Il Segretario di Stato statunitense, ex uomo del
petrolio di Exxon l’evoluzione della
potentissima Standard Oil, sta
dandosi parecchio da fare per ricucire il grosso strappo voluto dal regno Saud verso
la dinastia al-Thani. Crisi che preoccupa non solo i protagonisti diretti e
indiretti, ma numerosi alleati
occidentali. Gli americani, che di quell’area risultano ancora tutori sul
terreno geopolitico, militare ed economico, vorrebbero che tutti i clan degli
emiri smorzassero i toni, seppure sono i primi a sapere che la materia del
contendere non è di facile soluzione. Secondo i piani di Riyad servirebbe che i
fratelli qatarioti rientrassero nei ranghi, attuando più o meno il
comportamento dei dignitari vicini, attivi in affari, ma sempre pronti ad
accondiscendere ai loro voleri. I sauditi concedono agli alleati facoltà di
business, senza chiedere da dove il denaro provenga o vada a finire, e
soprattutto gli indica di non porsi velleitarie idee di guida di alcunché. Gli intraprendenti
membri della famiglia di Doha sono considerati troppo spregiudicati e, a detta,
dei Salman re e principe delfino, devono essere una volta per tutte
ridimensionati e riportati al rango di collaboratori della dinastìa islamica
prescelta, in realtà autoproclamatasi tale.
Mister Tillerson dopo aver fatto una puntata in
Qatar dove ha incontrato l’emiro Tamim e il ministro Abdulrahman al-Thani, s’è
recato a Jeddah per ascoltare nuovamente i sauditi. Con l’establishment qatariota
l’uomo del Dipartimento ha strappato un accordo proprio sulla lotta al
‘terrorismo’, tema su cui il Consiglio del Golfo accusa gli al-Thani di
tramare. In effetti l’indice dei Salman diretto sul governo di Doha quale
finanziatore di bombe e attacchi dell’Isis e della sua galassia, è stato
smontato da molti e varie voci analitiche. Più parti evidenziano che al più ci
può essere una compartecipazione al gioco sporco che coinvolge soprattutto quegli
emiri acquiescenti a tanta predicazione wahabita e figure dell’Islam politico
salafita. Comunque la quaterna araba che il Segretario di Stato ha incontrato a
Jeddah (sauditi, Bahrein, Eau, Egitto) valuta insufficienti i passi del Qatar.
Lui non demorde perché disinnescare questa nuova mina sull’infiammato terreno
mediorientale oggi sembra diventare una priorità per gli Usa. Fattori strategico-militari
(la quinta flotta in Bahrein, la base aerea di Ul-Udeid in Qatar) s’affiancano
a quelli economico-energetici e, nonostante sia passato un secolo e le Sette
sorelle anglo-americane siano controbilanciate dall’Opec, vedono statunitensi e
occidentali coinvolti affaristicamente su questo fronte.
Il viaggio con cui Tillerson si espone
personalmente, pur nel ruolo ufficiale di Segretario di Stato, segna un
percorso differente dal disco verde offerto da Trump ai sauditi più d’un mese
fa. Dalla ‘danza delle spade’ con cui gli emiri si sentivano coperti dal presidente
guascone, che un giorno via l’altro aggiunge intoppi, intrighi, incidenti per
potenziali scandali e un possibile impeachment,
si sta passando a un approccio più cauto, visto che sull’attacco al Qatar il
fronte del Golfo s’incrina, il Kuwait è propenso a trattative a oltranza, e la
solidarietà a piene mani a Doha espressa da Turchia e Iran diventa un blocco
anti embargo. Tillerson s’è ancorato proprio al piccolo Kuwait, quello per la
cui difesa da Saddam condusse i marines nella prima guerra del Golfo. Forse
proprio per aggirare nuove avventure dall’esito incerto i consiglieri del
Pentagono puntano su una più flessibile diplomazia. Il portavoce del Segretario
di Stato ha fatto sapere che le ormai famose 13 imposizioni ad al-Thani (fra
cui la chiusura di al-Jazeera) non
sono più valide. E nella riflessione su quali richieste avanzare, passa anche
la considerazione che lì “non ci sono
mani pulite”; sibillina affermazione che s’attaglia ad affari sporchi e
finanziamenti jihadisti. Washington certi intrecci li conosce bene, ora di
fronte a una crisi che potrebbe trascinarsi per settimane o addirittura mesi sembra
optare per un basso profilo.
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