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mercoledì 9 settembre 2020

Kabul, il vicepresidente Saleh sfugge a un attentato


Salvo per miracolo sebbene lui minimizzi “Ho solo qualche bruciatura su una mano e al volto”, Amrullah Saleh era l’obiettivo d’un attentato compiuto stamane nell’area nord est di Kabul, a Taimani. Mentre il suo convoglio transitava per via è esploso un ordigno che ha fatto dieci morti e una ventina di feriti, anche per il coinvolgimento d’un deposito di bombole di gas. E’ probabile che chi ha organizzato l’agguato esplosivo sapesse di quello spostamento. Attualmente Seleh è vicepresidente afghano sulla sponda di Ghani, che l’ha voluto in quel ruolo reclutandolo anche per la campagna elettorale. Ma nel Paese ha ricoperto altri incarichi, facendosi diversi nemici interni ed esteri. Dal 2004 al 2010, dunque durante il primo mandato presidenziale di Hamid Karzai e all’inizio del secondo, è stato il capo della sicurezza. C’è da considerare che la carriera ufficiale di Saleh era iniziata prestissimo, aveva 22 anni. S’era forgiato nelle file dell’Alleanza del Nord, post guerra civile, avendo come riferimento il comandante Massud, tajiko come lui. E sul tema delle etnìe Saleh non ha mai nascosto il suo pensiero: occorreva trovare una coabitazione fra le componenti, dunque nessuna concessione alla maggioranza pasthun. Già questa era un’idea poco consona al falsamente diplomatico Karzai, sostenitore del tribalismo del pashtunwali, e soprattutto del clanismo legato agli affari di famiglia. Probabilmente parte dei suoi dissapori col presidente, sfociati nella critica alla corruzione del ceto politico interno, riguardavano simili contorni. Inoltre Saleh, ferreo oppositore ai talebani e ai loro sponsor pakistani, si mostrò tenacemente contrario ai tentativi di colloqui di pace avviati un decennio fa dalla stessa Cia e avallati da un Karzai che pensava soprattutto a continuare il secondo mandato per poter proseguire l’affarismo familiare, lecito e illecito, basato sulla gestione dei fondi internazionali e sui traffici internazionali di oppio curati da uno dei fratelli.

All’epoca Saleh sosteva: “La mia opinione è che non ci debba essere un accordo con i talebani. Mai. Deve esserci un processo. E secondo quel processo, basato su quel processo, i talebani dovrebbero diventare parte della società e giocare secondo il copione della democrazia. Dovrebbero essere smobilitati, disarmati, reintegrati come fu l'Alleanza del Nord. E dovrebbero anche denunciare la violenza. E quel processo porterà una stabilità duratura. Se ci sarà un accordo, non ci sarà mai stabilità. Gli accordi creano fragile pace. Se c'è un accordo, resisteremo contro l'accordo, "noi" intendendo tutte le forze che hanno combattuto i talebani”. Per la cronaca, quei colloqui di pace fallirono. Saleh si ritirò dall’incarico ricoperto, non prima d’aver avuto contrasti col presidente pakistano Musharraf che aveva invitato a pronunciarsi sugli aiuti forniti dall’Intelligence di Islamabad a vari gruppi talebani. Musharraf considerò la sortita un’indebita ingerenza non rispondendo mai a quella che ogni analista considerava una palese e tragica realtà. Privo d’incarichi governativi Saleh continuò la propria presenza sulla scena afghana fondando il gruppo Basej-e Milli che registrò un discreto seguito non solo nella provincia tajika per eccellenza, il Pashir. L’ostinazione anti talebana della sua politica gli aggiunse alle pregresse inimicizie, anche l’odio di qualche Signore della guerra sempre attento agli sviluppi interni, ad esempio Hekmatyar. In base all’impossibilità occidentale di avere la meglio con l’occupazione militare, e anche quella di gestire uno Stato fantoccio con Karzai e Ghani, s’è fatta nuovamente strada l’ipotesi dei “colloqui di pace” coi turbanti, inizialmente con l’intermediazione di fondamentalisti come “il macellaio di Kabul”, poi con politici della diplomazia internazionali del calibro di Khalilzad. Il difficoltoso percorso sta durando da due anni, vede nello staff di Ghani degli oppositori e Saleh è un nemico di vecchia data degli studenti coranici. Il loro portavoce ha negato fermamente ogni responsabilità sull’attentato, ribadendo la linea che vuol giungere al più presto a un’applicabilità dell’accordo sancito nello scorso febbraio a Doha. Chi punta a creare ostacoli risiede nei palazzi di Kabul, ma al di là di finti agguati, nella stessa galassia talebana ci potrebbe essere chi non tollera un’apertura all’attuale governo per creare l’amministrazione futura. In fondo il dialogo inter afghano serve a questo. E l’amaro calice dovrebbe essere condiviso da tutti, in cambio d’una condivisione del potere. Probabilmente instabile, a fronte dell’odierna totale instabilità. 

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