Dopo le strette di mano si muovono le carte fra
il presidente che rincorre il presidenzialismo e il lupo grigio che accetta di sostenerlo
per non sparire. Sono le bozze della riforma costituzionale che i giuristi di
Erdoğan anticipano al leader nazionalista Bahçeli, prima
di presentarle in Parlamento per l’approvazione. Lì dovranno incamerare i voti
dei deputati dell’Mhp per poter far decollare il progetto verso il referendum
popolare. Tempi previsti: due mesi per il voto nel Meclis, cinque per le urne
di popolo. Il flirt fra i due capi, impensabile nei mesi scorsi, è maturato
alla luce del precipitare degli eventi, soprattutto a seguito del tentato golpe
di luglio. Quel passo ha totalmente messo a nudo la spaccatura dell’Islam
politico turco che, nella lotta per il potere, non ha risparmiato mosse estreme
come quella del colpo di stato e delle scudisciate repressive. E quando entrano
in scena i metodi forti la destra kemalista ha un irrefrenabile sussulto
empatico: sente profumo di galera e d’ogni coercizione praticabile. E’ come
risucchiata nel primitivo richiamo del sangue che ben conosce per averlo
teorizzato e praticato. Ed è questo il cemento che oggi unisce bahçeliani ed erdoğaniani: poter schiacciare
l’attivismo antagonista e libertario, le pericolose minoranze che non accettano
la supremazia turca, la gioventù libertaria multietnica dei grandi centri
urbani e anche tutto quel progressismo che ha costruito enclavi nei media e
nella produzione culturale d’ogni genere.
Schiacciare gli islamisti inseriti negli
apparati statali è per i lupi grigi un ritorno al passato, mentre per l’Akp
rappresenta un necessario presente. Una tattica la mette in atto lo stesso Bahçeli che non ama Erdoğan, e dovrebbe temerlo
perché sa di che pasta è fatto. Mettergli a disposizione 40 voti rappresenta per
le future elezioni politiche, foriere di bipolarismo e fors’anche di
bipartitismo, un azzardato regalo senza ritorno. I due blocchi saranno pro e
contro Erdoğan, e si salveranno i pesci più grossi: islamisti e repubblicani.
Eppure Bahçeli proprio di fronte al rischio di
sparizione sceglie d’offrire sponda al presidente, sperando non tanto nella
nicchietta dell’autoconservazione parlamentare, ma in una trasformazione
antropologica dell’Islam interno. Quest’ultimo oggi accantonerebbe un po’
l’identità della moschea, simbolo anche dei comuni nemici fethullaçi, ritrovandola
in quelle piazze che hanno respinto i traditori, cavalcando dunque il sentimento
nazionalista e l’orgoglio turco. Insomma il vecchio lupo, incalzato nell’Mhp
dalle contestazioni della Akşener, decide di giocare alla pari col capobranco
forte e in voga. La logica dà come soluzione più che scontata un inglobamento
dei nazionalisti in campo islamico, ma la novità che traspare è quella di due
mondi che si contaminano. Ne scaturisce un fronte ultraconservatore islamico,
se non direttamente fascista, con cui l’altra Turchia dovrà fare i conti. Un
pezzo di quest’altra Turchia, l’unica che probabilmente sarà organizzata in
opposizione così da poter sdoganare uno “scenario pluralista”, disprezza il
presidenzialismo, ma non sa come opporglisi. E’ il kemalismo repubblicano che
con Kılıçdaroğlu si lamenta delle strette repressive però afferma che “non c’è pericolo d’un serio golpe”.
Mentre gli stessi organi d’informazione
di quest’area vengono puntualmente dissanguati (lo scorso fine settimana oltre
alla dozzina di giornalisti anche l’editore di Cumhuriyet, Akin Atalay, è stato fermato all’aeroporto di Istanbul
e condotto in carcere) non s’intravede un limite alla criminalizzazione di chi
diversifica valutazioni e pensieri dalla linea di condotta del governo. In questo
cupo clima, che giustifica tutto col bisogno della sicurezza nazionale e che solo
pochi spiriti rimasti in libertà definiscono di caccia alle streghe, il
Parlamento si prepara a votare la riforma. Se non dovesse approvarla, ipotesi
inimmaginabile per il consenso di cui gode Erdoğan e il controllo che ha sui
deputati, il presidente potrà porre il veto alla decisione e rilanciarla per
cercare una maggioranza qualificata. Uno dei temi che molto appassiona i
politologi turchi riguarda una possibile incriminazione del presidente non per
responsabilità politiche, ma per crimini. Una
simile proposta era stata presentata in Parlamento proprio dall’Akp ed è in
fase di elaborazione da parte del Comitato di Conciliazione Costituzionale,
quest’ultimo può chiedere all’Assemblea dei deputati di pronunciarsi con una
percentuale di 3/4. La decisione finale spetterà alla Corte Costituzionale che
pronuncerà la sentenza. Un presidente colpevole dovrebbe finire in prigione. Ma
dei crimini ipotizzati non c’è un esempio che parla di diritti civili. Di giudici
- costituzionali o meno - pronti a puntare il dito sull’establishment non se ne
vede uno. Parecchi sono finiti in galera, incriminati per “terrorismo Fetö”.
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