Prendere Mosul e poi? Al di là del fronte composito anti Isis che
persegue interessi differenti sia sul terreno locale sia su quello dell’ampia
area regionale, gli analisti si domandano quali potranno essere gli sviluppi
del disegno fondamentalista del Daesh.
Il Califfato teorizzato da Al Baghdadi, materializzatosi dal 2014 nei
territori siriani frantumati dalla guerra civile e nell’area settentrionale
irachena, appunto attorno a Mosul, ha subìto dal gennaio scorso un
ridimensionamento calcolato in 13.000 kmq di territorio perduto a favore
dell’esercito iracheno, delle milizie peshmerga di Barzani, delle Unità di
protezione del popolo e delle donne del Rojava, delle truppe lealiste di
Damasco, dell’esercito turco. Appoggiate, secondo logiche geopolitiche e
alleanze, da altro combattentismo (Pkk, Hezbollah, battaglioni Al-Quds, Hashed
al-Shaabi) cui si sono aggiunti gli strategici raid aerei statunitensi e russi.
Questi attacchi hanno messo in seria difficoltà i miliziani del Califfo che non
posseggono strumenti per contrastare gli assalti dal cielo e hanno preparato
quelle offensive di terra che, come per la località di Manbij, hanno tagliato
le vie di comunicazione da Raqqa alla frontiera turca da dove affluivano
numerosi foreign fighters. I combattenti stranieri, un esercito di circa 30.000
uomini impegnato nel Daesh su descritto certamente retribuiti (visto che il
Califfo vanta denari frutto del proprio commercio petrolifero, contrabbandi,
donazioni, tassazioni) ma che non possono essere considerati semplicemente
truppe mercenarie.
Gli aderenti alla causa hanno scelto la “guerra santa” per via
politica o confessionale, e una volta sradicati dai territori in questione
torneranno nei luoghi d’origine. Tunisia e Marocco oppure Bosnia e Albania. E
ancora Francia, Germania, Belgio, Inghilterra, Paesi Bassi perché molti sono
giovani europei di seconda e terza generazione che hanno abbracciato jihad e
imbracciato kalashnikov. Ci si chiede quali saranno i ruoli cui punteranno in
base a logiche individuali, da cosiddetti lupi solitari, oppure indotti e
organizzati come la cellula di Molenbeek. Ovviamente se ne stanno interessando
le Intelligence, ma se tutto resta circoscritto a un programma di repressione e
prevenzione, soprattutto per ciò che s’è visto nei mesi a ridosso degli
attentati francesi coi Servizi di Parigi e Bruxelles tutt’altro che attivi e
collaborativi, i cittadini e gli stessi governi non dovrebbero vivere giorni
tranquilli. Fuori da allarmismi gli osservatori annotano che nonostante la
creazione d’un territorio dove far sventolare i propri stendardi e applicare la
Shari’a il numero di agguati rivolti
ai Paesi Ocse è aumentato passando dai quattro del 2013 agli undici del 2015.
E’ possibile che questa tendenza prosegua, facendo operare i propri militanti
nelle mille contraddizioni del tessuto socio-politico occidentale che rifugge
logiche d’inserimento e di accettazione della diversità islamica e pratica la
sola via del controllo repressivo e dell’esclusione.
Naturalmente il conflitto col jihadismo non si combatte
principalmente in Europa, dove esistono aree attualmente a basso impatto
terroristico (penisola iberica, Svizzera, Austria, Ungheria, Polonia). Ma i
conflitti alle porte sul Mediterraneo, la destabilizzata Libia e lo stesso
Egitto, due nazioni dove eventi recenti hanno creato solo caos o iper
repressione, attraggono entrambi le attenzioni dell’Isis. Dati forniti dall’Institute for Economics & Peace con
sede a Sidney, indicano per il 90% azioni classificate come terroristiche nel
sistema globale in aree dove turbolenze e instabilità politica sono di casa. La
palma spetta, accanto alle citate Siria e Iraq, ad Afghanistan e Pakistan, allo
Yemen e alla Nigeria. Quest’ultime nazioni sono state scelte dal jihadismo
nella versione qaedista e di Boko Haram, due fenomeni ultimamente in ribasso,
ma non azzerati, anzi. Taluni terreni di conflitto vengono conservati e
rinfocolati da quelli che sono i deus ex machina mediorientali, le nazioni
guida che cercano la supremazia nell’intera regione e che si scontrano in più
luoghi: monarchia saudita e Iran post khomeinista. C’è di mezzo sunnismo e
sciismo, ma non solo. Si affrontano e contrastano interessi economici
energetici, geo strategie con tanto di collateralismi con le superpotenze
seppure basati su alleanze tattiche che possono mutare o prendersi deroghe.
Gli Stati Uniti, ad esempio, grandi amici di Riyad continuano a combattere
quel qaedismo che la dinastia saudita foraggia, e che negli ultimi due anni con
la sigla Ansar al-Sharia s’è ricavato il controllo di un’ampia fascia di
territorio nella parte meridionale dello Yemen, dopo che il Paese è imploso
sotto i colpi ribelli l’etnia houthi. E che, dopo il diretto intervento
militare delle truppe saudite, sta conoscendo un conflitto etnico-religioso
dietro il quale si scorgono esplicitamente i tutori. Se in Pakistan i dati
dell'ultimo anno parlano a favore della scelta governativa di usare le maniere
forti come unica soluzione per il jihadismo lì di matrice talebana (però la
partita non è chiusa e la dissidenza dei Talib-i Tahereek sta a dimostrare come
nulla sia pacificato e risolto), si può affermare che i migliori alleati del
cosiddetto terrorismo sono le linee interventiste, le guerre d’occupazione
mascherate da “missioni di pace”. Afghanistan e Iraq, insegnano. Ma un simile
monito viene pure dalla Libia o dal citato Yemen. Talune considerazioni
lanciate non da capi talebani, bensì dalla gente comune e da quegli attivisti
schierati contro talib e signori della guerra, valutano molte peacekeeping come
situazioni d’ingerenza e controllo o apertamente d’invasione conflittuale
contro cui il jihadismo gioca la carta della resistenza verso l’occupazione
straniera e viene percepito dalla popolazione come un combattente della
libertà.
Esclusi i luoghi dove i mujaheddin della jihad lanciano quella che gli
esperti definiscono la “capacità simmetrica” volta alla conquista di spazi
fisici e territorio - come nelle
latitudini in cui i miliziani si sono insediati: le aree nigeriane, libiche,
del Sinai, lì dove tuttora si dà battaglia (Siria, Iraq, Yemen) oppure si punta
ad ampliare il controllo (province afghane) - tornerà in scena l’intenzione di
conservare e sviluppare una “capacità asimmetrica” che è fisica attraverso gli
attentati di matrice terroristica e con l’uso di kamikaze. Questi più che
eliminare un gran numero di persone (sebbene le esplosioni della stazione di
Atocha, i colpi del Bataclan, gli investimenti della Promenade des Anglais
restino incubi collettivi), mirano a diffondere paura fra i colpiti e
sensazionalismo fra cerchie sempre più vaste di pubblico. L’utilizzo della
tecnologia della rete, la presenza nei social network, le competenze che
permettono ai gestori di siti di collocarsi su piattaforme che sfuggono a pur
serrati controlli delle polizie mondiali nel cyberspazio, mostrano una particolare
attenzione alla linea della propaganda su cui l’Isis ha puntato moltissimo per
creare una sorta di mito del proprio progetto politico e, al tempo stesso, ha
attuato una meticolosa propaganda per la causa. E’ la versione digital d’un
reclutamento che passa ancora per madrase e moschee, ma che trova un
formidabile supporto nella tecnologia.
Al di là del dubbio se alcune scene truculente di
sgozzamenti,
mostrate dai filmati, siano davvero avvenute sulle spiagge libiche o siano
state riportate da altri scenari, oppure se anche certi video dell’Isis abbiano
avuto una regia occidentale, come rivelato dal Bureau Investigative of Journalism in merito ai messaggi visivi di
Qaeda risalenti a un decennio fa, esiste
comunque una concreta rete del combattentismo jihadista armato anche sul
fronte digitale. Sono attive piattaforme d’informazione e diffusione di
messaggi divulgativi in venticinque lingue e soprattutto il racconto compiuto,
centralmente da militanti o individualmente da simpatizzanti, risulta presente,
agile, seguìto. Tutto ciò produce tuttora imitazione con cui, chi s’oppone a
questo progetto, deve fare i conti. Nei pensieri della politica che lavora
fianco a fianco con le Intelligence e cerca di distinguersi dalla semplice
coercizione vecchio stile delle Rendition, che comunque non passano di moda,
balenano progetti di deradicalizzazione per via istituzionale. L’intuizione ci
fa pensare a una sorta di leggi sul pentitismo verso i miliziani che una volta
catturati e messi alle strette da condanne estreme, nei Paesi democratici con
procedure estranee da pene capitali, potrebbero introdurre una sorta di
disinnesco di soggetti irriducibili. Ma questo deve fare i conti con la
particolare ideologia di certo fondamentalismo islamico. E poi, non è detto che
l’economia della guerra, con radici
occidentali profondissime, non abbia bisogno del vituperato terrorista.
Un nemico che in certe situazioni gli sa essere amico o un comodo attore.
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