Crisi d’identità e sbandamenti nello Stato del Kashmir
anche per quei politici che s’identificano con lo Stato indiano, ma che a causa
della linea dura voluta dal premier Modi sono finiti, in alcuni casi essi
stessi in galera, in altri hanno abbandonato la politica o meditano di farlo. “Cosa diciamo alla gente di fronte a una
situazione che si ripercuote sulla quotidianità: chiusure di attività per
insicurezza, prim’ancora che per la pandemia, violenze che si trascinano nelle
vite private, mancanza assoluta d’un piano per il futuro, eccezion fatta che
repressione e militarizzazione di villaggi e città?” è il grido di dolore
di una di queste attiviste. Del resto l’occupazione dell’esercito di Delhi, che
è seguita alle proteste popolari dopo la cancellazione, nell’agosto dello
scorso anno dell’articolo 370 che ha azzerato l’autonomia locale, continua a
incrementare azioni violente contro la “casta politica”. Ne fanno le spese
anche elementi non allineati alle posizioni del premier Modi, ma semplicemente
pro nazione indiana. L’instabilità è altissima a discapito della più elementare
sicurezza. Alcuni di questi politici, intervistati da media internazionali,
hanno dichiarato: Waheed Para del Pdp una formazione pro-India “La gente, e noi stessi, non avere più spazi
dove vivere. La polizia ci intima di restare in casa, è questa la risposta a
chi ha sostenuto la democrazia nella regione”. Yousuf Tarigami, politico di
vecchia data e membro del partito comunista: “Siamo tutti sulla stessa linea, non c’è distinzione, ci ritroviamo in
galera: politici dell’opposizione, separatisti, mainstream trattati come
terroristi. La regione è diventata una prigione, chi ha diversità d’opinione può
constatare un comune denominatore: il rischio d’essere detenuto”.
A detta di analisti indiani i politici kashmiri sono
molto misurati e posseggono una visione più aperta rispetto ai loro potenti
colleghi di Delhi. Del resto il princìpio di autonomia regionale sancito dalla
Costituzione nel 1947 tendeva a tenere in India un’area a maggioranza
musulmana, invece il nazionalismo hindu rilanciato dall’esecutivo del Bharatyia
Janata Party spinge per un’esasperazione dell’elemento confessionale con
risvolti razziali e tutto ciò diventa un boomerang per la stessa politica interna.
Così, quello che negli ultimi anni era comunque stato un disamore verso l’apparato
statale con una diminuzione della partecipazione elettorale è diventato un ampio
rifiuto non solo da parte della base, ma dei medesimi politici che animano le formazioni
pro India. La forzatura centralista e nazionalista sul Kashmir sta diventando
una ferita aperta per l’amministrazione Modi, e anche la commissione delle
Nazioni Unite sui diritti umani ha valutato come nell’area ci sia una
restrizione nel dibattito politico e nella conseguente partecipazione. Certo,
la sponda islamica della regione vede nella crisi d’identità dei pro indiani
una questione psicologico-identitaria, e alcuni ricordano come fino a un paio
d’anni addietro alcuni di costoro tiravano dritto, facendo i propri interessi
di parte senza manifestare scrupoli. Chi è fuori dalla lotta di parte, come alcuni
cittadini che hanno svolto o svolgono mestieri di formazione per i giovani,
sentenzia categorico: “Situazione desolante priva di democrazia”. Aggiungendo
che le iniziative del Bjp hanno solo radicalizzato le condizioni socio-politiche,
rendendo soffocante la vita e insicura la regione sottoposta all’occupazione
militare.
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