C’era un giornalista pakistano che si chiamava come il premier (Sharif) ma non era suo parente, anzi era un suo puntiglioso critico. Qualche giorno fa il cronista e conduttore televisivo di nome Arshad, è rimasto vittima d’un agguato mortale a Nairobi. Cosa ci facesse nella capitale keniota non dato sapere, ma da alcuni mesi s’era già trasferito a Dubai perché, si vocifera, fosse nel mirino dell’Inter-Services Intelligence di Islamabad. Il giornalista, faccione bonario ma intenti taglienti, s’era esposto con articoli al vetriolo contro l’attuale premier Shebbaz Sharif, che nell’aprile scorso ha sostituito Imran Khan alla guida del Paese. Quest’ultimo dopo il defenestramento ha lanciato accuse all’interno e all’esterno, indicando la lobby militare e gli Stati Uniti quali mandanti d’un complotto contro la sua persona e il suo gruppo politico - Tehreek-e Insaf - con cui aveva vinto le elezioni nel 2019. Da lì ha avviato un moto di proteste popolari e marce sulla capitale che hanno prodotto scontri sebbene siano state contenute dalle forze dell’ordine. (cfr. https://enricocampofreda.blogspot.com/2022/04/pakistan-i-clan-tornano-al-governo.html
https://enricocampofreda.blogspot.com/2022/04/propaganda-pakistana.html).
Analisti pakistani ammettono che prima della crisi primaverile, con cui alcuni alleati minori toglievano la fiducia a Khan determinandone la caduta, i militari avevano espresso un appoggio incondizionato all’ex campione di cricket, considerandolo una novità da contrapporre al familismo politico nazionale, che fa dell’esecutivo una questione privata fra i clan Bhutto, dignitari del Partito Popolare Pakistano, e Sharif, signori della Lega Musulmana-N. In questi giorni Khan, già scampato all’accusa di costituire un pericolo per la sicurezza nazionale, ha ricevuto dalla Commissione elettorale il divieto di ricandidarsi per un quinquennio. Lui non solo ripropone la personale ‘lunga marcia’ sulla capitale, accusa pure i Servizi di aver ordito l’attentato al giornalista Arshad Sharif che, mestiere o meno, simpatizzava per il suo partito.
Ora fra ipotesi e indagini in corso, pur difficili da tenere nel Paese africano, i vertici dell’Isi si sono sentiti in dovere d’indire una conferenza stampa. In oltre sessant’anni di lavoro onorato e onorevole tendenzialmente per se stessa, l’Intelligence, temuta dal Paese e dai politici vecchi e nuovi per le trame trascorse e quelle possibili, non si era mai esposta al cospetto della stampa. Stamane il suo Direttore Generale, Babar Iftikhar, davanti a telecamere, microfoni, taccuini ha dichiarato che con la morte del giornalista Sharif sono state mosse accuse infondate alle istituzioni, alla leadership nazionale, al Capo dell’Esercito. Il soggetto di queste ire, neanche a dirlo, è Imran Khan che aveva parlato di “attacco mirato” al giornalista. Il quale “sapeva che la sua vita era in pericolo e riceveva ripetuti avvertimenti, però non si è fermato. Io gli ho detto di tirarsi indietro, lui non era spaventato. Non importa quel che dice la gente, io so che si tratta d’un omicidio mirato”. Insomma l’ex premier è incontenibile e nella sua personale guerra ad avversari politici, ex alleati, generali (come l’ex Capo di Stato Maggiore Baiwa con cui aveva polemizzato durante l’incarico) attacca anche il Gotha dello spionaggio. Che non sta a guardare e con questo storico intervento pubblico lo mette nel suo mirino, cosa che se fossero vere le accuse sulla morte del giornalista dovrebbero mettere i brividi a Khan. Il mantra lanciato anche dall’Isi, come da tutti i rivali del PTI è la sicurezza nazionale poiché “l’instabilità interna è la più grande minaccia per il Pakistan”. Un pezzo della stampa locale, parlando di Khan, rammenta che l’immagine da Don Chisciotte in lotta contro ogni potere, poco gli si addice. Avrebbe dimenticato che proprio militari e Intelligence erano stati non solo i garanti per la sua elezione, ne avrebbero orientato anche il voto. La battaglia sporca delle insinuazioni è solo un velo di superficie, è in corso una guerra senza esclusione di colpi.
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