Gerusalemme non è la
capitale di Israele, né potrà esserlo. Lo dicono 128 nazioni delle Nazioni
Unite, fra cui l’Italia (alleluja), che rigettano il piano Trump di fare
l’ennesimo favore alla politica annessionista dello Stato sionista. La reazione
americana è stata scomposta e minacciosa “Non
ci dimenticheremo di questo voto” ha affermato Nikki Haley,
l’ambasciatrice-militante del presidente Usa, che già aveva annunciato di fare
la lista di amici e nemici della proposta della Casa Bianca. Una vendetta che
ruota attorno al denaro, difatti esplicito era stato il riferimento ai fondi
d’aiuto previsti, soprattutto per i Paesi africani. Ma il fronte islamico di
quel continente e di quello asiatico hanno opposto un netto rifiuto di ‘farsi
comperare’ coi dollari. Anche alleati storici d’Oltreoceano, come diverse
nazioni europee, hanno voltato le spalle a una proposta unilaterale e divisiva
che mina una situazione già fortemente svantaggiata per il popolo palestinese,
da cinquant’anni sottoposto a un’occupazione militare illegale.
Israele, che delle
risoluzioni delle Nazioni Unite se ne infischia, ha rigettato la votazione; con
la sua solita boria Netanyahu dichiarava che “finirà nella spazzatura della Storia”. Il ricatto della mancata assistenza
non ha retto anche perché l’amministrazione Trump, nel continuare a rilanciare
il programma dell’America First, ha palesato un’ulteriore diminuzione per il
2018 degli aiuti esteri. Se la voce della cosiddetta “assistenza” globale
nell’anno 2015 ammontava a 58 miliardi di dollari (la metà dei quali erano
rivolti ad accordi economici bilaterali, il 35% alla sicurezza e sostegno
militari, il 16% all’assistenza umanitari), il budget per l’anno che verrà è
sceso a 25.6 miliardi di dollari. E l’orientamento degli stessi è ovviamente
direzionato secondo interessi geostrategici, ad esempio Israele riceverà 3.1
miliardi, contro l’1.3 dell’Egitto e uno della Giordania. I “regali” scemano a
caduta in base alla valutazione degli interessi americani, così si sa di 384
milioni di dollari all’Iraq, 104 al Libano, 55 alla Tunisia, 31 alla Libia, 16
al Marocco, ecc.
Lo stesso ricatto dei
fondi è un’arma a doppio taglio, è il caso di dirlo. Come ribadito, una parte
degli aiuti giunge sotto forma di armamenti e servizi per la difesa, e se nel
caso di Paesi arabi che ricoprono una funzione importante per posizione
geografica e influenza politica, prendiamo l’Egitto e l’Arabia Saudita, le
casse statali di ciascuno mostrano situazioni ben differenti, grazie a cui
Riyadh può permettersi di pagare in proprio la tecnologia bellica di cui viene
dotata. Ma è interesse degli stessi americani coprire più fronti possibili,
come hanno fatto negli ultimi cinquant’anni. A tale proposito diversi senatori
repubblicani lanciano l’ennesimo monito
verso l’attuale amministrazione che sta “compromettendo gli ultimi
cinquant’anni di politica estera”, incentrati sul binomio di un avanzamento del
processo di pace internazionale seppure letto secondo gli interessi di parte.
Ora gli Usa perdono il ruolo di mediazione che ne aveva caratterizzato varie
iniziative anche in Medio Oriente. E se nello Studio Ovale non se ne
preoccupano, il livello d’allarme cresce anche in casa repubblicana. Oltre che
nel mondo.
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