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mercoledì 12 ottobre 2022

Iran, la rieducazione giovanile

 

La capitale, la città dell’arte, quella sacra: Tehran, Eshfan, Mashhad. Ma anche altre località grandi e minute perché le martiri, i martiri, della repressione antivelo abbracciano una cospicua fetta del territorio iraniano, meno conosciuto in Occidente. Notizie non ufficiali hanno indicato un centinaio di vittime, l’opposizione all’estero offre un numero quasi doppio. Il sangue è stato versato a Boukan, 250 km a sud di Tabriz, nella fascia azera, a Urmia, presso l’omonimo lago. E Rasht, Amol, Babol sotto il Mar Caspio. Morti anche un po’ più a sud, a Karaj, non distante dalla capitale. A Kermanshah, a un’ottantina di chilometri dalla frontiera irachena. Mentre Zahedan, a sud-est nel Belucistan verso il confine afghano, pare ne conti a decine. Lo stillicidio delle vittime è una pagina buia del regime che ha usato per giorni la mano pesante, impugnando davanti ai fuochi della ribellione, il fuoco delle armi. Agenzie non ufficiali lanciano note sui fermati, e all’attuale stallo della vicenda degli stranieri bloccati da due settimane per i quali si muovono consolati e ambascerie internazionali, fa da contraltare il caso di elementi incarcerati in precedenza, diversi sono francesi. In queste ore Amirabdollahian e Colonna, ministri degli esteri di Tehran e Parigi, hanno dibattuto sul tema, poiché l’accusa è pesante: attentato alla sicurezza nazionale. Seguendo attività commerciali queste persone entravano e uscivano dai confini iraniani fino a insospettire la Vevak, l’Intelligence interna. Uno di loro è accusato di collaborare col Mossad. La questione, tutta da indagare, ha fornito alla Guida Suprema materia per rilanciare un’accusa che circola da anni nel Paese: le manovre statunitensi per destabilizzare il potere degli ayatollah e il sistema nato dalla Rivoluzione khomeninista. Un piano che ha avuto fasi ormai entrate nella storia e che potrebbe avere un futuro, ma non necessariamente intrecciato a tutto ciò che accade in Iran. 

 

Il governo Raisi ha impresso una linea dura all’insubordinazione della piazza, incentrata sulla libertà delle donne di mostrarsi senza l’hijab. L'obbligo del velo, assieme al velayat-e faqih (il super potere dei giurisperiti), è stato un cavallo di battaglia del Khomeini-pensiero - oltre a una personale interpretazione dell’Islam - utile e proficua all’antico successo nel conflitto per l'egemonia su laicismo e marxismo più o meno organizzati, ma che potrebbe aver fatto il suo tempo. Questa l’idea di giovani non più disposte alla sottomissione rilanciata da un controllo maschile e clericale. Intanto per gli arrestati accusati di ‘sommossa antistatale’ sono stati annunciati una sessantina di processi dalla procura di Tehran e altrettanti nella provincia meridionale di Hormozgan. Ma c’è anche una posizione morbida: l’agenzia Irna cita i casi di minorenni rilasciati in base alla sottoscrizione d’una promessa di non reiterare forme di ribellione. In più s’apprende che gruppi di studenti delle superiori sono passati dal luogo di detenzione a centri per il ‘recupero psicologico’. E’ una prassi finora sconosciuta, pare volta ad agire sui comportamenti dei giovani, definiti antisociali. Una sorta di ‘riformatorio’ di cui non si conoscono i metodi, ma che secondo le dichiarazioni ministeriali punterebbe al reindirizzo anziché alla coercizione. Almeno nelle intenzioni. Il governo deve tener conto anche di alcuni apparti scontenti, il più noto è Nirouy-e moqavemat-e basij, mitizzato all’epoca del martirio nella guerra contro Saddam e divenuto nel tempo strumento di controllo socio-politico e braccio armato dello Stato. In questi giorni i duri e puri della Rivoluzione piangono una ventina di perdite. Fra i cento o duecento morti ci sono aderenti al gruppo freddati negli scontri coi ribelli di varie città. I più cruenti a Sanandaj, località d’origine di Amini, area dov’è concentrata la minoranza kurda, altri nel Beluchistan. 

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