Per
anni gli ha fatto da spalla, sosteneva che un buongoverno si faceva non avendo
problemi coi vicini. Ahmet Davutoğlu era il professore di scienze politiche e
relazioni internazionali prestato a un progetto diventato tutt’uno con la
scalata al partito, al governo, al potere di Recep Erdoğan. Dal canto suo l’ex
sindaco di Istanbul personalizzava l’Islam politico come un proprio modello da
esportare. Un modello, si diceva moderato, rispetto ai fondamentalismi che,
strumentalizzando il Corano, infiammano il mondo. Ma il soggettivismo di chi ha
sponsorizzato la carriera di Davutoğlu, dal 2009 ministro degli Esteri e
dall’agosto 2014 premier di una Turchia plasmata per un uomo solo, ha deciso di
troncargliela. L’incontro di un’ora e mezza avvenuto ieri fra il presidente e
il primo ministro di Turchia è solo l’ufficializzazione di decisioni già prese
nelle stanze che contano delle mille di cui il ‘sultano’ s’è dotato nel Palazzo
di Ankara. Le note affidate alle agenzie ufficiali riferiscono anche di un congresso
entro un mese del partito della Giustizia e dello Sviluppo che può eleggere un
nuovo leader. Il ricambio del premier giunge in una fase delicatissima nella
quale sono aperti molti fronti militari e politici per la Turchia. Il governo
sta cercando di arginare, con non poche difficoltà, gli attentati che l’Isis ha
condotto nel cuore della capitale.
E’,
inoltre, impegnato in una lotta senza quartiere contro il Pkk nei territori del
sud-est, per quanto l’instabilità abbia toccato molti altri centri, soprattutto
le metropoliti di Ankara e Istanbul dove egualmente si sono ripetuti attentati
di un fronte combattente kurdo. La repressione militare ha pesantemente colpito
la comunità kurda privandola di decine di militanti, attivisti, cittadini uccisi
in un rinnovato conflitto strisciante condotto sin dentro le proprie case con assedi
di settimane. Sul piatto della politica istituzionale c’è anche la delicata
partita che Ankara ha in corso con l’Unione Europea riguardo allo strabordante
numero di profughi presenti sul proprio territorio (tre milioni) che potrebbero
ulteriormente aumentare, perché la crisi siriana è tutt’altro che risolta e
decine di migliaia di persone cercano solo la fuga. Ma la Turchia, e Davutoğlu
in prima persona, che già avevano ottenuto il cospicuo finanziamento europeo
per la gestione dei campi profughi con un raddoppio dell’iniziale cifra
pattuita per l’accoglienza (tre miliardi di euro) si ritrovavano in queste ore
a festeggiare anche la liberalizzazione dei visti verso l’Unione per i
cittadini del proprio Paese. Visti un tempo negati e limitati a seguito del
clima dittatoriale presente nella vita interna, frutto dei regimi militari. Un
clima che tanti attivisti e osservatori internazionali affermano sia ritornato
e riportano all’attenzione della comunità internazionale i comportamenti autoritari
al limite dell’illegalità dell’attuale establishment, di fatto lo staff
erdoğaniano.
Da tre
anni l’opposizione interna e la stessa cittadinanza sono sottoposte a uno
stillicidio di norme restrittive riguardo a diritti, libertà di espressione,
manifestazione, dissenso, di cui si lamentano anche intellettuali di spessore
come il Nobel della letteratura Pamuk. L’ultimo bersaglio è il saggista Belge,
accusato di insulti alla figura del presidente solo per aver pubblicato
articoli critici sul suo operato. Una repressione che nel caso del fedele
Davutoğlu s’abbate anche sulla sua persona e sui ripetuti servigi,
intellettuali e diplomatici, cui s’era finora prestato. Qualcuno sostiene che
lo scarico dell’ex sodale salverebbe Erdoğan dalle critiche che riguardano l’intera
leadership nazionale, ma anche all’interno dell’Akp solo i più ciechi
galoppini, o i soci in affari col presidente, non distinguono quelli che sono
esclusivi personalismi autoritari. La stampa d’area liberale (Hurryiet) sostiene che nei giorni scorsi
Davutoğlu avesse rivolto un intervento ai vertici del partito, sostenendo una
totale estraneità a interessi personali nella vita politica. Probabilmente a
irritare ‘il capo’ sono state queste affermazioni del primo ministro: il
progetto presidenzialista non ha motivo per essere accelerato, né si può tenere
i giornalisti in uno stato pre-detentivo. Iniziative su cui, al contrario,
Erdoğan aveva espresso necessità impellenti rivolgendosi a parlamentari e
magistrati. Se Davutoğlu giunge al capolinea, le alternative potrebbero
giungere da Berat Albayrak, giovane ministro dell’Energia ma soprattutto genero
del ‘sultano’. Così la cosa turca diventa sempre più affare di casa.
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