La fase in cui la Turchia aveva un occhio diplomatico morbido
sui propri confini e su chi vivesse al di là, s’è chiusa da oltre un quinquennio.
Dopo essersi liberato del ministro Davutoğlu, che dell’esterofilia soffice era
il gran cerimoniere, Erdoğan ha lanciato affondi alla sua maniera, con
operazioni militari e sessioni diplomatiche. Quest’ultime alla bisogna rudi o
furbescamente misurate, ma non senza una strategia: essere al centro della scena
internazionale partendo proprio dai confini. Oltre i quali c’è tanto
Medioriente che ha ribollito in questi anni, dalla straziante guerra siriana
all’area kurda, strizzata dal Sultano con una feroce repressione interna e
lacerata, nel corpo e nell’anima del Rojava, grazie al gioco a tre con Putin e
Asad. Quindi il recente fronte del mare in versione patriottica - Mavi vatan - dove ci son dentro Libia,
gas da scovare nelle zone esclusive, gas da trasportare con le pipeline e dunque
affari, nel periodo terribile della pandemia di Covid che ha mandato a picco
l’economia del mondo. Poi l’ultim’ora della nuova scintilla nel Nagorno
Karabakh. Così anche su questo lembo di terra, che pare insignificante eppure trent’anni fa creò una guerra con trentamila
morti fra gli eserciti armeno e azero, si posa l’occhio di Ankara. Poiché, come
accade per la minoranza di Cipro nord, il sangue turco scorre nelle vene degli
epigoni azeri. Un pretesto? Probabile. Però in geopolitica quel che non esiste,
s’inventa. E come l’amico-avversario Putin offre la sua protezione alla
comunità armena di quelle terre, Erdoğan gli rifà il verso coi cittadini di
fede islamica. Sebbene l’unica fede in campo sia quella geostrategica.
Se si osservano sulla carta geografica le zone descritte, la Turchia appare circondata. Molti più problemi coi vicini che situazioni tranquille, proprio a seguito della politica estera intrapresa negli ultimi tempi. Le vicende della ‘Patria blu’ proiettata nel Mediterraneo hanno messo in fibrillazione capi di Stato e capi bastone coinvolti ad esempio, nel presente libico. E potenze come la Francia, che per mettere le mani sugli idrocarburi locali, ne ha incentivato il caos sin dall’epoca della presidenza Sarkozy. Il fronte libico coinvolge per questioni securitarie, disegno autoritario e business l’Egitto di Sisi e le petromonarchie dei due Bin, il saudita Salman e l’emiratino Khalifa. Questi autocrati, benvoluti Oltreoceano e carezzati dall’Eliseo, puntano a ostacolare la voglia di supremazia del presidente turco su un pezzo del mondo islamico. Ma i contrasti hanno un rovescio della medaglia esplicitamente finanziario. Da almeno un decennio, epoca della scoperta dei giacimenti gasieri sui fondali mediterranei orientali, l’area è in subbuglio. E in quel bacino s’affacciano piccoli Stati con tanti problemi e limitate pretese (Libano), nazioni con pretese esagerate e tanti nemici (Israele), Paesi dependance di terzi (Cipro) in gran parte bastimento di Atene, ma usata anche da Ankara per il contrasto aperto per lo sfruttamento dei fondali col secolare nemico. Sulle Zone economiche esclusive esistono accordi di massima (la più nota è la Convenzione Onu), ma fra alcuni Stati i patti non valgono perché ciascuno stabilisce regole proprie, come quella di considerare le isole (è il caso della Grecia nell’Egeo) un avamposto per ampliare la propria giurisdizione su mari e fondali.
Ma se la Grecia, membro Nato (com’è, e con un peso
decisamente maggiore, la rivale Turchia) nel corso dell’estate ha rappresentato
la punta con cui l’Unione Europea ha punzecchiato il desiderio di strapotere di
Erdoğan, quest’ultimo, minacciato di sanzioni per gli scandagli presso l’isola
di Kastellorizo, ha varie carte da giocarsi. Quella dei profughi siriani,
tenuti sui propri territori, dura da quattro anni e gli consente i buoni uffici
di Germania, Italia, Spagna che rappresentano quasi la metà dei cittadini
dell’Unione. Eppure al di là delle scoperte presenti e future sui Zohr e Noor,
Afrodite e Leviatano (i nomi dei giacimenti gasieri che convoglierebbero metano
nel progetto EastMed), rispetto alle altre capitali di quell’area che disegnano
il futuro energetico Ankara ha ben guardato oltre i suoi confini. Da anni sta
lavorando per proporsi come hub energetico fra i continenti europeo e asiatico,
stabilendo proposte e accordi con amici, avversari e strateghi senza scrupoli.
In quest’ultima categoria il passo viene bellamente tenuto da Vladimir Putin con
due pipeline - Blue Stream e Turk Stream - che saldano interessi finanziari e
geopolitici fra i due statisti autocrati e pragmatici. Che si sono scontrati e
guardati in cagnesco, ma dal 2016 hanno stipulato accordi. Strategici,
militari, politici, economici. Ora sul lembo del Nagorno Karabakh, luogo
d’instabilità con radici risalenti all’epoca di Stalin, si dovrebbero misurare
le simpatie verso due nazioni che i leader mondiali adagiano su versanti
opposti. Sebbene in politica le sicurezze non esistano, quest’incompiuta
dovrebbe rimanere tale. E non dovrebbe incrinare l’asse interessato che Russia
e Turchia si sono cucite addosso. Per questo Erdoğan aggiunge un tassello
d’incertezza anche nell’area del Caucaso. Scavando nella Storia e scovando un
altro nemico (gli armeni) grazie al quale guadagnerà consensi dentro il suo
confine, rischiando poco sullo scacchiere internazionale. E pone sul lembo del
Nagorno una bandierina del Risiko. Come fa Putin.
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