martedì 26 luglio 2022

Saïed, la vittoria facile in una Tunisia sempre più povera

 

Voleva vincere facile il presidente tunisino Saïed, per dare una verniciatina democratica al colpo di mano realizzato un anno fa. Da qui la comparsata della nuova Costituzione scritta da mani esperte e ritoccata con le sue manone da 'Robocop' a quattro settimane dal voto referendario. L’esperto di questioni giuridiche Belaïed, che aveva contribuito alla prima stesura della bozza, s’era dissociato. Ma il nuovo presidente-padrone, desideroso solo di superpoteri, non s’è minimamente scomposto. Anzi, non vedeva l’ora di giungere al capolinea della finzione con cui aveva promesso: “un Paese migliore“, “minor disoccupazione“, “un Parlamento disciplinato“, “una giustizia responsabile”, “tolleranza religiosa”, “una democrazia sana”. Eccolo dunque vincitore d’un referendum senza quorum, per il quale ha votato meno d’un quarto dei 9.5 milioni di tunisini iscritti nelle liste elettorali. Il manipolo dei fan festeggia, in testa tanti ragazzotti ingaggiati probabilmente a suon di dollari oppure semplicemente inconsapevoli d’un futuro peggiore del passato. Del resto fra la popolazione dei villaggi interni interpellata nei giorni scorsi da alcuni reporter in viaggio nel Paese profondo, dall’entroterra desertico alle aree minerarie, c’era chi rispondeva che sì era a conoscenza del referendum costituzionale, ma non aveva alcuna nozione sul contenuto della nuova Carta. Qualcuno annunciava che avrebbe votato, probabilmente sì, mentre l’opposizione, iniziando dall’islamista Ennahda, e anche altre forze o associazioni come gli avvocati dei diritti, ribadivano decisi il boicottaggio. 'Robocop' può vantare il 92,3% di consensi, ma trova circa otto milioni di concittadini che voltano le spalle alla sua imposizione. 

 

Quanto alla tanto promessa distensione sociale, credere che riuscirà a prender forma è una pia illusione. Perché l’enorme impegno governativo per inseguire il progetto costituzionale ha tralasciato le reali questioni del Paese. Che oggi, come ieri, sono economiche. Avere la zavorra dei clan familiari (Meddeb, Idriss, Mabrouk ecc.) che lucrano dividendosi gli affari dell’agroalimentare, turismo, grande distribuzione senza offrire alternative alla rinascita dell’imprenditoria interna, è un quadro logoro ereditato da regimi presidenziali che né islamisti, né liberisti hanno voluto risolvere. Saïed è incanalato sulla stessa via, con l’aggiunta di voler tornare al passato in fatto di polizia intimidatrice e sanguinaria. Il rischio che i quattro milioni di nuovi poveri corrono è non avere pane, né semola per il cous-cous, non solo per il blocco dei rifornimenti ucraini nei porti sul Mar Nero, ma per l’ondeggiamento dei finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale. Certo, l’autocrate Saïed piace all’Occidente, meno agli Stati Uniti da quel che s’è visto nei rapporti diplomatici degli ultimi mesi. Sul fronte nord-africano - quello che un occhio arabo definisce Maghreb e Mashreq - è in atto un plurischieramento di nuovi assetti. Le manovre che hanno visto la ‘dinastia Muhammad’ marocchina avvicinarsi a Israele e l’attuale Algeria, tornata in auge nelle relazioni coi volponi del vecchio continente per questioni di rifornimenti di gas, cercare nuovi spazi, devono fare i conti con l’Egitto di Sisi forte dei petrodollari emiratini che vuol dettar legge nella regione. Primi attori, protettori e alleati sono impegnati su una scacchiera mobile. La Tunisia, bisognosa di tutto, dipende per oltre il 70% del rifornimento energetico proprio dal suo confinante occidentale, e non può sottrarsi a una relazione con Algeri che, a est come a ovest, non vede di buon occhio le mosse di Rabat e del Cairo. Perciò il successo del super presidente inizierà presto a fare i conti con un Paese insoddisfatto che continua a emigrare, e otto milioni di oppositori o scontenti. I poteri offerti dalla nuova Costituzione possono servire a incatenare la popolazione, non a incantarla.

venerdì 22 luglio 2022

La presidente aborigena dell’India di Modi

 

Draupadi Murmu, che il prossimo 25 luglio rivestirà il ruolo di Capo di Stato indiano, è la seconda donna presidente del Paese. L’aveva preceduta dal 2007 al 2012 Pratibha Patil, laureata in legge e membro del Partito del Congresso. Murmu consegue un altro primato: è la prima ‘adivasi’ a salire così in alto. Sessantaquattro anni, giunge in politica dalla professione d’insegnante ed è stata candidata dal Bharatiya Janata Party il partito del premier. Draupadi è di origini indigene, appartiene alla tribù Santals, la maggiore dell’India, e nella mossa di Modi si può leggere il molteplice intento di lanciare una figura femminile a bilanciare il machismo politico vigente, giocare la carta di far rivestire l’alto incarico istituzionale a esponenti di aborigeni per velare l’apartheid confessionale rivolto dal suo governo ai musulmani interni. E ancora: promuovere una persona che ha speso anni di vita per l’emancipazione dei ceti poveri dell’area dell’Orissa, dov’è nata. Insomma un’operazione da populismo di ritorno, senza togliere nulla al valore di Murmu. Questo perché nella primavera che verrà la federazione indiana andrà alle urne e il Bjp, desideroso di conservare il potere, ma orfano del suo uomo-guida giunto al secondo mandato dunque impossibilitato a ricandidarsi, cerca di arrivare a quella scadenza coi maggiori punti d’appoggio possibili. La figura presidenziale nella nazione-continente ha poca voce su questioni politiche; ma se, come nel caso della Murmu, è un elemento amico, potrà (potrebbe) garantire quella tranquillità di cui necessita la focosa nazione indiana per rispondere a sfide sempre più complesse. Per questo il partito di governo e gli alleati, fra cui forze fascistisssime dell’estremismo hindu come Shiv Sena, hanno offerto il voto di sostegno alla presidente. 

 

La speranza che la società civile depone nell’ex insegnante riguarda i lunghi anni dedicati a poveri e diseredati, soggetti che in verità rientravano nella campagna populista di Modi sin dal primo successo elettorale. Analisti locali temono che la nuova presidenza ripercorra la strada di chi sta dismettendo l’incarico - il dalit Ram Nath Kovind - che nel quinquennio al vertice del Paese mai s’è ricordato delle origini e ha vestito i panni del fantaccino del premier. Se per l’elezione della Murmu ogni realtà ‘adivasi’ è in festa, gli studenti su tutti, alcuni commentatori posano lo sguardo su un manifesto di propaganda che mostra Draupadi con una scopa in mano, intenta a far pulizia in un tempio hindu ovviamente per renderlo più pulito, bello, accogliente. Metafora neppure tanto velata per un concetto di luogo di culto e casa madre per il popolo indiano. Ma si fa notare come la propaganda Bjp rivolta alle minoranze indigene voglia lanciare a esse accanto al richiamo alla scontata fede hindu, l’adesione all’inquietante progetto dell’hindutva, tutto razzismo e violenza. Su questo gli ‘adivasi’ dal pensiero libero sentono puzza di bruciato, intuendo come l’indipendenza della propria origine e cultura rischia di finire schiacciata. In passato figure di attivisti indigeni sono stati repressi e addirittura uccisi con le accuse più varie, anche di terrorismo. Di recente un movimento locale nel Chhattisgarh è stato azzittito con minacce di persecuzioni. I diritti delle minoranze tribali, su cui la politica governativa e parlamentare si misurano in promesse, non ricevono l’attenzione che meritano. Anzi, il rischio soffocamento è dietro l’angolo. In vari casi gli interessi economici, legati allo sfruttamento del sottosuolo, diventano oggetto di aggressione di aziende private nelle aree tribali - Chhattisgarh, Jharkhand, Odisha - già afflitte da malattie e malnutrizione. Sperare che il simbolo della presidente le aiuti non è un sogno, ma deve fare i conti con gli stessi grandi elettori di Draupadi Murmu.

domenica 17 luglio 2022

Egitto, liste per la galera

 

Spuntano i registri del terrore, le liste di proscrizione, brogliacci scritti a mano che portano in carcere presunti “terroristi” lasciandoli marcire per mesi o anni. Il New York Times mostra le immagini dei taccuini della vergogna di cui non si cruccia l’Egitto di Al Sisi. Uno strumento base della porta girevole delle sue carceri dove finiscono in custodia cautelare i cittadini, dagli oppositori conclamati come Alaa el-Fattah, a giovani critici stile Zaki, passando per le migliaia di detenuti (Human Rights Watch ne conta oltre 60.000) lasciati in bilico, dentro e fuori galera, con l’incubo di tornarci. E’ un pass-partout per fiaccarne la tempra e spegnerne le critiche a un regime odioso, ma molto amato da noi occidentali. Anche altri presidenti egiziani - pensate a Mubarak - governavano grazie a un soffocante sistema di detenzione,  ma Sisi e la sua cricca militare e politica, hanno organizzato il diabolico apparato di schedature e persecuzione degno delle più feroci dittature. La gente viene fermata per strada, visitata nelle abitazioni, monitorata sul web o nei luoghi d’incontro dove, sorbendo qahwa scambia quattro chiacchiere. Da questi luoghi può sparire senza lasciare traccia, senza che parenti e amici sappiano nulla, per finire in una stazione di polizia e poi in cella, in base alle leggi sulla “sicurezza” nazionale. Avvocati dei diritti, anch’essi puntualmente arrestati, denunciano da tempo questa realtà, totalmente ignorata da cancellerie e diplomazie mondiali pronte a spalancare le braccia ai satrapi del Cairo con cui intrecciano affari economici e militari. 

 


E’ un refrain ripetuto e inascoltato, nonostante le vittime eccellenti, Giulio Regeni è un nome a noi noto il cui assassinio ha creato fasi di tensione fra Italia ed Egitto. Eppure la politica di casa nostra ha scelto di stendere l’impietoso velo dell’interesse finanziario di Stato. Un interesse che sostiene il Pil del Belpaese, premiando Eni e Leonardo, energia e armi. Sangue e merda.  Ancor più fitte le pagine con nomi sconosciuti ai più, interni ai meandri egiziani e riempite dei Mohammad che nessuno cercherà perché sono ragazzi qualsiasi, gente comune, senza studi adeguati né coscienza politica. Mossi dall’intuito, dalla constatazione del marcio che li circonda, mossi dal coraggio che i mukhabarat da tempo azzerano a suon di bruciature, shock elettrici, colpi che non lasciano segno accanto a quelli che uccidono. Coi ricercatori, i dottorandi, com’è il caso di Patrick Zaki  con sentenza ancora in sospeso, è più semplice tenere le fila di contatti che certificano un’esistenza pur vessata, fra momenti di prigione e libertà vigilata. Chi è riparato all’estero, fuggendo prima di possibili catture, conserva sui social il passo dell’informazione, di una solidarietà che non vuole spegnersi. Sebbene sia una lotta impari col mondo degli apparati, ai quali le imprese e i governi lasciano carta bianca per quelle porcherie definite vigilanza. Chi finisce in prigione è accusato di cose di cui nulla sa. Il cittadino sospetto è bollato come terrorista, lo si incolpa di praticare o aiutare azioni illegali, reali o presunte, dalle quale deve discolparsi. Lui trova difficile opporre una difesa a congetture e iniziative fantasma che però viscidamente lo costringono a dimostrare l’estraneità. In sette anni quasi dodicimila persone sono cadute in quest’incubo giudiziario, davanti a corti e magistrati che, ben lontani dall’idea d’un giusto processo, volutamente ignorano qualsiasi forma di diritto.

 

Nei primi cinque mesi il cittadino resta prigioniero in base alle accuse del procuratore, il periodo può prolungarsi qualora l’indagine richieda altro tempo. Da qui parte l’altalena dei rinvii che rinnovano la reclusione ogni due settimane pur in assenza di formali accuse. Dopo i cinque mesi si passa a 45 giorni fra una proroga e l’altra e il tempo non giova alla difesa. Al contrario cosparge di pece il cammino verso l’agognata liberazione. Che può tardare o essere rinviata ad libitum, perché il detenuto finisce invischiato in nuove indagini. Così nel labirinto giudiziario e carcerario si perdono le coordinate, si sommano sospetti, accuse, processi in un ingranaggio kafkiano che il regime olia con perfida malignità. La casistica dei malaugurati caduti nella rete poliziesca del Cairo è ampia. Una coppia di sessantenni egiziani residenti negli States che sciaguratamente aveva deciso di fare una vacanza nel Paese d’origine è stata prima accusata dei soliti contatti terroristici, scontati due anni di condanna, si trova invischiata in un’ulteriore indagine. E l’incubo prosegue. Perché aver varcato la soglia carceraria, essere finiti sul librone dei sospetti non offre più garanzie di vita serena. In ogni caso non siamo davanti a un casuale mondo del male, il clima è frutto di meditati piani di potere politico criminale. Gratta, gratta ognuno dei segnalati ha avuto a che ridire del regime, magri in modo generico, non eclatante, ma tanto basta per essere marchiati come nemici del governo ai quali farla pagare. Pagare duro e a lungo. Le recenti avances di Sisi, evidenziate dalla stampa amica, con promesse d’aperture all’opposizione interna (quale?), amnistie a prigionieri hanno il loro rovescio della medaglia nei guai seguenti accaduti ad alcuni di loro, infilati mani e piedi in rinnovati processi. E arresti. Per non parlare degli investimenti edilizi del regime: abitazioni lussuose nelle city del deserto e luoghi di detenzione. Sessanta sono le carceri costruite dal 2011, e 16.000 le reclusioni nel biennio 2020-21, un’accelerazione da record secondo l’Egyptian Transparency Center.  

martedì 12 luglio 2022

Referendum tunisino, un sì per lo strapotere di Saïed

Rispondere sì, per uscire dalla marginalità e dall’esclusione” sostiene con piglio decisionista il presidente tunisino Saïed nel propagandare la sua personale Costituzione, sottoposta a referendum popolare il prossimo 25 luglio. Saïed non ha dubbi: ”Il primo compito dello Stato è realizzare l’integrazione. E questa verrà raggiunta coinvolgendo tutti nell’elaborazione della legislazione. Non c’è da temere per legalità e diritti se la legge primaria viene sottoposta a controllo popolare”. Per lui il controllo popolare consiste nell’assecondare il progetto con cui un anno fa ha preso “per mano” il Paese e dopo un po’ ha preso per il collo il Parlamento, impedendone le funzioni. I fedelissimi del suo disegno da golpe bianco, avallato dall’esercito e tanto simile al più noto percorso del presidente egiziano Sisi, hanno stilato una Carta costituzionale che, mentre mister Robocop  proclama di non guardare indietro, torna al 1959 o giù di lì. Quando il sistema costituzionale puntava al culto della personalità, sotto Bourguiba, oppure all’autoritarismo con Ben Ali, di cui si conoscono i favori dell’Italia craxiana per la conquista del potere. L’odierna Costituzione, che i tunisini potranno approvare consta di 142 articoli, offre ampie facoltà al ruolo presidenziale, privilegiandolo rispetto al modello semi-presidenziale e semi-parlamentare scaturito dalla Carta del 2014. Eppure uno degli estensori, il docente di diritto Sadok Belaïd, denuncia che, negli ultimi giorni, il testo è mutato in peggio, subendo ritocchi a suo parere pericolosissimi. Fra questi la deresponsabilizzazione politica del Capo di Stato a fronte degli accresciuti poteri, e la mancanza d’una visione economica, sociale e di sviluppo della nazione nella Carta da votare. Tali riferimenti, presenti o meno, purtroppo restano sempre su carta senza tradursi in atti concreti. Tardivo grido di dolore di uno degli estensori o lacrime di coccodrillo? Il cinico Saïed per un’approvazione plebiscitaria - visto che fra gli elettori resta il fantasma dell’uomo che non deve chiedere mai, l’importante che sappia decidere - strizza d’occhio all’anima musulmana della nazione, che pure un decennio fa credeva in una conduzione alternativa tramite l’islamica Ennahda

 

Il dibattuto articolo 5 della nuova Carta colloca la Tunisia nella grande Umma araba di fede e di lingua, quindi fa riferimento al Maghreb, un tutt’uno d’interessi e cultura (sic), poi però trattando questioni come i diritti, non occorre essere esperti per notare la contrazione di quelli sindacali e dei lavoratori, iniziando da uno  strapazzato di diritto di sciopero. Eccola l’altra faccia della medaglia oppure quella reale, che i commentatori non schierati col clan presidenziale ricordavano sin dalle prime mosse d’un disegno unilaterale, non aperto ad altre componenti politiche, utile solo a offrire copertura legislativa al colpo di mano realizzato un anno fa, un assist alle élites speculatrici locali avallato dalla comunità internazionale. Un perfetto ritorno al passato, con buona pace dell’affranto Belaïd. Nelle due settimane che lo separano dal voto, l’elettore medio potrebbe tener presente ciò che dalla scorsa primavera i suoi occhi, pur di semplice consumatore, stanno osservando. La penuria alimentare ha toccato il fondo. Gli scaffali dei market sono sprovvisti degli stessi prodotti primari: olio vegetale, zucchero, farina, semola e cereali in genere. E’ la diretta conseguenza della crisi del settore scatenata dal conflitto ucraino, è il disorientamento che la distribuzione di queste materie prime, finora assicurate da Ucraina e Russia, stanno creando in tutto il nord-Africa. Ma la situazione è disperante perché le garanzie dell’attuale sistema politico tunisino e del suo leader sono pari a zero. La popolazione sta peggio rispetto ai fratelli della Umma araba. Prosegue la politica del soccorso con la Banca Mondiale che ha promesso 130 milioni di dollari per tamponare le carenze più evidenti. Però le soluzioni sono lontane a Tunisi come nei villaggi dell’entroterra. L’assenza di piani economici continuano a porre il dilemma d’una cronica disoccupazione e di una sotto occupazione lesiva di diritti e dignità per i giovani, anche nell’unica fonte di reddito: il turismo dei resort. Che è ripreso e, in questa fase di scarso reperimento di alimenti, convoglia lì i pochi prodotti primari che continuano a scarseggiare nei mercati. Sottopagati nel lavoro di camerieri, addetti alle pulizie e alle cucine i ragazzi tunisini sognano solo di fuggire e farsi una vita altrove. Proprio come nel 2010. Andranno alle urne? si ritroveranno nel tardivo pentimento del giurista Belaïd? o invece sosterranno il nuovo uomo forte del vecchio mondo arabo?

mercoledì 6 luglio 2022

Tehreek-i-Pakistan, i terroristi da pacificare

 

E’ Mohsin Dawar, presidente del Movimento Nazionale Democratico e membro dell’Assemblea nazionale pakistana, il jolly che il neoformato “Comitato di supervisione parlamentare” gioca incontrando la delegazione dei Tehreek-e Taliban. I negoziati sono stati appena riavviati. La svolta di riaprire al gruppo considerato terrorista è stata giocata dal premier di aprile Shehbaz Sharif, dopo che il predecessore Khan, era stato contestato dall’intera opposizione anche per questo genere di colloqui, lanciati nell’ottobre 2021 e interrotti senza alcun esito. Le proposte del gruppo fondamentalista di scarcerare un congruo numero di propri miliziani autori di stragi irritava i militari. La Lega Musulmana N aveva preso a pretesto anche tali aperture per attaccare l’Esecutivo e rincarato la dose con le gravi difficoltà economiche vissute dal Paese per chiedere, e ottenere, la sfiducia al primo ministro. Ora lo stesso Sharif affronta un percorso simile.  Il trentasettenne Mohsin Dawar è un pashtun proveniente da una famiglia impegnata in politica. Il bisnonno partecipò alla lotta, non violenta, contro il Raj Britannico. Mohsin manifesta posizioni progressiste, è stato presidente della ‘Federazione degli Studenti Pashtun’ e, per le sue capacità mediatorie, è già stato impegnato nelle difficoltose trattative per il rientro di profughi nella regione del nord Waziristan. Lì nel 2014 l’esercito di Islamabad aveva fatto piazza pulita di militanti del TTP e pure di abitanti, accusati di dar loro sostegno e ricovero. Case, laboratori, rivendite di centinaia di famiglie erano state rase al suolo con bombardamenti. Le aperte prese di posizioni contro la lobby militare ha esposto Dawar a ritorsioni con reiterate carcerazioni, ma ne ha pure aumentato la popolarità che nel 2018 gli ha consentito l’elezione da indipendente nell’area tribale del Waziristan.

 

L’ingresso in Parlamento non l’ha posto al riparo da ulteriori arresti – una volta nel 2019, due nel 2020, un’altra ancora nel 2021 – comunque l’età e la tempra lo continuano a tenere in prima fila nelle questioni calde nazionali, e ora il governo chiede il suo contributo. Il “Comitato Parlamentare per la Sicurezza Nazionale”, che monitora i negoziati, gli assegna la posizione di uomo-immagine, ma dopo aver agito dietro le quinte stavolta la delegazione militare è ampiamente presente e la stampa locale la indica quale suggeritrice di Sharif per rimettere in atto quanto veniva contestato a Khan. Tratto peculiare delle attuali trattative è il profilo etnico, oltre che politico, sono infatti presenti vari capi tribali e chierici. Non si tratta solo di raggiungere un cessate il fuoco, azzerando gli attentati rilanciati nell’aprile scorso, ma di perseguire una vera fine del conflitto.  Il generale Javed Bajwa per le Forze Armate è fra le voci più accreditate del tavolo, stavolta senza rivalità apparenti ha accanto il direttore generale dell’Intelligence Nadeem Anjum. Ci sono poi il capo dei maulana Fazlur Rehman, l’emiro Haq per il gruppo Jamaat-i-Islami, un inviato dell’Emirato afghano, di cui non viene rivelato il nome forse perché non si tratta d’una figura di spicco, oltre a parlamentari. L’auspicato accordo coi TTP che risolverebbe un conflitto latente dal 2008 dovrà essere soggetto ad approvazione parlamentare. Certo i fuorilegge Tehreek per rientrare in territorio pakistano - ne vengono conteggiati 30.000 fra combattenti e familiari - dovranno accettare  consegna delle armi e rispetto della Costituzione, considerati elementi irrinunciabili dallo Stato pakistano. Il miracolo potrebbe verificarsi a detta di taluni osservatori: i TTP avrebbero ammorbidito la loro intransigenza su questi punti. In cambio giungerebbe l’amnistia generalizzata per tutti i prigionieri del gruppo.

giovedì 30 giugno 2022

L’Emirato della virtù

 

Nelle opinioni contro riportate dal quotidiano Le Monde sull’odierno panorama afghano spiccano le indignate dichiarazioni d’un diplomatico occidentale di cui non si rivelano generalità e nazionalità: “Loro (i taliban, nda) non governano affatto. La sola cosa che hanno messo in piazza dopo dieci mesi è la polizia religiosa, incaricata di far rispettare la Shari’a. Essi dispongono solo d’un quarto dei fondi del precedente governo, ma non hanno scusanti: non hanno nulla da lanciare riguardo a fiscalità, agricoltura, trasporti, infrastrutture, energia”. Agli occhi di qualsiasi abitante locale l’affermazione appare senza tempo, visto che questo è il quadro del Paese non da dieci mesi ma da decenni. Nel pur indiretto dialogo fra sordi il portavoce del famigerato Khalid Hanafi, ministro per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio dice: “Il nostro ministero è il più importante insieme a quelli dell’Interno e della Difesa (per la cronaca rispettivamente guidati da due uomini duri e puri dell’Emirato: il capo dell’omonimo clan Sirajuddin Haqqani e Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar, nda). La lotta per la Shari’a era già uno dei pilastri durante il ventennio di guerra. Noi siamo stati invasi anche culturalmente e bisogna ristabilire il valore di certi princìpi, soprattutto nelle città”. Avanguardie di questa “campagna” che i turbanti considerano una guerra “morale” sono settemila addetti del ministero, quasi sempre miliziani e guerriglieri e dunque elementi più votati all’azione che a riflessione e insegnamento. Certo, nei pattugliamenti sono accompagnati da qualche ‘dottore spirituale’ che calza il turbate nero simbolo della saggezza d’un rango superiore. Dalla sede dell’ex ministero degli Affari Femminili dove si sono installati dallo scorso settembre, i controllori della purezza perlustrano strade, piazze e altri luoghi, ammonendo e, in vari casi, punendo peccatrici e peccatori poiché trovano parecchie situazioni “irregolari”. 

 

Al di là della vestizione del burqa, al quale da qualche mese  sfuggono ben poche donne afghane, diverse di loro fermate per strada non riescono a giustificare l’uscita di casa senza un uomo al fianco. Quando la motivazione viene enunciata da una vedova la contraddizione stride, ma lei anche se va al mercato si sente rispondere che la sua condizione non la esime dall’essere accompagnata da un uomo di famiglia. Se quest’ultimo non fosse disponibile, la donna può tranquillamente restare in casa… Non c’è angolo che sfugge a verifiche, le scuole godono del privilegio di simili “visite”. Nel marzo scorso prima della mancata riapertura degli istituti femminili, “spiegato” col ritardo del confezionamento di uniformi per le studentesse peraltro mai consegnate, questi luoghi venivano setacciati periodicamente. Ora si continua con gli istituti maschili. Incursioni anche nelle sale per i ricevimenti matrimoniali. I gestori lamentano autorizzazioni più restrittive che riducono il numero dei clienti, riduzioni addirittura dimezzate e non per distanziamenti preventivi ai contagi da Covid. Nelle sale dei festeggiamenti sono obbligatori ambienti separati per uomini e donne, una situazione che si ripete nei luoghi pubblici, dai parchi agli spazi all’aperto. In alcuni casi c’è turnazione, ma il giorno santo del venerdì, la preghiera in moschea è riservata ai fedeli di sesso maschile. Eppure nella contraddittorietà di quanto oggi si dice e si fa, trapela qualche passo meno restrittivo: i taliban stanno impedendo la radicata forma tribale della pacificazione fra clan nemici col matrimonio, ovviamente forzato, d’una giovane sposa. Gli studenti coranici dicono non è contemplato dalla Shari’a. Inoltre un decreto del mullah Akhunndzada prevede che una vedova possa ereditare il diritto di una donna della famiglia di scegliere il marito. Non c’è da stupirsi, al ministero della Virtù sostengono che l’Emirato non è più quello del 1996. Ma certe attiviste afghane scuotono la testa: è propaganda – ammoniscono – come quella sotto i regimi Karzai e Ghani che proclamavano la difesa delle donne, ma lasciavano campo libero ai fondamentalisti. Eppure i funzionari occidentali, sopravvissuti all’occupazione Nato, pensano che in quegli anni si stesse benone.   

lunedì 27 giugno 2022

Egitto, fame di grano e mobilità avveniristica

Occorrono nove milioni di tonnellate di frumento all’anno per produrre il pane che sfama 70 milioni di egiziani. Così i due-terzi della popolazione che mangia tanti aish, continuerà ad avere cinque pani sovvenzionati al prezzo politico di 1.5 cent, anziché 4 cent cadauno. Da tempo il grande Paese arabo importa cereali, accade da decenni,  molto prima che il conflitto russo-ucraino bloccasse esportazioni e rifornimenti e che la conseguente speculazione dei grandi distributori e delle Borse mondiali facesse lievitare il prezzo del grano, come sta accadendo da mesi. Per quest’immissione di derrate il governo del Cairo è passato da una spesa di tre miliardi di dollari annui a quasi il doppio, una zavorra per il suo indebitamento. Nell’eventualità che le scorte russe e ucraine, costituenti il 62% degli approvvigionamenti nazionali, scarseggiassero, s’è aperto anche un fronte d’importazione dall’India. La quale nell’ultimo mese ha bloccato le cessioni per timore di carenze alimentari interne. Al Sisi cerca prestiti dal FMI, e vista la disponibilità a bloccare le migrazioni che partono dalle sue coste mediterranee verso l’Europa, la Ue metterà una buona parola affinché la direttrice del Fondo Georgieva elargisca contributi. Su un altro fronte politico le petromonarchie continuano a venire in soccorso al generale-presidente, è recente una loro tranche di 22 miliardi di dollari da cui dovranno scaturire contropartite. La più corposa è l’avvicinamento dell’Egitto alla ‘ricomposizione’ mediorientale prevista dagli ‘Accordi di Abramo’. C’è da star certi che quasi nulla dei finanziamenti del Golfo sarà impiegato in servizi di pubblica utilità. 

 

Quei capitali continueranno a finanziare il mercato immobiliare, modello cattedrali nel deserto come la New Cairo, che agli emiri tanto ricorda la recente storia con cui hanno plasmato villaggi di pescatori trasformandoli in Abu Dhabi, Dubai, Manama, Doha col loro sfolgorio di grattacieli in vetrocemento. Invece una notizia ha fatto colpo il mese scorso: Siemens, la storica marca tedesca, s’è accordata col governo egiziano per creare d’una rete ferroviaria di 2000 chilometri di Alta Velocità. Un appalto storico per la stessa società di Monaco che vanta 175 anni di attività industriale: oltre otto miliardi di euro. Il contratto comprende accanto alla struttura viaria, 41 treni che raggiungono 230/km orari, 94 treni regionali e 41 per il trasporto merci, più otto depositi e stazioni. Saranno collegate ben sessanta località del Paese. La manutenzione dell’opera risulterà a carico dell’azienda tedesca per un quindicennio. Le strette di mano fra Sisi e Busch, l’amministratore delegato di Siemens, facevano dire ai due che il grande Stato arabo avrà uno dei maggiori servizi veloci del mondo, e che sta per iniziare una nuova era per il sistema ferroviario non solo egiziano e africano, ma dell’intero Medio Oriente. La prima tratta di 660 km si svilupperà lungo l’asse Mar Rosso-Mediterraneo da Ain Sochhna fino ad Alessandria. La seconda, 1.100 km dal Cairo scenderà ad Abu Simbel, ai confini del Sudan, passando lungo il Nilo. Una terza partirà da Luxor puntando su Hurgada per 225 km. Nei piani di Siemens ci sono 40.000 posti di lavoro, più 6.700 nell’indotto. 

 

Poi, fra chi spera di muoversi diversamente in area urbana, sono comparsi i sognatori in bici. E’ chi vagheggia di diffondere coscienza ecologica contro un inquinamento segnato dalla perenne cappa di smog che soffoca una capitale di cui non si conoscono statisticamente le cifre: il numero degli abitanti oscilla fra i 15 e i 21 milioni, le auto attorno ai 6-7 milioni. Agganciato al desiderio ecologista c’è il pragmatismo di chi ambisce a un potenziale mercato di noleggio bici. Una clientela di nicchia esiste già, sono i giovani fedeli all’ambiente. Certo, garantire loro una sicurezza sulle strade è un fattore che sfugge a qualunque previsione per quanto risulti caotico, irregolare, incontrollato il flusso veicolare nella ciclopica metropoli. Non solo perché le piste ciclabili restano un’utopia, ma perché l’assedio quotidiano del traffico, rilancia l’idea di ampliare ulteriormente la rete stradale per sole autovetture in ogni angolo del Cairo, sbancando anche zone abitate. Accade da tempo a catapecchie e abitazioni della vecchia Cairo nella cosiddetta ‘Città dei morti’. Tombe e cimiteri soffocati e avviluppati a una stratificazione urbana millenaria, che rischiano d’essere tutti abbattuti per far posto alla superstrada che non risparmia neppure la collina di Muqattam. Nei punti dove la troneggiante moschea di Mehmet Ali convive da secoli con reperti cristiani, e ospita anche i tristemente noti, per abbandono e arretratezza sociale, copti zabbalin raccoglitori d’immondizia da generazioni. L’altra Cairo destinata a scomparire è quella galleggiante lungo le Corniche, fra Zamalek e El Warraq. Da domani le case galleggianti sul Nilo, apparse in tanta cinematografia esotica o vagamente tale e da anni trasformate in b&b per turisti, verranno trainate via. L’ordinanza della polizia non ammette deroghe, nonostante una petizione dei gestori cerchi di bloccare l’iniziativa. “La scelta” di Sisi, immortalata in una fiction, sembra non avere ostacoli.