Talvolta piange Alì Eshani nella stanza che lo
ospita presso la romana Residenza universitaria de “La Sapienza”. Lui senza
casa da quando aveva otto anni, ha avuto per tetto le stelle, il buio cieco,
tende, sottopancia di camion nel suo viaggio verso la vita. Come milioni di
fratelli, migranti legali e clandestini, profughi e rifugiati, ha conosciuto
necessità e scoramento, disperazione e speranza, paura e coraggio. Una storia
cruda apparsa ai suoi occhi di bambino a metà anni Novanta quando tornando a
casa, in una delle case della periferia di Kabul, non la trovava. Credeva
d’aver sbagliato strada, si sentiva straniato fra la folla accalcata attorno a
un ammasso di macerie. Fu il fratello Mohammed a prenderlo per mano e svelargli
la cupa realtà: la loro abitazione era quella polvere, quei calcinacci
sconnessi. E sotto i sassi giacevano esanimi i genitori. Le ennesime bombe
della morte avevano compiuto quello che tutt’oggi continuano a fare. A quel
pensiero Alì si commuove, ora che può piangere solo di gioia per il percorso
chilometrico e ideale che ha compiuto e l’ha reso adulto. Sembra una fiction a
lieto fine, è la storia di vita di un turkmeno, adottato hazara, che ce l’ha
fatta. A “volare via libero come un
uccello” come gli ripeté per giorni il fratello maggiore per convincerlo a
fuggire dalla capitale afghana. Otto anni lui, diciassette Mohammed, pochissimi
denari raccolti fra amici e via prima verso il Pakistan, poi Iran e Turchia. Un
tragitto durato cinque anni. Il tempo per crescere in fretta e scoprire i mali
della terra e della gente. Varie persone, quelle che sfruttano i tuoi pochi
denari per farti transitare da un confine all’altro. Quelli che per darti cibo
t’assegnano lavori umilianti e che ti trattano male. Situazioni che conosciamo anche
noi perché si ripetono e s’ingigantiscono da vent’anni. E non vogliamo vedere. Alì
e Mohammed conobbero questa miseria dal 1997 all’inizio del nuovo millennio. Una
brutta realtà con cui hanno fatto i conti. Ma c’è stato del buono. Come il kurdo
di Istanbul, un uomo che fece da padre ai due fratelli, li nutrì, li ospitò, li
aiutò. Nel mondo si può sempre scoprire una faccia sorridente e questa visione
ottimistica è uno dei pilastri su cui Alì ha costruito un futuro che in
partenza pareva nerissimo. L’altro suo punto di forza è la scoperta che il sale
della vita è fare senza perdersi d’animo. Ovviamente non qualunque cosa,
certamente quello in cui si crede, gli obiettivi che, passo dopo passo, ti
prefiggi anche quando sei piccino. E se sei solo e sfortunato li insegui con
maggiore volontà. Alì era un bambino quando Mohammed, il fratello che era stato
con lui nei difficili anni del percorso fra nazioni e situazioni, gli disse “Ora provo questo passaggio (da Bodrum verso
un’isola greca) su un canotto. E’
insicuro, non ti porto con me, è pericoloso”. “Io frignavo, non volevo che mi lasciasse - racconta Alì in un
libro, perché ha realizzato anche questo –
lui ribatteva: se tutto andrà bene ti telefono e organizzo il tuo arrivo. E mi mise
in mano un cellulare che usavo inutilmente ogni mezz’ora. Per tre giorni
aspettai quella telefonata e provai a farne. Il numero era inattivo, dopo scoprii
perché. Chi aveva saputo del naufragio inizialmente non mi disse nulla, però io
capivo che qualcosa non andava. Cominciai a pensare che se Mohammed non
chiamava, quella morte che avevamo scampato in alcuni momenti forse se l’era
preso”. “Cinque anni dopo la morte di
papà e mamma, moriva anche Mohammed, avevo undici anni, ero solo al mondo in Turchia”, s’emoziona
e non può che piangere, rivivendo nei naufragi che proseguono la malasorte del
fratello. Eppure in questa storia, resa positiva dal carattere di Alì, ci
finiscono persone che fanno sperare nell’umanità: Bekir, il mercante del centro
commerciale di Istanbul, sua moglie Nuragica, i loro figli, diventati una
famiglia per Alì. Quindi Omar, un altro afghano di Kabul con cui tessé la via
per la Grecia. Fu lui a convincerlo a riprendere il viaggio “Sei qui da un anno, ti vogliono bene però come
clandestino non avrai futuro, resterai sempre solo il mescitore di tè. La vita
può offrirti altro”. Profetico. Perciò via, sempre di nascosto, con l’ennesimo
percorso periglioso, a rischio morte, perché il mare è più infido della
terraferma. Uno zainetto con poche cose: un paio di mutande, una maglietta, un
golf, dove si va si ricomincia sempre da capo. L’attesa, il mare grosso e la partenza
rimandata al pomeriggio.
Un passaggio con una barca, reso più “sicuro” dal
trafficante di corpi. Il distacco dalla famiglia turca, i cuori di tutti
infranti, la nostalgia e gli abbracci. In quella traversata Alì e compagni
hanno davanti l’animo crudo dello scafista, se potesse li lancerebbe con la fionda, ma “gli ostaggi sperano di comperarsi la
misericordia dei carcerieri”. Poi l’onda enorme e le altre. La barca bucata
a duecento metri dall’isola, il rischio di annegare perché, come molti, il
ragazzo non sa nuotare. Un bidone di nafta vuoto è il suo galleggiante e la sua
salvezza se non lo perderà, le sue braccia non sono forti. E arriva il miracolo
della terra. Racconta: “Vedo altri
fantasmi come me venirmi incontro, urlano, cantano, piangono dalla felicità.
Arriva una motovedetta che ci punta
addosso un potente faro. Non capisco le loro parole, deduco che non sia turco
ma greco. Siamo passati”. Alì e gli altri sono sulla spiaggia di Lesbo, i
primi interrogatori non glieli fanno dei semplici poliziotti, ma quelli rudi
impiegati contro i delinquenti veri. Danno botte allo scafista, facilmente
individuato, botte pesanti che cacciano il sangue. Quindi il trasferimento al
Centro d’accoglienza, dove giunge un’accoglienza speciale di altri profughi
tutti africani e nerissimi. “Non ne avevo
mai visto di così neri” sostiene Alì. Sono contenti, ballano e cantano,
dicono che entro tre mesi si va ad Atene, da lì in Europa e in qualsiasi
nazione. Tutti parlano della Svezia come posto migliore, seguono Germania e
Francia. A chi va male l’Italia. Nel centro c’è tensione, violenza, ma anche l’innamoramento
fra l’afghano Ashtam e la palestinese Zaynat che vogliono sposarsi. E le povere
e spesso sporche camerate vengono
trasformate dagli occupanti, tutti si fanno un’unica persona per ricordare
questo giorno come la festa che merita di essere un regalo per gli sposi. In tanti
sanno che quel matrimonio non ha valore legale, ma vederlo celebrare
dall’interprete che parla arabo e persiano dà a ciascuno una carica
particolare. La vita continua e con essa il viaggio della speranza, ora che Alì
ha anche dei documenti messigli in mano dagli assistenti del centro, il ricordo
di Mohammed l’accompagna ovunque, così lui ne cerca l’ipotetica salma fra certi
corpi che riposano in collina, sotto sassi di fortuna, dove sono stati inumati
gli sfortunati affogati quattro mesi prima. Certezza che uno di loro sia
Mohammed, nessuna. Comunque se non è lui sono altri disgraziati come lui. Dalla
tendopoli di Patra Alì spera di spiccare il volo in Italia, dentro o sotto un
camion. Giunge ad Ancona una prima volta ma lo scoprono e lo respingono. E’ già
accaduto ad altri, Alì lo sa e non si dà per vinto. Il viaggio che lo fa
sbarcare a Venezia arriva, è il 2003 prosegue per Roma. Inizia a stare meglio,
viene introdotto in una struttura per rifugiati, vive e studia presso la nota
“Città dei ragazzi” vicino Civitavecchia. E quando tutto sembra
tranquillizzarsi, dopo tante traversie, rincontra il sopruso. Alcuni impiegati
gli rubano la borsa di studio ottenuta grazie agli ottimi voti. Alì sa chi sono
i responsabili “ma questi stessi si
guardavano sorridenti e pacifici, ed era come se dicessero: certo andate a
denunciarci e vediamo a chi credono. Vediamo se mantenete il nostro letto qui
da noi”. Imbroglio dopo imbroglio nel 2009 finisce al Centro Enea, nel quartiere
romano di Boccea, dove lo incontrammo per la prima volta. Anche lì raggiri all’italiana,
autori due capetti dell’Arciconfraternita che dichiarano il doppio dei
rifugiati per incassare più fondi dal Comune, propongono pasti scadenti e
talvolta scaduti tanto da far finire al Pronto soccorso i ragazzi ospitati.
Si chiamano Ferrara e Zuccolo, anni dopo risultano
invischiati nello scandalo di Mafia Capitale orchestrato dalla coppia Buzzi-Carminati,
sull’onda della massima che “rifugiati e
rom rendono più della droga”. La scorza di Alì è dura per finire piegata da
certe miserie, la sua volontà è di ferro. Dopo le scuole dell’obbligo s’iscrive
alle superiori e si diploma a pieni voti presso il romano Duca degli Abruzzi.
Quindi sceglie la facoltà di Giurisprudenza. I professori che l’hanno avuto per
alunno gli restano amici, compagni di classe e colleghi d’Università
altrettanto. Trova un nuovo padre putativo - ne ha avuti tanti, tutti meritati
- in Giulio Currado, responsabile delle residenze universitarie, dov’è accolto
in base all’ottimo profitto.
Dopo la laurea breve, scrive assieme a Francesco
Casolo il racconto di quanto ha vissuto, s’intitola “Stanotte guardiamo le stelle“, lo pubblica Feltrinelli. La sua
storia non termina in quelle 261 pagine. Di pagine l’energico Alì continuerà
sicuramente a riempirne per Mohammed, per i genitori, per i fratelli afghani, per
tutti i piccoli profughi che, come lui, viaggiano per recuperare la vita.
Nessun commento:
Posta un commento