Vincono i sit-in e le barricate degli islamisti. Il premier pakistano
Abbasi abbassa la guardia e fa dimettere il contestato ministro della Giustizia
Hamid. Anche perché l’esercito, che il governo non aveva voluto mobilitare
nonostante il traffico verso la capitale fosse bloccato da tre settimane con
situazioni incresciose per l’intera comunità, ha fatto capire che avrebbe
disobbedito a ordini repressivi. Dunque, una delle due lobby della forza (l’altra
è la potentissima Inter-Service Intelligence) ha preso posizione a favore del
crescente movimento islamista, diventato partito: Tehreek-i-Labaik Ya Rasool, rinverdendo i trascorsi del generale
Muhammad Zia-ul Haq, il dittatore che negli anni Ottanta incentivò il
diffondersi nel Paese delle leggi islamiche. Il partito Tehreek è di recente
formazione, ma già conta di un discreto seguito elettorale; ora per le pretese
mostrate dai propri ulema cercherà di trarre vantaggio da un simile successo.
Che mette in discussione l’approccio mediatorio offerto dai leader laici legati
a clan familiari (Bhutto, Sharif) passati dai vertici nazionali a conseguenti cadute
per attentati o cause di corruzione. Nel luglio scorso Nawaz Sharif aveva dovuto
abbandonare l’esecutivo perché coinvolto nello scandalo dei ‘Panama Papers’. Alla
politica ufficiale, che colloca il Pakistan fra gli Stati in competizione per
l’egemonia regionale tramite un’alleanza privilegiata con gli Stati Uniti
tratteggiata da reciproche ambiguità, si contrappone l’azione dell’Islam
politico interno, variamente organizzato.
Per un lungo periodo i porosi confini occidentali hanno assunto la
funzione di rifugio dei combattenti talebani afghani appoggiati dai fratelli
pakistani. Tuttora i territori delle cosiddette Fata (Federal Administered Tribal
Areas) sono un mondo a parte dei due Stati che, comunque, sospettano l’uno
dell’altro. Le leadership afghane di ogni epoca e fase geopolitica hanno sempre
temuto una cannibalizzazione da parte dei vicini, quest’ultimi diffidano dell’instabilità
che i talebani esterni, in combutta con gli interni, possono portargli in casa.
I Talib stessi da almeno vent’anni non sono un’unica famiglia politica. Anzi. Scissioni
e differenti fazioni ne fanno entità diverse. Trattandosi di movimenti che
pongono al centro delle proprie scelte precisi indirizzi confessionali
applicati alla politica, occorre seguirne anche le evoluzioni. E nella galassia
del fondamentalismo islamista pakistano occorre distinguere orientamenti in
aspro conflitto fra loro: i seguaci delle teorie deobandi, influenzate dal
wahabismo, e i gruppi barelvi ispirati dal sunnismo hanafita. Fra quest’ultimi,
cui appartiene il movimento Tehreek-i-Labaik
Ya Rasool in azione a Islamabad, alcuni predicatori si mostrano integerrimi
nel sostenere lotte ma non sono propensi alla violenza, altri perseguono gli
obiettivi con ogni mezzo.
In passato i berelvi hanno condotto campagne politiche contro i
talebani di cui condannano il radicalismo armato e gli attentati suicidi.
Eppure c’è chi non crede allo spirito sufi che filosoficamente dovrebbe apparentare
molte anime del sunnismo asiatico, perché nella stessa esasperazione teorica
traspare quell’intolleranza di ritorno che caratterizza ogni fondamentalismo. E
la questione della blasfemia può diventare un pretesto per attaccare qualsiasi
espressione e manifestazione di minoranze religiose o le medesime posizioni
politiche avverse. I più preoccupati sono gli avvocati dei diritti che già
vedono perseguitati quegli attivisti politici e giornalisti fuori dal coro
accusati di islamofobia semplicemente in base a libere espressioni di pensiero
o resoconti di cronaca. Il partito di governo, Lega musulmana pakistana, che in
occasione di quest’ultima crisi ha assunto la posizione neutrale di
osservatore, scaricando ogni responsabilità al ministro della Giustizia e
patteggiando per lui coi religiosi che guidavano la protesta l’esenzione da qualsiasi
fatwa personale, sembra giocare col
fuoco. Il blocco sociale che lo sostiene è popolare ma incentrato su una sorta
di ceto medio, mentre gli strati più poveri sono maggiormente sensibili ai
richiami religiosi trasportati in politica. Un’accentuazione dell’identità
musulmana basata su questioni di rigore e purezza può sicuramente favorire
posizioni estreme. Il governo gioca sul clima di paura fra la gente, mentre
l’esercito potrebbe adottare la prassi doppiogiochista dell’Isi.
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