La metatesi libanese che pone l’ambasciatore Adib (al secolo
Mustafa) al posto del dimissionario premier Diab (Hassan) è solo l’ultima
disperata piroetta d’uno Stato in liquefazione, di cui la tragica esplosione
dello scorso 4 agosto (190 vittime, 6.000 feriti, quattro quartieri a ridosso
del porto beirutino devastati, come durante i giorni bui della guerra civile) è
l’orrifica metafora. Altrettanto inquietante è la presenza del presidente
francese Macron, primo a far visita su un terreno che pareva di battaglia e
sostenitore degli “aiuti” da conferire à
le Liban sanglant. Ma questo genere di aiuti, emanano afrori peggiori dei
quelli messi in atto dalla politica monetaria della Banca Mondiale: ti do il
denaro e decido che vita ti faccio fare. E’ una penosa storia che quel Paese
vive dalla conclusione della guerra civile alla fine degli anni Ottanta. Gli
stessi famosi Accordi di Ta’if del 1989, che hanno sancito una divisione di
potere fra le comunità libanesi, fino a quella data avvinte nel conflitto
fratricida, hanno favorito i clan presenti in ciascuna componente (maronita,
sunnita, sciita, drusa), lobbies di fatto che orientano la politica della
spartizione e della corruzione con cui da trent’anni la nazione ha a che fare.
Certo, la Storia insegna che gruppi interni di potere esistevano anche in
epoche precedenti, nell’era pre-coloniale e durante il protettorato francese.
Ma quel che s’è visto durante l’osannato governo liberista di Rafiq Hariri,
osannato soprattutto dal capitale internazionale che foraggiava con “aiuti” la
rinascita libanese. Una resurrezione mai avvenuta per la popolazione più umile.
E lo stesso ceto medio, anabolizzato con gli investimenti della bolla
speculativa edilizia (che possono riprendere, visto che con la ‘bomba al nitrato
d’ammonio’ un bel pezzo di città è distrutta) o con altri servizi, s’è
ritrovato anno dopo anno sempre meno agiato, fino a unirsi ai diseredati della
aree meridionali, della capitale e del Paese, nell’avere bisogno di questue
straniere. Perciò una delle tare economiche della regione, che pure ha
un’economia agricola florida ma deve pagare dazio alle esportazioni israeliane
nel mondo, protette dalla politica internazionale, è quella di non avere una
classe dirigente che si batta per progetti produttivi autoctoni o comunque non
subordinati a interessi esterni. Per due decenni filati i petrodollari sauditi hanno
mirato alla citata attività speculativa, alla rete bancaria che voleva ricreare
la Beirut dei paradisi fiscali dell’immediato dopoguerra, quando ormai simili
luoghi per traffici più illeciti che leciti di capitali sono prolificati
ovunque. E nel Mediterraneo Cipro e Malta fanno concorrenza.
Dunque il padrinaggio estero, anche più pericoloso
di quello greve, che sul versante geopolitico ha visto Israele e Siria, sperare
per anni di mangiarsi il Libano, con reciproci famelici bocconi di territorio
occupato e d’ingerenza esterna. Riguardo alle intrusioni quella strisciante e
mai morta, diventata un classico del “neocolonialismo di ritorno” incentrato
sull’aiuto all’economia e sull’economia degli aiuti, quella parigina è per
Beirut la più antica. Sebbene contempli fan anche fra gente del luogo,
nostalgica della veste, o sottoveste
cittadina, ammantata del ruolo di bordello che la borghesia
imprenditorial-militare occidentale le conferiva stazionando e consumando. L’abbraccio
paterno che il diplomatico omino di ferro a servizio delle smanie imperiali
della geopolitica francese, le president Macron, sfoggia fra una bambina e
l’omologo Aoun che l’accoglie, dovrebbe incutere altrettanto timore. Non è
certo un abbraccio che sa di libertà ed eguaglianza, né tantomeno
d’emancipazione per il piccolo Stato che sta smettendo d’essere tale. Proprio
Aoun, tre giorni fa, ricordando i cent’anni di Libano ha offerto sul piatto una
delle svolte riformatrici per avere un futuro: liberarsi dal confessionalismo e
dalla spartizione del Paese fra i poteri forti delle comunità che lo compongono
e dichiarare la laicità dello Stato. Dunque, smontare il castello costruito
trent’anni addietro a Ta’if per riequilibrare lo strapotere cristiano. Ma s’è
visto come dividere per quattro non ha sminuito il clientelismo, ma l’ha
ampliato e con esso s’è ampliata la
corruzione politica. Ora il “soccorritore” Macron detta l’agenda: tre mesi per
l’avvio d’un piano speciale - l’ennesimo - di aiuti, per evitare collasso
definitivo e misure punitive per una classe dirigente colpevole per il botto al
porto (le indagini sono ancora aperte a fronte di tanta omertà) e per il
collasso economico. Aoun annuisce applaude.
Dal canto suo Ghassan Oueidat, procuratore capo che
segue l’inchiesta sulla tragedia nel porto, rivela come cherosene, gas liquido,
solventi per sverniciare, fusibili e materiale pirico erano ammassati accanto
alle 2.700 tonnellate di nitrato d’ammonio nei magazzini del porto beirutino. Tutto
col benestare dei Servizi di sicurezza che sapevano della ‘Santa Barbara’. L’Intelligence
aveva riferito a premier e presidente della Repubblica (il primo s’è dimesso,
il secondo accoglie a braccia aperte Macron) la situazione, compresa la prassi
di furti periodici di quel materiale, probabilmente per confezionare esplosivi.
Egualmente gli investigatori hanno raccolto testimonianze su tre lavoratori
(siriani) impegnati nel magazzino sino al giorno dell’esplosione. Viene fatta
anche l’ipotesi d’un focolaio acceso per celare (o rivelare?) i furti di
materiale. Significativi pericoli ignorati, non per giorni e settimane. Per
anni. Ecco il j’accuse del pm: inettitudine, ignoranza e un’ingarbugliata
burocrazia hanno avuto un ruolo determinante nella tragedia. Viene fuori che
non c’è una vigilanza superiore dei materiali che giungono sui cargo, nessuno coordina lo smistamento dei medesimi nei magazzini
e chi li supervisiona per ragioni di sicurezza. Soprattutto nessuno garantiva
l’incolumità della gran quantità di gente che vive a ridosso del porto. Anche
in zone residenziali come Gemmayze e Mar Mikhail. Oltre alle centinaia di
lavoratori lì impegnati quotidianamente. Buchi spaventosi, pressappochismo,
compartimenti stagni, sacche di omertà colorano funestamente il Libano. Da tempo.
Con una scissione netta fra la macropolitica seguìta per affarismo personale dai
parvenu alla Hariri junior e i miseri problemi quotidiani della gente, d’ogni
etnìa. La vicenda del porto è uno spaccato duro, assurdo, assolutamente
concreto della separazione fra la casta che parla a nome del popolo,
lasciandolo letteralmente esplodere, e il sogno d’un Libano normale mai
realizzato in cent’anni di vita definita moderna. Giornalisti investigativi
locali denunciano quel che i media di Stato non dicono: bande afferenti a tutte
le fazioni politiche usavano il porto per propri bisogni e contrabbandi d’ogni
sorta, compreso quello derivato dai furti di nitrato d’ammonio. Sebbene
l’entità dell’esplosione faccia ritenere gli esperti che la gran parte del pericoloso
materiale fosse ancora lì stipata. Le forze dell'ordine come il governo, in ogni caso, guardavano
altrove.
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