E’ più facile crepare soffocato dalla calca per certe stradine di Seul inseguendo la presunta presenza d’un vip? oppure affogato nel fiume Machhu a Morvi, Gujarat indiano, per il collasso d’un ponte pedonale? Le vittime sono trecento sui due fronti. Pur non trattandosi di vittime di guerra, tali possono considerarsi quei luoghi. Centocinquanta distese sull’asfalto, altrettante ripescate in acqua. Finora. Perché, come per le stragi da ordigni, il numero può sempre aumentare. Sono i cadaveri della festa, della novità, qualcuno dirà del caso tanto per banalizzare quel bene, tutto sommato unico, che è l’esistenza di ciascuno. Ma com’è accaduto? I defunti notoriamente non parlano, perlomeno davanti alle telecamere. Mentre scampati e sopravvissuti, tuttora stupiti per quant’è capitato, non se lo chiedevano mentre s’infilavano stipati come acciughe in salamoia nel vicolo della morte. Oppure quando dondolavano, assecondando il movimento di quella lingua di 232 metri che risaliva al dominio coloniale britannico, però era stata “ristrutturata” e riaperta quattro giorni prima. Già divampa la polemica fra partiti di governo e le opposizioni. Se le indagini indiane seguiranno un percorso probo si potrà appurare la bontà dei lavori di riparazione. O invece scoprire, come accade in tanti appalti pubblici e privati in giro per il mondo, che l’opera non eseguita “a regola d’arte” era viziata da pressappochismo tangentizio. Certamente le immagini che precedono, fermano l’attimo del crollo e lo seguono, rivelano una quantità spropositata di persone sulla passerella sospesa. I cavi, i tiranti e tutto l’armamentario che la teneva a mezz’aria potrebbe non aver retto il carico. Di fatto c’è la responsabilità politica, amministrativa, d’ordine pubblico di chi a Seul non doveva permettere assembramenti di migliaia di giovani infoiati nel celebrare il consumismo sfrenato di Halloween, non i suoi miti Druidi. E di chi a sud-ovest doveva contenere la frenesia dei festival hindu limitando la folla sul ponte rinnovato.
Ma gli uni e gli altri cittadini sono visti come elettori, una categoria che fa gola a chi amministra e commercia. Nel mercato asiatico Sud Corea e India sono due esempi significativi. La prima per quello che è da decenni: il presidio avanzato del mercantilismo asservito alla geopolitica statunitense, e il pachiderma indiano per quanto rappresenta in fatto di tradizione e ambizione di potenza che fa della demografia un pilastro per presente e futuro. In entrambi i Paesi la politica è polarizzata, pur con la sproporzione dei cinquantadue milioni di sud coreani e del miliardo a trecento milioni di indiani (solo i cittadini del Gujarat sono 62 milioni). Lì è una lotta fra conservatori e democratici con differenze solo di facciata; qui la contrapposizione è esacerbata da un disegno a sfondo fondamentalista e razziale diventato l’unico progetto del partito di potere (Bhratiya Janata Party). Nelle recenti elezioni sud coreane, vinte con lo scarto infinitesimale di 0.73% dal conservatore Yoon Suk-Yeol, la popolazione si ritrovava a scegliere fra il cosiddetto ”meno peggio”. Non è detto che l’abbia fatto. Accade anche in molte altre nazioni, ma non è una prospettiva felice. Anzi. E’ quella che spinge adulti e giovani a estraniarsi. A pensare e agire soggettivamente e avidamente, a inseguire carriera, denaro, consumi, svago nell’egotismo più brutale. E non rispettare nulla, neppure la conservazione della vita. Altrove il fanatismo dell’induismo politico non è da meno, prende il peggio della superstizione religiosa, del suprematismo etnico, del cinismo liberista e governa promettendo benessere e identità a cittadini-sudditi. Ma la colpevole correità d’un popolo che non governa se stesso e si fa complice dei promotori di falsi miti con una disinvoltura disarmante, deve far riflettere interpreti e osservatori. Oggi il presidente Yoon Suk-yeol, il premier Modi e il suo rappresentante in Gujarat, Bhupendrabhai Patel sono in prima fila a versare lacrime di coccodrillo, indicendo lutti collettivi più o meno lunghi. Pronti a rasserenare la gente per l’ennesimo “disastro” quotidiano.