ex rifugio del leone Shah s’è dimostrato cosa
semplice. Imprendibile ai taliban del primo Emirato, e a inizi anni Ottanta agli
assalti dell’Armata Rossa: il primo con mezzi corazzati di terra ed elicotteri
Gunship, il secondo con tanti militari in più, e un altro ancora con uomini e
mezzi, millesettecentocinquanta carri e blindati. Tutto inutile. Ma erano altri tempi,
c'era un comandante vero e soprattutto altre motivazioni. La presunta resistenza di
Massud junior è servita poco alla sua stessa propaganda, unirsi a elementi come
il torturatore di prigionieri Saleh, vicepresidente di Ghani, significava sommare
corruzione e terrore da contrapporre al terrorismo talebano. Poteva trovar credito
solo in bastian contrari alla Henry Lévy, neppure in combattenti tajiki che si
prospettano un fronte resistenziale migliore che per ora non esiste. Simbolicamente paiono
più efficaci azioni di resistenza passiva – ma potrà durare? – dei gruppetti di
donne che in varie città, capitale compresa, scendono per via in
quindici-venti, come hanno mostrato finora telecamere ufficiali di Tolo tv o i video di free lance locali. I
taliban preposti all’ordine pubblico con kalashnikov in bella vista,
lacrimogeni e spry urticanti le hanno minacciate e disperse. Le coraggiose
insistono. Qualcuna è finita male, e c’è stato di peggio: la poliziotta
Banu Negar è stata assassinata in casa, davanti ai familiari. Non l’ha salvata
neppure la gravidanza all’ottavo mese.
Se si tratta di reazioni sconsiderate di ‘teste calde’ che perdono il controllo, oppure di
direttive durissime che partono da comandanti ispirati dal vertice, si capirà
al momento dello scioglimento d’un nodo che sta diventando scorsoio: chi deve
guidare il secondo Emirato. I due gruppi in contesa per il dominio, sebbene
tutto fosse stato approntato già dalla scorsa settimana col binomio Akhundzada leader spirituale, Baradar
primo ministro più l’appoggio, oltreché
militare, politico di Yacoob, utile agli equilibri nella Shura di Quetta – è
messo in discussione da Sirajuddin Haqqani. Il liberatore di Kabul,
l’acceleratore dell’uscita statunitense dal Paese e della fuga per la salvezza di chi
non vuol restare sotto quel cielo. Se sarà solo una minoranza di qualche
decina di migliaia di filo-occidentali o una crescente massa di milioni di
profughi si vedrà nelle prossime settimane, diventate strategiche e critiche. A
tal punto che fra i partecipanti al rinnovato “Grande gioco” sono già in prima
fila il Pakistan, con l’attuale signore dei Servizi, il generale Hameed, nella
veste di mediatore fra i taliban afghani
per la formazione del governo. E l’emiro
qatariota Al-Thani, che sopravanza i presuntuosi vicini: il saudita bin
Salman e il principe di Abu Dhabi bin Zayad. Al-Thani acquirente di tivù, squadre
di calcio, campionati Fifa, promette petrodollari a un affamato Afghanistan, fornisce
aiuto tecnico per la riapertura dell’aeroporto della capitale, ammicca buoni uffici tramite la Turchia (e
probabilmente la Russia) per una stabilizzazione interna. Ma vicini gelosi già
dissentono – Teheran per bocca del neopresidente Raisi – e nel governo che può
accontentare anche gli Haqqani non ci sarà la variabile poco governabile
dell’Isis-Khorasan e dei manipoli della ‘strage perenne’ acquattati nelle Fata,
Nord-Warizistan, Beluchistan. Altro che Panshir…
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