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mercoledì 30 settembre 2020

India, sbriciolare la storia per soffocare altre fedi


Fra l’assoluzione totale, dopo circa trent’anni dai fatti, degli assalitori hindu della Babri Masjid - edificata nell’era moghul (XVI secolo) nella città di Ayodhya, India settentrionale - e la protezione di cui godono gli edificandi luoghi di culto della maggiore confessione del Paese passa una storia per nulla pacifica fra hinduismo e islamismo. Religioni contro, che si sono combattute anche violentemente nei secoli passati, con azioni simili compiute su entrambi i fronti. Eppure nell’India post coloniale, e ancor più nella moderna nazione voluta dal Mahatma Ghandi e Nehru, le forme d’ogni fanatismo, soprattutto quello confessionale, erano bandite e isolate. Si cercava la convivenza sulla base di quel multiculturalismo e di quella multi religiosità esistenti da oltre un millennio. Sebbene il fondamentalismo dell’hindutva, l’estremismo hindu filo fascista e razzista, aveva continuato ad agire organizzando movimenti politici e formazioni paramilitari. Un’eredità raccolta da quando esiste (1980) dal Bharatiya Janata Party, il partito che negli ultimi anni guida il Paese. Proprio alcuni esponenti legati alla formazione di governo (compresi vari ex ministri, e qualcuno assai anziano come Lal Krishna Advani, mentore di Narendra Modi) oggi sono stati graziati dalla Corte Centrale d’Investigazione riunita a Lucknow, motivo: la “mancanza di evidenza” nell’assalto, secondo i giudici “non pianificato”. Eppure nel dicembre 1992 molte migliaia di affiliati al ‘familismo hindu’ lavorarono con picconi e pale per azzerare quel luogo di culto e testimonianza storica. Asserivano che sotto le fondamenta ci fosse un tempio di Ram, divinità hindu, distrutto all’epoca moghul per creare quella moschea. In altre situazioni ci furono  demolizioni, distruttore di templi hindu fu il sultano di origine afghana Sikander, alla fine del XV secolo. Ma ad Ayodhya storici e archeologi hanno sempre escluso questa possibilità.


Ma quell’edificio era un simbolo, in una regione l’Uttar Pradesh a corposa presenza musulmana, e in una fase in cui l’hinduismo più fanatico, riunito nella Rashtriya Swayamsevak Sangh, cercava di ampliare il proprio seguito fra i fedeli e gli elettori. Nei primi giorni di quel dicembre l’ultradestra hindu organizzò carovane di seguaci verso il luogo dove avrebbe dovuto ‘risorgere’ il tempio di Ram, che poi coincideva con la Babri Masjid. Gli eventi, peraltro ampiamente documentati da immagini e filmati, confutano completamente il dispositivo dell’attuale verdetto: la distruzione fu pianificata, organizzata e portata a termine. E non contenti di polverizzare il luogo di culto i fondamentalisti si lasciarono dietro un’ampia scia di sangue con duemila vittime, in gran parte islamiche. Da quell’azione la vita comunitaria indiana è stata modificata, perché periodicamente si sono verificati episodi di assalti e violenze fra gli indiani hindu e islamici. Così fu negli anni Novanta a Bombay, a inizio millennio nel Gujarat, poi sempre nell’Uttar Pradesh a Muzaffarnagar, nel 2019 in Kashmir che ha perduto costituzionalmente la sua autonomia. E durante le chiusure per l’avvio dell’epidemia Sars CoV2 nella capitale Delhi. Il verdetto non ha tenuto in alcuna considerazione numerose testimonianze oculari di giornalisti e fotografi presenti all’epoca dei fatti, che ricordavano come proprio Advani impedì la presenza della polizia per disperdere i facinorosi. E la sentenza fa da corona ai passi attuati dal governo per l’edificazione di un grande tempio hindu ad Ayodhya. Lavori avviati quest’estate, con una cerimonia presieduta dal premier medesimo che ha scelto un’altra data simbolica, il 5 agosto, anniversario della contradditoria cancellazione dell’autonomia del Kashmir. Inutile sottolineare come a vigilare su questo cantiere ci siano le forze dell’ordine. Mobilitate a tempo pieno. 


 


lunedì 28 settembre 2020

Il Nagorno Karabakh entra nella giostra della supremazia turca

La  fase in cui la Turchia aveva un occhio diplomatico morbido sui propri confini e su chi vivesse al di là, s’è chiusa da oltre un quinquennio. Dopo essersi liberato del ministro Davutoğlu, che dell’esterofilia soffice era il gran cerimoniere, Erdoğan ha lanciato affondi alla sua maniera, con operazioni militari e sessioni diplomatiche. Quest’ultime alla bisogna rudi o furbescamente misurate, ma non senza una strategia: essere al centro della scena internazionale partendo proprio dai confini. Oltre i quali c’è tanto Medioriente che ha ribollito in questi anni, dalla straziante guerra siriana all’area kurda, strizzata dal Sultano con una feroce repressione interna e lacerata, nel corpo e nell’anima del Rojava, grazie al gioco a tre con Putin e Asad. Quindi il recente fronte del mare in versione patriottica - Mavi vatan - dove ci son dentro Libia, gas da scovare nelle zone esclusive, gas da trasportare con le pipeline e dunque affari, nel periodo terribile della pandemia di Covid che ha mandato a picco l’economia del mondo. Poi l’ultim’ora della nuova scintilla nel Nagorno Karabakh. Così anche su questo lembo di terra, che pare insignificante eppure  trent’anni fa creò una guerra con trentamila morti fra gli eserciti armeno e azero, si posa l’occhio di Ankara. Poiché, come accade per la minoranza di Cipro nord, il sangue turco scorre nelle vene degli epigoni azeri. Un pretesto? Probabile. Però in geopolitica quel che non esiste, s’inventa. E come l’amico-avversario Putin offre la sua protezione alla comunità armena di quelle terre, Erdoğan gli rifà il verso coi cittadini di fede islamica. Sebbene l’unica fede in campo sia quella geostrategica.

Se si osservano sulla carta geografica le zone descritte, la Turchia appare circondata. Molti più problemi coi vicini che situazioni tranquille, proprio a seguito della politica estera intrapresa negli ultimi tempi. Le vicende della ‘Patria blu’ proiettata nel Mediterraneo hanno messo in fibrillazione capi di Stato e capi bastone coinvolti ad esempio, nel presente libico. E potenze come la Francia, che per mettere le mani sugli idrocarburi locali, ne ha incentivato il caos sin dall’epoca della presidenza Sarkozy. Il fronte libico coinvolge per questioni securitarie, disegno autoritario e business l’Egitto di Sisi e le petromonarchie dei due Bin, il saudita Salman e l’emiratino Khalifa. Questi  autocrati, benvoluti Oltreoceano e carezzati dall’Eliseo, puntano a ostacolare la voglia di supremazia del presidente turco su un pezzo del mondo islamico. Ma i contrasti hanno un rovescio della medaglia esplicitamente finanziario. Da almeno un decennio, epoca della scoperta dei giacimenti gasieri sui fondali mediterranei orientali, l’area è in subbuglio. E in quel bacino s’affacciano piccoli Stati con tanti problemi e limitate pretese (Libano), nazioni con pretese esagerate e tanti nemici (Israele), Paesi dependance di terzi (Cipro) in gran parte bastimento di Atene, ma usata anche da Ankara per il contrasto aperto per lo sfruttamento dei fondali col secolare nemico. Sulle Zone economiche esclusive esistono accordi di massima (la più nota è la Convenzione Onu), ma fra alcuni Stati i patti non valgono perché ciascuno stabilisce regole proprie, come quella di considerare le isole (è il caso della Grecia nell’Egeo) un avamposto per ampliare la propria giurisdizione su mari e fondali.
Ma se la Grecia, membro Nato (com’è, e con un peso decisamente maggiore, la rivale Turchia) nel corso dell’estate ha rappresentato la punta con cui l’Unione Europea ha punzecchiato il desiderio di strapotere di Erdoğan, quest’ultimo, minacciato di sanzioni per gli scandagli presso l’isola di Kastellorizo, ha varie carte da giocarsi. Quella dei profughi siriani, tenuti sui propri territori, dura da quattro anni e gli consente i buoni uffici di Germania, Italia, Spagna che rappresentano quasi la metà dei cittadini dell’Unione. Eppure al di là delle scoperte presenti e future sui Zohr e Noor, Afrodite e Leviatano (i nomi dei giacimenti gasieri che convoglierebbero metano nel progetto EastMed), rispetto alle altre capitali di quell’area che disegnano il futuro energetico Ankara ha ben guardato oltre i suoi confini. Da anni sta lavorando per proporsi come hub energetico fra i continenti europeo e asiatico, stabilendo proposte e accordi con amici, avversari e strateghi senza scrupoli. In quest’ultima categoria il passo viene bellamente tenuto da Vladimir Putin con due pipeline - Blue Stream e Turk Stream - che saldano interessi finanziari e geopolitici fra i due statisti autocrati e pragmatici. Che si sono scontrati e guardati in cagnesco, ma dal 2016 hanno stipulato accordi. Strategici, militari, politici, economici. Ora sul lembo del Nagorno Karabakh, luogo d’instabilità con radici risalenti all’epoca di Stalin, si dovrebbero misurare le simpatie verso due nazioni che i leader mondiali adagiano su versanti opposti. Sebbene in politica le sicurezze non esistano, quest’incompiuta dovrebbe rimanere tale. E non dovrebbe incrinare l’asse interessato che Russia e Turchia si sono cucite addosso. Per questo Erdoğan aggiunge un tassello d’incertezza anche nell’area del Caucaso. Scavando nella Storia e scovando un altro nemico (gli armeni) grazie al quale guadagnerà consensi dentro il suo confine, rischiando poco sullo scacchiere internazionale. E pone sul lembo del Nagorno una bandierina del Risiko. Come fa Putin.

sabato 26 settembre 2020

L’Egitto per strada


Riprendono le proteste in Egitto attorno al tema degli abbattimenti di milioni di metri cubi edificati nelle grandi città, dal Cairo ad Alessandria, e in quelle periferie satelliti diventate esse stesse megalopoli. Da mesi ruspe e tritolo sono utilizzati per smantellare edifici piccoli e grandi; le operazioni sostenute dal presidente in persona come riorganizzazione urbana che mette ordine al caos edilizio, creano una caotica situazione a decine di migliaia di persone evacuate che non haano una chiara destinazione. Sarebbe interessante sapere quante di queste costruzioni abusive siano legate alle imprese appaltate dalle stesse Forze Armate, poichè una delle loro branche economiche maggiori è connessa proprio all’edilizia pubblica e privata. Ma gli affari lucrosi di generali ormai defunti o pensionati non costituiscono un freno alla ‘moralizzazione’ urbanistica lanciata dal regime. Questi però non disdegna, proprio nell’area archeologica di Giza, di progettare l’attraversamento della zona delle Piramidi con delle autostrade, di cui s’è parlato di recente. La reazione della cittadinanza, che vede sotto i suoi occhi venir giù le brutte costruzioni in genere dell’epoca Mubarak, è ampia. Viene contenuta dalla mobilitazione di decine di migliaia fra poliziotti e militari, di volta in volta convogliati nei luoghi di smantellamento. Le proteste s’allargano anche a più generali questioni di carovita e difficoltà di sopravvivenza per la riduzione, nei mesi scorsi a causa della pandemia da Sars Cov2, del micro commercio diffuso. Poi, come ovunque nel mondo, il totale azzeramento del flusso turistico ha bloccato la catena dell’indotto legato a quest’attività. E la crisi morde sul reddito di tante famiglie.
Si sono riviste manifestazioni in strada e s’è rifatto vivo anche l’uomo d’affari che parla dall’esilio, quel Mohamed Ali intervistato un anno fa da importanti media e accusatore dei meccanismi di corruzione che animano la lobby militare. In realtà aveva lanciato il sasso ma non mostrava prove a sostegno delle sue tesi. Comunque, a chi gli faceva notare che simili accuse perdevano di credibilità, rispondeva di non poterle procurare in patria poiché rischiava di finire fra i sessantamila detenuti. Cosa probabile visto l’onda lunga della repressione. Con la nuova sortita Ali si rivolge agli oppositori interni e a quelli riparati all’estero perché collaborino contro il regime. Fratelli musulmani, liberali, laici, senza partito a suo dire tutti devono contribuire alla rivolta contro Sisi. Dai loro blog non oscurati, gli attivisti rifugiati non sembrano dare importanza a questo signore, mentre il sito web indipendente Mada Masr conferma la notizia delle proteste di queste ore per le quali si registrano 150 arrestati, fra cui alcuni minori. Come al solito a costoro vengono contestate azioni che mettono a repentaglio la sicurezza nazionale e virano verso il “terrorismo”. Eppure dal suo esilio Ali insiste, invitando i concittadini a non rientrare in casa, a tenere posizione nelle strade, sebbene reale sia il rischio che il centinaio di fermi e arresti si possano trasformare nei 2.300 d’un anno fa. Chi certamente non tornerà a casa sono gli abitanti degli edifici abbattuti. Forse loro non hanno perso la speranza d’un cambiamento, ma per ora il tetto sì. 


venerdì 25 settembre 2020

Charlie Hebdo, l’incubo infinito

Nel riproporre la sanguinolenta scia e forse la ripetuta morte (uno degli accoltellati davanti alla sede parigina dell’emittente Premières Lignes Televison, dove fino a cinque anni fa c'era anche  la redazione di Charlie Hebdo, è in fin di vita) gli attentatori -  vedremo se saranno definiti jihadisti, lupi solitari, assassini consapevoli o assassini e basta - reiterano il gesto carnefice e distruttivo drammaticamente introdotto in questi anni. Il tempo scorre, l’idealizzato Stato Islamico, cui ‘macellai urbani’ come i fratelli Kouachi s’spiravano, è svanito, invece non tramonta il delirio omicida che ispira il fondamentalismo. Un fanatismo a 360° che ha avuto una versione per altre “fedi”, visto che bersagli non sono stati solo inermi cittadini occidentali falciati dal piombo e dai camion, sventrati da lame e machete. Lo sono diventati uomini e donne riuniti in moschea (attentato in Québec, 2017), passanti davanti a una Sinagoga (tentativo di assalto a Halle, 2019), giovani laici partecipanti a un campo estivo (strage di Utoya, 2011) e purtroppo i caduti in decine di altri episodi. L’integralismo è un asse portante di tendenze para politiche diffuse, difese e idealizzate da più parti se si guarda a quel che accade non solo nelle madrase del wahhabismo e di certe interpretazioni hanbalite dell’Islam. Viaggia sui tavoli della diplomazia internazionale che riscopre i taliban, ammettendoli in governi futuri. Siede sugli scranni di alcune petromonarchie carezzate dagli statisti occidentali, Macron in testa, che in queste ore giustamente lanciano anatemi contro i terroristi. Ma il terrore che, comunque, certa politica occidentale opportunista e collusa alimenta su varie piazze mondiali è sempre dimenticato per via, celato dietro interessi di parte, in un gioco infinito che diventa il giogo del libero pensiero. Ispirandosi a esso, la quintessenza della comunicazione che da millenni è la satira, propone percorsi e logiche anche davanti a chi per visioni del mondo o al contrario  chiusure, oscurantismi, propri fanatismi non comprende, rigetta, anzi accusa di blasfemìa concetti, frasi, disegni com’è accaduto alle vignette satiriche di Charlie Hebdo su Maometto. Quelle che produssero un attentato a colpi di molotov nel novembre 2011 e successivamente la vile e sanguinaria aggressione del gennaio 2015, con dodici vittime, dal direttore Charbonnier a vari collaboratori e poliziotti e passanti. Le stesse vignette che, riproposte poco più d’un mese fa, paiono diventate il pretesto per l’attuale nuovo giro di follìa. Rappresentano esse una ventata di libertà o una ruota libera che perde l’obiettivo primario di salvaguardarsi, finendo nel gorgo del fanatismo della lama? La questione non è temere ritorsioni o pensare d’essere meno salaci, bensì comprendere quanto altri punti di vista rendono sopportabile taluna satira. Le critiche ai fumetti su Maometto e al modo di porli erano venute, ben prima della criminale azione della coppia omicida di cinque anni fa, da studiosi della cultura islamica. Non imam o fedelissimi, ma docenti che consideravano eccessive quelle vignette perché irrispettose del Weltanschauung di quei fedeli. Cittadini normali che vivono a Islamabad oppure a Londra. Insomma si mancava di buon gusto. Detto da profondi conoscitori d’una certa società c’è da credere e cambiare registro. Non per abbandonare il diritto di satira, ma per meglio orientarlo. Che non vuol dire farsi suggerire su cosa ridere, ma magari far ridere anche l’oggetto della battuta, affinché sia scherzo e non scherno. 

giovedì 24 settembre 2020

India-Cina, confronto glaciale

Un luogo severamente proibito e duro, dove resistere contro la natura è quasi più difficile che contro il nemico. Indiani e cinesi si fronteggiano attorno al ghiacciaio Siachen, con i suoi oltre cinquemila metri d’altitudine già definito il più alto campo di battaglia della terra. Gli indiani l’hanno occupato e costituisce assieme all’area più meridionale del Ladack un’altra, e sicuramente più difficoltosa, zona dove i due giganti asiatici sono contrapposti. Finora a suon di spranga. L’episodio sanguinoso, con venti vittime tutte indiane, risale al giugno scorso, ora i militari coinvolti nel pattugliamento sono decine di migliaia su entrambi i fronti. Col sopraggiungere della stagione invernale gli esperti di Delhi sono preoccupati per la tenuta delle proprie truppe non abituate a quei luoghi, assolutamente spopolati, e soprattutto a un certo clima. La differenza con un altro confine conteso, la linea di controllo (LoC) con il Pakistan, è sostanziale. Nei punti dov’è aumentato il numero dei militari impiegati nella contrapposizione ai reparti di Pechino, anch’essi cresciuti di numero all’acuirsi della crisi, il clima freddo mette paura. E’ una zona che varia dai 4200 ai 5400 metri di altitudine, un frigorifero naturale dove la temperatura raggiunge i meno quaranta gradi, per giunta è un luogo ventoso, e stare fermi all’aperto per tempi anche non particolarmente lunghi può causare congelamenti. Oltre all’ipotermia, a edema polmonare e cerebrale, altri pericoli possono provenire dall’esposizione ai raggi ultravioletti per la rarefazione dell’atmosfera. Mantenere uomini pur equipaggiati da montagna in quelle condizioni estreme, può produrre danni seri o letali. Le difficoltà non afferiscono esclusivamente a questioni climatiche, l’ambiente è ostile per tanti aspetti, la presenza di venti gelidi comporta anche il trasporto di materiale sabbioso che congelato diventa tagliente. Chi è in quelle condizioni deve proteggere adeguatamente ogni centimetro del corpo. I comandi indiano e cinese dovranno prevedere turni di guardia brevi, inevitabilmente aumentando la quantità di militari impiegati con tutte le conseguente logistiche del caso. Nel corso dell’estate è iniziato lo stoccaggio di vari materiale, compresi milioni di litri di carburante destinato a riscaldare i baraccamenti d’alta quota.

Le condizioni locali impongono un vestiario protettivo del peso di circa otto chili, cui occorre aggiungere un kit di altri 18 kg, fra armi, munizioni e ulteriori strumenti operativi. La stampa di Delhi ha diffuso notizie che la tipologia d’abbigliamento necessaria ha reso necessarie commesse provenienti da aziende europee superspecializzate sui capi da alpinismo, una vera beffa per l’India fabbrica del mondo di tante merci. Ciò che preoccupa maggiormente i medici è la permanenza in un luogo tanto ostile non di atleti superallenati come gli scalatori delle pareti dell’Himalaya, bensì di uomini, seppure in giovane età, per lunghi periodi. Una scalata, accanto alla preparazione, ha i suoi tempi di durata e, imprevisti a parte, ha un termine. I pattugliamenti non richiedono performance in altura, però dureranno l’intero inverno, quindi fino ad aprile inoltrato. Pur ruotando, trovarsi a quelle temperature, talvolta in preda alle intemperie, può produrre serie alterazioni delle funzioni fisiologiche (disordini alimentari e quelli legati al ricambio) e addirittura vitali (pressione arteriosa, problemi respiratori e altro). Per tacere di possibili limiti di tenuta psicologica. Insomma il contrasto di confine pone un buon numero di militari dei due Stati a obbedire a ordini per controllare una fascia di territorio totalmente inospitale per chiunque e per non correre rischi di perdere unità si dovranno escogitare soluzioni. Inoltre  interventi d’emergenza, ad esempio il trasporto in elicottero all’ospedale del campo base di soggetti bisognosi di cura, sono legati alla meteorologia e nei mesi invernali i forti venti di quella zona impediscono questi voli. Dopo i gravi incidenti di fine primavera, e dopo un iniziale irrigidimento delle parti che s’incolpavano a vicenda, le due nazioni hanno iniziato a parlarsi per provare a risolvere la controversia. Finora hanno inanellato sei incontri fra gli alti comandi. Si sono mosse anche le reciproche diplomazie che hanno sottoscritto a Mosca “cinque princìpi-guida” da applicare: non aumentare il numero dei militari impegnati, rafforzare la comunicazione sul terreno, rifuggire incomprensioni e valutazioni errate, astenersi da mutare unilateralmente la situazione sul terreno, evitare ogni operazione che possa complicare i rapporti. Il primo dei propositi risulta strategicamente il più importante. Però bisognerà fare i conti col comandante supremo dei luoghi: il generale inverno. 


 

lunedì 21 settembre 2020

Colloqui inter afghani, ostacoli politico-giurisprudenziali

Dopo otto giorni dall’avvio dei colloqui inter afghani e cinque di contatti di lavoro le delegazioni governativa di Kabul e talebana hanno deciso di ridurre a venti gli articoli su cui stipulare un concordato. Inizialmente erano ventitré, ma sul nome dato al conflitto, sul sistema religioso scelto per le negoziazioni e sull’inclusione del precedente accordo firmato da Stati Uniti e turbanti, quale premessa per questo successivo patteggiamento, non c’è concordanza fra le parti. Le tre questioni restano in sospeso e potrebbero costituire un ostacolo insormontabile qualora non si arrivasse a compromessi. Non è comunque detta l’ultima parola perché i due fronti si mostrano collaborativi. Certo, i taliban non vogliono rinunciare al termine “jihad” usato per indicare la lotta che li ha visti finora combattere contro la Nato e l’esercito afghano da lei sostenuto. I governativi parlano di “guerra” e chi cerca di superare la contrapposizione ha proposto il termine “problema”. Definizione vaga e incolore seppur realistica, poiché se non si decide quale formula usare il problema diventerà quello di far proseguire i colloqui. I taliban poi pongono come base per qualsivoglia decisione negoziale la giurisprudenza hanafita. Su questo la delegazione di Kabul è più possibilista poiché la maggioranza pashtun si riconosce nell’Islam sunnita, aderente in quell’area a quella corrente. Inoltre la delegazione degli studenti coranici pone un netto rifiuto a menzionare il nome di altre fedi nelle circostanze in cui si fa riferimento a decisioni con una base religiosa. Però l’articolo 131 della Costituzione vigente in Afghanistan, dichiara che le Corti di giustizia devono applicare la giurisprudenza sciita nei casi che coinvolgono i fedeli di quel credo. Conciliante su quest’intoppo la posizione di Mohammed Mohaqiq, leader del Partito di Unità Islamica del popolo, un hazara sciita egli stesso. In una recente apparizione pubblica ha dichiarato che gli afghani “s’identificano in vent’anni di democrazia e si accettano l’un l’altro. Etnie, lingue, religioni erano state discusse nella costituzionale Loya Jirga e ufficialmente ci siamo riconosciuti e accettati”. Mentre il chierico Kalantari dichiara: “La giurisprudenza hanafita non è tutto, lo stesso vale per le leggi sciite. Abbiamo molti casi che credono come il diritto hanafita si riferisca anche ad altre scuole di giurisprudenza”. Basterà a convincere i talebani? Comunque più della fede potrebbe l’identità per il futuro. Gli attuali governativi non ci stanno a condizionare l’accordo che si dovrebbe firmare a quello precedente sottoscritto in febbraio, dal quale peraltro erano esclusi. Invece i taliban lo considerano il padre dell’attuale e di futuri accordi, sanno che nelle concessioni per il governo che verrà gli statunitensi si mostreranno più generosi dei politici di casa con cui dovranno convivere.

venerdì 18 settembre 2020

Kashmir, un anno disastroso

Crisi d’identità e sbandamenti nello Stato del Kashmir anche per quei politici che s’identificano con lo Stato indiano, ma che a causa della linea dura voluta dal premier Modi sono finiti, in alcuni casi essi stessi in galera, in altri hanno abbandonato la politica o meditano di farlo. “Cosa diciamo alla gente di fronte a una situazione che si ripercuote sulla quotidianità: chiusure di attività per insicurezza, prim’ancora che per la pandemia, violenze che si trascinano nelle vite private, mancanza assoluta d’un piano per il futuro, eccezion fatta che repressione e militarizzazione di villaggi e città?” è il grido di dolore di una di queste attiviste. Del resto l’occupazione dell’esercito di Delhi, che è seguita alle proteste popolari dopo la cancellazione, nell’agosto dello scorso anno dell’articolo 370 che ha azzerato l’autonomia locale, continua a incrementare azioni violente contro la “casta politica”. Ne fanno le spese anche elementi non allineati alle posizioni del premier Modi, ma semplicemente pro nazione indiana. L’instabilità è altissima a discapito della più elementare sicurezza. Alcuni di questi politici, intervistati da media internazionali, hanno dichiarato: Waheed Para del Pdp una formazione pro-India “La gente, e noi stessi, non avere più spazi dove vivere. La polizia ci intima di restare in casa, è questa la risposta a chi ha sostenuto la democrazia nella regione”. Yousuf Tarigami, politico di vecchia data e membro del partito comunista: “Siamo tutti sulla stessa linea, non c’è distinzione, ci ritroviamo in galera: politici dell’opposizione, separatisti, mainstream trattati come terroristi. La regione è diventata una prigione, chi ha diversità d’opinione può constatare un comune denominatore: il rischio d’essere detenuto”.  
A detta di analisti indiani i politici kashmiri sono molto misurati e posseggono una visione più aperta rispetto ai loro potenti colleghi di Delhi. Del resto il princìpio di autonomia regionale sancito dalla Costituzione nel 1947 tendeva a tenere in India un’area a maggioranza musulmana, invece il nazionalismo hindu rilanciato dall’esecutivo del Bharatyia Janata Party spinge per un’esasperazione dell’elemento confessionale con risvolti razziali e tutto ciò diventa un boomerang per la stessa politica interna. Così, quello che negli ultimi anni era comunque stato un disamore verso l’apparato statale con una diminuzione della partecipazione elettorale è diventato un ampio rifiuto non solo da parte della base, ma dei medesimi politici che animano le formazioni pro India. La forzatura centralista e nazionalista sul Kashmir sta diventando una ferita aperta per l’amministrazione Modi, e anche la commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani ha valutato come nell’area ci sia una restrizione nel dibattito politico e nella conseguente partecipazione. Certo, la sponda islamica della regione vede nella crisi d’identità dei pro indiani una questione psicologico-identitaria, e alcuni ricordano come fino a un paio d’anni addietro alcuni di costoro tiravano dritto, facendo i propri interessi di parte senza manifestare scrupoli. Chi è fuori dalla lotta di parte, come alcuni cittadini che hanno svolto o svolgono mestieri di formazione per i giovani, sentenzia categorico: “Situazione desolante priva di democrazia”. Aggiungendo che le iniziative del Bjp hanno solo radicalizzato le condizioni socio-politiche, rendendo soffocante la vita e insicura la regione sottoposta all’occupazione militare.

domenica 13 settembre 2020

Afghanistan, il prezzo della pace

Lo scenario è di quelli storici, come nei momenti topici degli accordi internazionali. Tavolate dove siedono le delegazioni a confronto, composte e quasi eleganti nei paramenti che gli sono consoni: completo scuro quella del potere afghano, guidata da Abdullah Abdullah, nominato presidente dell’Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale. Nel tradizionale shalwar kameez con annesso turbante il gruppo talebano diretto dal mullah Abdul Ghani Baradar. Nessuna parentela col presidente Ghani, che per mesi ha messo la sua persona e il ruolo di traverso agli accordi già sottoscritti nello scorso febbraio con la controparte statunitense, sotto l’occhio del gran cerimoniere Zalmay Khalilzad. Tutto questo è accaduto e si ripete a Doha, ospitati dall’emiro al Thani, dove la famiglia talebana ortodossa ha da anni un Ufficio Politico con le maiuscole, pronto a supportare la creatura che va riproponendo - l’Emirato Islamico dell’Afghanistan - versione forse corretta di quella attuata per un quinquennio prima d’essere estromessa dalla missione Enduring Freedom. Sono trascorsi diciannove anni di occupazione e guerra, aperta e strisciante. Sono trascorsi inutilmente. Hanno prodotto soprattutto stragi di civili. Le cifre risultano approssimative, perché col tempo i conti si sono confusi con la polvere e il sangue. Chi li ha tenuti come alcune Ong internazionali e quelle che, pur oggetto di attentati (Médecins sans Frontières) da parte di quelli che oggi cercano di patteggiare, offrono cifre ingrate: dalle 200.000 alle 300.000 vittime civili. Senz’altra colpa che abitare in quella terra contesa. Quindi i militari afghani morti (circa diecimila), quelli Nato (circa quattromila, più duemila contractor). Mentre gli studenti coranici reclamano un numero di perdite assai più elevato: settantamila. Eppure ci sarebbero nuove reclute da lanciare contro le truppe Nato, perché il ritornello di difendere la terra afghana dall’occupante straniero, nonostante i metodi dei taliban, fa presa su tanti giovani: per convinzione, costrizione, disperazione. Ma non è scomparso, anzi. L’hanno compreso anche i generali del Pentagono, quelli che sono passati per i terreni petrosi dell’Hindukush, quelli che si son dati alla politica, sul fronte repubblicano o democratico fa poca differenza, tanto da spingere un pragmatico, opportunista e narcisista come l’attuale presidente Trump ad accelerare il processo d’uscita dal pantano afghano e rivendere il disimpegno salvifico per le casse statali (questa guerra è costata ufficialmente mille miliardi di dollari, ufficiosamente duemila) in funzione della sua seconda corsa alla Casa Bianca. L’approdo dell’accordo sembra a buon punto, quello della sua rielezione è incerto, ma intanto a Doha si va a firmare e fermare un quadro afghano che dovrebbe chiudere un capitolo nerissimo durato quasi vent’anni.
Quanto a stilare un nuovo percorso per la vita del Paese ce ne passa. L’attuale ambiente istituzionale di Kabul, screditato secondo i talebani, dovrebbe accettare nell’enunciata formula dell’Emirato il futuro da costruire e ognuna delle parti sa che non si tratta di semplice enunciazione. La sostanza riporterebbe i costumi all’epoca delle esecuzioni pubbliche per lapidazione, ai divieti di studio per bambine e ragazze, a un ruolo femminile violentato e subordinato? I mullah dialoganti sostengono di no. Intervenendo all’apertura degli incontri Baradar ha citato un progetto “per uno Stato indipendente, sovrano, unito e libero, cui la popolazione può partecipare senza discriminazioni, in un’atmosfera armoniosa e di fratellanza”. Ma precedentemente aveva rilanciato i princìpi della Shari’a, e d’una personale lettura dei testi coranici, come cartina al tornasole per le leggi di domani. Posizione che affanna le donne e chi s’occupa della loro esistenza, meno la politica ufficiale imbellettatasi per anni con norme di genere anche sacrosante, per poi disattenderle di fatto, istituendo un ipocrita fondamentalismo democratico. Preoccupa la doppiezza talebana che enuncia da mesi il cessate il fuoco, sebbene periodicamente si registrino attentati e assalti. Gli accusati rigettano ogni responsabilità, ma delle due l’una: o bluffano (poiché nella propria galassia c’è anche chi è contrario a questo patto demoniaco) oppure i propri dissidenti e concorrenti (lo Stato Islamico del Khorasan) riescono ad agire indisturbati sui territori controllati dall’Esercito afghano e dagli stessi talebani ortodossi. La sostanza non cambia: la pacificazione del Paese non è garantita. Egualmente preoccupa la divisione fra coloro che nella parata di Doha vestono i completi occidentali della festa. Alcuni, cominciando da Abdullah sono capi clan che non vogliono perdere posizioni acquisite e sono disposti a tutto. Ci si trova, dunque, davanti all’ennesima recita di vari poteri sulla pelle della popolazione? Probabilmente sì. Alcuni passi appaiono consolidati: il ritiro d’una buona parte delle truppe Nato (rimarrebbero 4.000 militari, sugli attuali 12.000). Da collocare sicuramente nella dozzina di basi aeree che il Pentagono, in ogni caso, non vuol chiudere. 

Nella sala dei colloqui sul versante talebano è presente anche Mawlawi Abdul Haqqani, chierico e giudice della Corte di Kandahar, un purista dell’Islam con un forte ascendente sulla delegazione dei turbanti. Nella delegazione trattante avrà di fronte tre donne che Ghani ha voluto inserire fra i “governativi”. Habiba Sarabi, prima governatrice in una provincia, quella di Bamiyan, molto vicina all’ex presidente Karzai. L’immancabile Fawzia Koofi, deputata ormai di lungo corso e vicepresidente della Wolesi Jirga, tempo addietro ferita in un attentato attribuito ai talebani che quest’ultimi hanno negato. Certo è che Koofi ha spesso lanciato accese critiche all’epopea taliban (1996-2001), ma il suo impegno a favore delle donne è stato anche bollato da oppositrici e femministe come funzionale al sistema corrotto delle amministrazioni, prima Karzai, poi Ghani sostenute dagli Stati Uniti. Infine Sharifa Zurmati, già giornalista prima di entrare in Parlamento. Suo un iniziale intervento sulla necessità di affrontare i diritti delle donne e le libertà civili nel nuovo sistema politico.  Fra i temi posti sul tappeto uno appare drammaticamente assente: l’economia futura della nazione. Andando a ritroso: diciannove anni d’occupazione statunitense, quattro di regime talebano, quattro di guerra civile, altrettanti di caotiche scorrerie dei signori della guerra e circa nove d’occupazione sovietica hanno segnato tre generazioni di afghani finiti nei campi profughi pakistani e iraniani, vittime civili sotto le macerie, morti combattendo contro e a favore dei talebani, fuggiaschi all’estero, migranti della disperazione, impossibilitati a lavorare liberamente e dignitosamente. Tutto a svantaggio oltre che di se stessi, della ricostruzione economica del Paese. Ancor’oggi gran parte della popolazione sopravvive con occupazioni minime da un dollaro al giorno, arrabattandosi in commerci poveri e più o meno leciti, i “fortunati” prestano servizio nell’apparato burocratico spesso colluso con la politica della corruzione. L’Afghanistan rientra nel perverso modello dei territori controllati dall’imperialismo con la forza e la politica degli aiuti che impedisce qualsiasi emancipazione autoctona. Tuttora gli apparati dello Stato, capiclan e capibastone, compresi coloro che siedono ai tavoli di Doha, sono i supervisori e gestori dei miliardi di aiuti dirottati in loco dall’Occidente. E’ questo il Convitato di pietra con cui i dialoganti devono fare i conti. Senza autonomia economica non c’è futuro, né può esserci pace.

venerdì 11 settembre 2020

Pakistan, crimini su donne e bambine


Cinque anni aveva la bimba andata a comperare biscotti in un negozio della periferia sudest di Karachi, l’enorme porto pachistano sul Golfo dell’Oman. Non è più rientrata in famiglia. Il corpicino è stato rinvenuto giorni fa carbonizzato e un’indagine di medicina legale ha aggiunto orrore a orrore: la piccola era stata stuprata. Purtroppo simili episodi sono frequenti nel popoloso Paese islamico, che come ovunque nel mondo conta un’infinità di crimini di genere. Poco dopo a subìre lo stupro da parte di due trentenni, poi individuati dalla polizia, è stata una donna che viaggiava in auto con la prole. Fermatasi nella città Gujranwala, nel Punjab, perché la vettura aveva esaurito il carburante s’era vista avvicinare dalla coppia. L’oscurità e l’isolamento hanno favorito la bestialità dei gaglioffi responsabili d’un vero assalto con tanto di rottura dei vetri e del rapimento della madre sotto gli occhi dei figli atterriti. La donna, oltre allo stupro, ha denunciato il furto di gioielli e denaro, ma s’è sentita accusata dal capo della stazione di polizia cui s’era rivolta di comportamento non consono alla sua incolumità. Così la vicenda è finita sui media e sui social rilanciando un acceso dibattito sulla condizione femminile. Sono intervenute avvocate dei diritti, personaggi pubblici, lo stesso premier Imran Khan, che ha condannato gli episodi, compresi i commenti del sedicente tutore dell’ordine. Per l’eco sollevata in varie città si sono svolti cortei, centinaia le donne urlanti nel  richiedere la pena di morte per questi crimini. Periodicamente simili proteste agitano le affollatissime strade pakistane, dove fra l’altro rapimenti di bambini finalizzati alla brutalizzazione sessuale diventano frequentissimi. Le attiviste denunciano come accanto all’aberrazione convivono un fatalismo e una mercificazione del corpo femminile oggetto d’un crescente degrado delittuoso. Ma cresce anche un maschilismo laico che affianca l’oscurantismo del fanatismo confessionale, teorizzatore d’una donna sempre e comunque subordinata. Infatti il poliziotto domandava alla signora stuprata cosa ci facesse di notte per via, perché non si fosse premunita con un sufficiente pieno di carburante. E soprattutto perché non viaggiasse con una figura maschile al fianco. Gran clamore sulle vicende, ma regole sempre lasse riguardo alla violenza di genere e allo sfruttamento dei minori. Il Pakistan occupa la 147^ posizione su 182 nazioni riguardo ai diritti dei bambini, nei suoi distretti gli indici di mortalità e di malnutrizione restano altissimi.

mercoledì 9 settembre 2020

Kabul, il vicepresidente Saleh sfugge a un attentato


Salvo per miracolo sebbene lui minimizzi “Ho solo qualche bruciatura su una mano e al volto”, Amrullah Saleh era l’obiettivo d’un attentato compiuto stamane nell’area nord est di Kabul, a Taimani. Mentre il suo convoglio transitava per via è esploso un ordigno che ha fatto dieci morti e una ventina di feriti, anche per il coinvolgimento d’un deposito di bombole di gas. E’ probabile che chi ha organizzato l’agguato esplosivo sapesse di quello spostamento. Attualmente Seleh è vicepresidente afghano sulla sponda di Ghani, che l’ha voluto in quel ruolo reclutandolo anche per la campagna elettorale. Ma nel Paese ha ricoperto altri incarichi, facendosi diversi nemici interni ed esteri. Dal 2004 al 2010, dunque durante il primo mandato presidenziale di Hamid Karzai e all’inizio del secondo, è stato il capo della sicurezza. C’è da considerare che la carriera ufficiale di Saleh era iniziata prestissimo, aveva 22 anni. S’era forgiato nelle file dell’Alleanza del Nord, post guerra civile, avendo come riferimento il comandante Massud, tajiko come lui. E sul tema delle etnìe Saleh non ha mai nascosto il suo pensiero: occorreva trovare una coabitazione fra le componenti, dunque nessuna concessione alla maggioranza pasthun. Già questa era un’idea poco consona al falsamente diplomatico Karzai, sostenitore del tribalismo del pashtunwali, e soprattutto del clanismo legato agli affari di famiglia. Probabilmente parte dei suoi dissapori col presidente, sfociati nella critica alla corruzione del ceto politico interno, riguardavano simili contorni. Inoltre Saleh, ferreo oppositore ai talebani e ai loro sponsor pakistani, si mostrò tenacemente contrario ai tentativi di colloqui di pace avviati un decennio fa dalla stessa Cia e avallati da un Karzai che pensava soprattutto a continuare il secondo mandato per poter proseguire l’affarismo familiare, lecito e illecito, basato sulla gestione dei fondi internazionali e sui traffici internazionali di oppio curati da uno dei fratelli.

All’epoca Saleh sosteva: “La mia opinione è che non ci debba essere un accordo con i talebani. Mai. Deve esserci un processo. E secondo quel processo, basato su quel processo, i talebani dovrebbero diventare parte della società e giocare secondo il copione della democrazia. Dovrebbero essere smobilitati, disarmati, reintegrati come fu l'Alleanza del Nord. E dovrebbero anche denunciare la violenza. E quel processo porterà una stabilità duratura. Se ci sarà un accordo, non ci sarà mai stabilità. Gli accordi creano fragile pace. Se c'è un accordo, resisteremo contro l'accordo, "noi" intendendo tutte le forze che hanno combattuto i talebani”. Per la cronaca, quei colloqui di pace fallirono. Saleh si ritirò dall’incarico ricoperto, non prima d’aver avuto contrasti col presidente pakistano Musharraf che aveva invitato a pronunciarsi sugli aiuti forniti dall’Intelligence di Islamabad a vari gruppi talebani. Musharraf considerò la sortita un’indebita ingerenza non rispondendo mai a quella che ogni analista considerava una palese e tragica realtà. Privo d’incarichi governativi Saleh continuò la propria presenza sulla scena afghana fondando il gruppo Basej-e Milli che registrò un discreto seguito non solo nella provincia tajika per eccellenza, il Pashir. L’ostinazione anti talebana della sua politica gli aggiunse alle pregresse inimicizie, anche l’odio di qualche Signore della guerra sempre attento agli sviluppi interni, ad esempio Hekmatyar. In base all’impossibilità occidentale di avere la meglio con l’occupazione militare, e anche quella di gestire uno Stato fantoccio con Karzai e Ghani, s’è fatta nuovamente strada l’ipotesi dei “colloqui di pace” coi turbanti, inizialmente con l’intermediazione di fondamentalisti come “il macellaio di Kabul”, poi con politici della diplomazia internazionali del calibro di Khalilzad. Il difficoltoso percorso sta durando da due anni, vede nello staff di Ghani degli oppositori e Saleh è un nemico di vecchia data degli studenti coranici. Il loro portavoce ha negato fermamente ogni responsabilità sull’attentato, ribadendo la linea che vuol giungere al più presto a un’applicabilità dell’accordo sancito nello scorso febbraio a Doha. Chi punta a creare ostacoli risiede nei palazzi di Kabul, ma al di là di finti agguati, nella stessa galassia talebana ci potrebbe essere chi non tollera un’apertura all’attuale governo per creare l’amministrazione futura. In fondo il dialogo inter afghano serve a questo. E l’amaro calice dovrebbe essere condiviso da tutti, in cambio d’una condivisione del potere. Probabilmente instabile, a fronte dell’odierna totale instabilità. 

mercoledì 2 settembre 2020

L’ombra francese sul Libano


La metatesi libanese che pone l’ambasciatore Adib (al secolo Mustafa) al posto del dimissionario premier Diab (Hassan) è solo l’ultima disperata piroetta d’uno Stato in liquefazione, di cui la tragica esplosione dello scorso 4 agosto (190 vittime, 6.000 feriti, quattro quartieri a ridosso del porto beirutino devastati, come durante i giorni bui della guerra civile) è l’orrifica metafora. Altrettanto inquietante è la presenza del presidente francese Macron, primo a far visita su un terreno che pareva di battaglia e sostenitore degli “aiuti” da conferire à le Liban sanglant. Ma questo genere di aiuti, emanano afrori peggiori dei quelli messi in atto dalla politica monetaria della Banca Mondiale: ti do il denaro e decido che vita ti faccio fare. E’ una penosa storia che quel Paese vive dalla conclusione della guerra civile alla fine degli anni Ottanta. Gli stessi famosi Accordi di Ta’if del 1989, che hanno sancito una divisione di potere fra le comunità libanesi, fino a quella data avvinte nel conflitto fratricida, hanno favorito i clan presenti in ciascuna componente (maronita, sunnita, sciita, drusa), lobbies di fatto che orientano la politica della spartizione e della corruzione con cui da trent’anni la nazione ha a che fare. Certo, la Storia insegna che gruppi interni di potere esistevano anche in epoche precedenti, nell’era pre-coloniale e durante il protettorato francese. Ma quel che s’è visto durante l’osannato governo liberista di Rafiq Hariri, osannato soprattutto dal capitale internazionale che foraggiava con “aiuti” la rinascita libanese. Una resurrezione mai avvenuta per la popolazione più umile. E lo stesso ceto medio, anabolizzato con gli investimenti della bolla speculativa edilizia (che possono riprendere, visto che con la ‘bomba al nitrato d’ammonio’ un bel pezzo di città è distrutta) o con altri servizi, s’è ritrovato anno dopo anno sempre meno agiato, fino a unirsi ai diseredati della aree meridionali, della capitale e del Paese, nell’avere bisogno di questue straniere. Perciò una delle tare economiche della regione, che pure ha un’economia agricola florida ma deve pagare dazio alle esportazioni israeliane nel mondo, protette dalla politica internazionale, è quella di non avere una classe dirigente che si batta per progetti produttivi autoctoni o comunque non subordinati a interessi esterni. Per due decenni filati i petrodollari sauditi hanno mirato alla citata attività speculativa, alla rete bancaria che voleva ricreare la Beirut dei paradisi fiscali dell’immediato dopoguerra, quando ormai simili luoghi per traffici più illeciti che leciti di capitali sono prolificati ovunque. E nel Mediterraneo Cipro e Malta fanno concorrenza.
Dunque il padrinaggio estero, anche più pericoloso di quello greve, che sul versante geopolitico ha visto Israele e Siria, sperare per anni di mangiarsi il Libano, con reciproci famelici bocconi di territorio occupato e d’ingerenza esterna. Riguardo alle intrusioni quella strisciante e mai morta, diventata un classico del “neocolonialismo di ritorno” incentrato sull’aiuto all’economia e sull’economia degli aiuti, quella parigina è per Beirut la più antica. Sebbene contempli fan anche fra gente del luogo, nostalgica della  veste, o sottoveste cittadina, ammantata del ruolo di bordello che la borghesia imprenditorial-militare occidentale le conferiva stazionando e consumando. L’abbraccio paterno che il diplomatico omino di ferro a servizio delle smanie imperiali della geopolitica francese, le president Macron, sfoggia fra una bambina e l’omologo Aoun che l’accoglie, dovrebbe incutere altrettanto timore. Non è certo un abbraccio che sa di libertà ed eguaglianza, né tantomeno d’emancipazione per il piccolo Stato che sta smettendo d’essere tale. Proprio Aoun, tre giorni fa, ricordando i cent’anni di Libano ha offerto sul piatto una delle svolte riformatrici per avere un futuro: liberarsi dal confessionalismo e dalla spartizione del Paese fra i poteri forti delle comunità che lo compongono e dichiarare la laicità dello Stato. Dunque, smontare il castello costruito trent’anni addietro a Ta’if per riequilibrare lo strapotere cristiano. Ma s’è visto come dividere per quattro non ha sminuito il clientelismo, ma l’ha ampliato e con esso s’è ampliata    la corruzione politica. Ora il “soccorritore” Macron detta l’agenda: tre mesi per l’avvio d’un piano speciale - l’ennesimo - di aiuti, per evitare collasso definitivo e misure punitive per una classe dirigente colpevole per il botto al porto (le indagini sono ancora aperte a fronte di tanta omertà) e per il collasso economico. Aoun annuisce applaude.
Dal canto suo Ghassan Oueidat, procuratore capo che segue l’inchiesta sulla tragedia nel porto, rivela come cherosene, gas liquido, solventi per sverniciare, fusibili e materiale pirico erano ammassati accanto alle 2.700 tonnellate di nitrato d’ammonio nei magazzini del porto beirutino. Tutto col benestare dei Servizi di sicurezza che sapevano della ‘Santa Barbara’. L’Intelligence aveva riferito a premier e presidente della Repubblica (il primo s’è dimesso, il secondo accoglie a braccia aperte Macron) la situazione, compresa la prassi di furti periodici di quel materiale, probabilmente per confezionare esplosivi. Egualmente gli investigatori hanno raccolto testimonianze su tre lavoratori (siriani) impegnati nel magazzino sino al giorno dell’esplosione. Viene fatta anche l’ipotesi d’un focolaio acceso per celare (o rivelare?) i furti di materiale. Significativi pericoli ignorati, non per giorni e settimane. Per anni. Ecco il j’accuse del pm: inettitudine, ignoranza e un’ingarbugliata burocrazia hanno avuto un ruolo determinante nella tragedia. Viene fuori che non c’è una vigilanza superiore dei materiali che giungono sui cargo, nessuno  coordina lo smistamento dei medesimi nei magazzini e chi li supervisiona per ragioni di sicurezza. Soprattutto nessuno garantiva l’incolumità della gran quantità di gente che vive a ridosso del porto. Anche in zone residenziali come Gemmayze e Mar Mikhail. Oltre alle centinaia di lavoratori lì impegnati quotidianamente. Buchi spaventosi, pressappochismo, compartimenti stagni, sacche di omertà colorano funestamente il Libano. Da tempo. Con una scissione netta fra la macropolitica seguìta per affarismo personale dai parvenu alla Hariri junior e i miseri problemi quotidiani della gente, d’ogni etnìa. La vicenda del porto è uno spaccato duro, assurdo, assolutamente concreto della separazione fra la casta che parla a nome del popolo, lasciandolo letteralmente esplodere, e il sogno d’un Libano normale mai realizzato in cent’anni di vita definita moderna. Giornalisti investigativi locali denunciano quel che i media di Stato non dicono: bande afferenti a tutte le fazioni politiche usavano il porto per propri bisogni e contrabbandi d’ogni sorta, compreso quello derivato dai furti di nitrato d’ammonio. Sebbene l’entità dell’esplosione faccia ritenere gli esperti che la gran parte del pericoloso materiale fosse ancora lì stipata. Le forze dell'ordine come il governo, in ogni caso, guardavano altrove.