martedì 7 giugno 2016

Alì, uomo in cinque anni

Talvolta piange Alì Eshani nella stanza che lo ospita presso la romana Residenza universitaria de “La Sapienza”. Lui senza casa da quando aveva otto anni, ha avuto per tetto le stelle, il buio cieco, tende, sottopancia di camion nel suo viaggio verso la vita. Come milioni di fratelli, migranti legali e clandestini, profughi e rifugiati, ha conosciuto necessità e scoramento, disperazione e speranza, paura e coraggio. Una storia cruda apparsa ai suoi occhi di bambino a metà anni Novanta quando tornando a casa, in una delle case della periferia di Kabul, non la trovava. Credeva d’aver sbagliato strada, si sentiva straniato fra la folla accalcata attorno a un ammasso di macerie. Fu il fratello Mohammed a prenderlo per mano e svelargli la cupa realtà: la loro abitazione era quella polvere, quei calcinacci sconnessi. E sotto i sassi giacevano esanimi i genitori. Le ennesime bombe della morte avevano compiuto quello che tutt’oggi continuano a fare. A quel pensiero Alì si commuove, ora che può piangere solo di gioia per il percorso chilometrico e ideale che ha compiuto e l’ha reso adulto. Sembra una fiction a lieto fine, è la storia di vita di un turkmeno, adottato hazara, che ce l’ha fatta. A “volare via libero come un uccello” come gli ripeté per giorni il fratello maggiore per convincerlo a fuggire dalla capitale afghana. Otto anni lui, diciassette Mohammed, pochissimi denari raccolti fra amici e via prima verso il Pakistan, poi Iran e Turchia. Un tragitto durato cinque anni. Il tempo per crescere in fretta e scoprire i mali della terra e della gente. Varie persone, quelle che sfruttano i tuoi pochi denari per farti transitare da un confine all’altro. Quelli che per darti cibo t’assegnano lavori umilianti e che ti trattano male. Situazioni che conosciamo anche noi perché si ripetono e s’ingigantiscono da vent’anni. E non vogliamo vedere. Alì e Mohammed conobbero questa miseria dal 1997 all’inizio del nuovo millennio. Una brutta realtà con cui hanno fatto i conti. Ma c’è stato del buono. Come il kurdo di Istanbul, un uomo che fece da padre ai due fratelli, li nutrì, li ospitò, li aiutò. Nel mondo si può sempre scoprire una faccia sorridente e questa visione ottimistica è uno dei pilastri su cui Alì ha costruito un futuro che in partenza pareva nerissimo. L’altro suo punto di forza è la scoperta che il sale della vita è fare senza perdersi d’animo. Ovviamente non qualunque cosa, certamente quello in cui si crede, gli obiettivi che, passo dopo passo, ti prefiggi anche quando sei piccino. E se sei solo e sfortunato li insegui con maggiore volontà. Alì era un bambino quando Mohammed, il fratello che era stato con lui nei difficili anni del percorso fra nazioni e situazioni, gli disse “Ora provo questo passaggio (da Bodrum verso un’isola greca) su un canotto. E’ insicuro, non ti porto con me, è pericoloso”. “Io frignavo, non volevo che mi lasciasse - racconta Alì in un libro, perché ha realizzato anche questo – lui ribatteva: se tutto andrà bene ti telefono e organizzo il tuo arrivo. E mi mise in mano un cellulare che usavo inutilmente ogni mezz’ora. Per tre giorni aspettai quella telefonata e provai a farne. Il numero era inattivo, dopo scoprii perché. Chi aveva saputo del naufragio inizialmente non mi disse nulla, però io capivo che qualcosa non andava. Cominciai a pensare che se Mohammed non chiamava, quella morte che avevamo scampato in alcuni momenti forse se l’era preso”. “Cinque anni dopo la morte di papà e mamma, moriva anche Mohammed, avevo undici  anni, ero solo al mondo in Turchia”, s’emoziona e non può che piangere, rivivendo nei naufragi che proseguono la malasorte del fratello. Eppure in questa storia, resa positiva dal carattere di Alì, ci finiscono persone che fanno sperare nell’umanità: Bekir, il mercante del centro commerciale di Istanbul, sua moglie Nuragica, i loro figli, diventati una famiglia per Alì. Quindi Omar, un altro afghano di Kabul con cui tessé la via per la Grecia. Fu lui a convincerlo a riprendere il viaggio “Sei qui da un anno, ti vogliono bene però come clandestino non avrai futuro, resterai sempre solo il mescitore di tè. La vita può offrirti altro”. Profetico. Perciò via, sempre di nascosto, con l’ennesimo percorso periglioso, a rischio morte, perché il mare è più infido della terraferma. Uno zainetto con poche cose: un paio di mutande, una maglietta, un golf, dove si va si ricomincia sempre da capo. L’attesa, il mare grosso e la partenza rimandata al pomeriggio. 
Un passaggio con una barca, reso più “sicuro” dal trafficante di corpi. Il distacco dalla famiglia turca, i cuori di tutti infranti, la nostalgia e gli abbracci. In quella traversata Alì e compagni hanno davanti l’animo crudo dello scafista, se potesse li  lancerebbe con la fionda, ma “gli ostaggi sperano di comperarsi la misericordia dei carcerieri”. Poi l’onda enorme e le altre. La barca bucata a duecento metri dall’isola, il rischio di annegare perché, come molti, il ragazzo non sa nuotare. Un bidone di nafta vuoto è il suo galleggiante e la sua salvezza se non lo perderà, le sue braccia non sono forti. E arriva il miracolo della terra. Racconta: “Vedo altri fantasmi come me venirmi incontro, urlano, cantano, piangono dalla felicità. Arriva una motovedetta che ci punta addosso un potente faro. Non capisco le loro parole, deduco che non sia turco ma greco. Siamo passati”. Alì e gli altri sono sulla spiaggia di Lesbo, i primi interrogatori non glieli fanno dei semplici poliziotti, ma quelli rudi impiegati contro i delinquenti veri. Danno botte allo scafista, facilmente individuato, botte pesanti che cacciano il sangue. Quindi il trasferimento al Centro d’accoglienza, dove giunge un’accoglienza speciale di altri profughi tutti africani e nerissimi. “Non ne avevo mai visto di così neri” sostiene Alì. Sono contenti, ballano e cantano, dicono che entro tre mesi si va ad Atene, da lì in Europa e in qualsiasi nazione. Tutti parlano della Svezia come posto migliore, seguono Germania e Francia. A chi va male l’Italia. Nel centro c’è tensione, violenza, ma anche l’innamoramento fra l’afghano Ashtam e la palestinese Zaynat che vogliono sposarsi. E le povere e spesso sporche camerate  vengono trasformate dagli occupanti, tutti si fanno un’unica persona per ricordare questo giorno come la festa che merita di essere un regalo per gli sposi. In tanti sanno che quel matrimonio non ha valore legale, ma vederlo celebrare dall’interprete che parla arabo e persiano dà a ciascuno una carica particolare. La vita continua e con essa il viaggio della speranza, ora che Alì ha anche dei documenti messigli in mano dagli assistenti del centro, il ricordo di Mohammed l’accompagna ovunque, così lui ne cerca l’ipotetica salma fra certi corpi che riposano in collina, sotto sassi di fortuna, dove sono stati inumati gli sfortunati affogati quattro mesi prima. Certezza che uno di loro sia Mohammed, nessuna. Comunque se non è lui sono altri disgraziati come lui. Dalla tendopoli di Patra Alì spera di spiccare il volo in Italia, dentro o sotto un camion. Giunge ad Ancona una prima volta ma lo scoprono e lo respingono. E’ già accaduto ad altri, Alì lo sa e non si dà per vinto. Il viaggio che lo fa sbarcare a Venezia arriva, è il 2003 prosegue per Roma. Inizia a stare meglio, viene introdotto in una struttura per rifugiati, vive e studia presso la nota “Città dei ragazzi” vicino Civitavecchia. E quando tutto sembra tranquillizzarsi, dopo tante traversie, rincontra il sopruso. Alcuni impiegati gli rubano la borsa di studio ottenuta grazie agli ottimi voti. Alì sa chi sono i responsabili “ma questi stessi si guardavano sorridenti e pacifici, ed era come se dicessero: certo andate a denunciarci e vediamo a chi credono. Vediamo se mantenete il nostro letto qui da noi”. Imbroglio dopo imbroglio nel 2009 finisce al Centro Enea, nel quartiere romano di Boccea, dove lo incontrammo per la prima volta. Anche lì raggiri all’italiana, autori due capetti dell’Arciconfraternita che dichiarano il doppio dei rifugiati per incassare più fondi dal Comune, propongono pasti scadenti e talvolta scaduti tanto da far finire al Pronto soccorso i ragazzi ospitati.
Si chiamano Ferrara e Zuccolo, anni dopo risultano invischiati nello scandalo di Mafia Capitale orchestrato dalla coppia Buzzi-Carminati, sull’onda della massima che “rifugiati e rom rendono più della droga”. La scorza di Alì è dura per finire piegata da certe miserie, la sua volontà è di ferro. Dopo le scuole dell’obbligo s’iscrive alle superiori e si diploma a pieni voti presso il romano Duca degli Abruzzi. Quindi sceglie la facoltà di Giurisprudenza. I professori che l’hanno avuto per alunno gli restano amici, compagni di classe e colleghi d’Università altrettanto. Trova un nuovo padre putativo - ne ha avuti tanti, tutti meritati - in Giulio Currado, responsabile delle residenze universitarie, dov’è accolto in base all’ottimo profitto. 
Dopo la laurea breve, scrive assieme a Francesco Casolo il racconto di quanto ha vissuto, s’intitola “Stanotte guardiamo le stelle“, lo pubblica Feltrinelli. La sua storia non termina in quelle 261 pagine. Di pagine l’energico Alì continuerà sicuramente a riempirne per Mohammed, per i genitori, per i fratelli afghani, per tutti i piccoli profughi che, come lui, viaggiano per recuperare la vita.






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