Dopo otto giorni
dall’avvio dei colloqui inter afghani e cinque di contatti di lavoro le
delegazioni governativa di Kabul e talebana hanno deciso di ridurre a venti gli
articoli su cui stipulare un concordato. Inizialmente erano ventitré, ma sul
nome dato al conflitto, sul sistema religioso scelto per le negoziazioni e
sull’inclusione del precedente accordo firmato da Stati Uniti e turbanti, quale
premessa per questo successivo patteggiamento, non c’è concordanza fra le
parti. Le tre questioni restano in sospeso e potrebbero costituire un ostacolo
insormontabile qualora non si arrivasse a compromessi. Non è comunque detta
l’ultima parola perché i due fronti si mostrano collaborativi. Certo, i taliban
non vogliono rinunciare al termine “jihad” usato per indicare la lotta che li
ha visti finora combattere contro la Nato e l’esercito afghano da lei
sostenuto. I governativi parlano di “guerra” e chi cerca di superare la
contrapposizione ha proposto il termine “problema”. Definizione vaga e incolore
seppur realistica, poiché se non si decide quale formula usare il problema
diventerà quello di far proseguire i colloqui. I taliban poi pongono come base
per qualsivoglia decisione negoziale la giurisprudenza hanafita. Su questo la
delegazione di Kabul è più possibilista poiché la maggioranza pashtun si
riconosce nell’Islam sunnita, aderente in quell’area a quella corrente. Inoltre
la delegazione degli studenti coranici pone un netto rifiuto a menzionare il
nome di altre fedi nelle circostanze in cui si fa riferimento a decisioni con
una base religiosa. Però l’articolo 131 della Costituzione vigente in
Afghanistan, dichiara che le Corti di giustizia devono applicare la
giurisprudenza sciita nei casi che coinvolgono i fedeli di quel credo. Conciliante
su quest’intoppo la posizione di Mohammed Mohaqiq, leader del Partito di Unità
Islamica del popolo, un hazara sciita egli stesso. In una recente apparizione
pubblica ha dichiarato che gli afghani “s’identificano
in vent’anni di democrazia e si accettano l’un l’altro. Etnie, lingue,
religioni erano state discusse nella costituzionale Loya Jirga e ufficialmente
ci siamo riconosciuti e accettati”. Mentre il chierico Kalantari dichiara:
“La giurisprudenza hanafita non è tutto,
lo stesso vale per le leggi sciite. Abbiamo molti casi che credono come il
diritto hanafita si riferisca anche ad altre scuole di giurisprudenza”. Basterà
a convincere i talebani? Comunque più della fede potrebbe l’identità per il
futuro. Gli attuali governativi non ci stanno a condizionare l’accordo che si
dovrebbe firmare a quello precedente sottoscritto in febbraio, dal quale
peraltro erano esclusi. Invece i taliban lo considerano il padre dell’attuale e
di futuri accordi, sanno che nelle concessioni per il governo che verrà gli
statunitensi si mostreranno più generosi dei politici di casa con cui dovranno
convivere.
Nessun commento:
Posta un commento