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giovedì 28 maggio 2020

Talebani, aria di vittoria


Noi vediamo la battaglia come un culto, se un fratello cade qualcuno camminerà nelle sue scarpe”. Parola di capo talebano e già non occorre altro. Perché in quest’affermazione rilasciata a un reporter del New York Times due mesi fa, quando i turbanti aspettavano la liberazione dei cinquemila miliziani concordata a Doha con Khalilzad, mentre Ghani gliela bloccava tanto per darsi il tono di quello che conta, c’è l’idea del presente afghano, coi marines che si ritirano e il governo fantoccio che crolla, come il regime filosovietico di Najimbullah dopo la partenza dell’Armata Rossa. Ripensando alle varie fasi della guerra che gli americani vogliono scrollarsi di dosso perché dura più di quella vietnamita e per evitare fughe precipitose come a Saigon, l’attuale staff della Casa Bianca ha intrapreso un lungo percorso, durato quasi due anni, di patteggiamento col demone talebano. Sebbene nella storia afghana, passata e recente, nulla si può dare per scontato l’US Army lascerà la terra dell’Hindu-Kush, magari concordando di tenere tutte o alcune delle basi aeree strategiche, ma togliendo dalla capitale i loro uomini armati. Cosa alla quale i turbanti tengono di più perché con quelle partenze potranno dire d’aver liberato il Paese dagli occupanti, come accadde ai mujaheddin nel 1989. Una mossa strategica e propagandistica non da poco. Sono stati strategici gli studenti coranici, anche quando nel biennio 2010-2011 l’offensiva Nato è diventata più intensa con centomila militari americani sul terreno e un esercito locale portato a trecentomila unità. Che poi quest’ultimo fosse un bluff è uno dei fattori che spiega l’attuale situazione.
I taliban, già prima che morisse il leader carismatico mullah Omar, andavano a distinguere un potere centrale collocato nei territori delle Fata e a Quetta, da gruppi d’intervento locali che, pur fra gravi perdite continuavano a battagliare nelle varie province. Certo, non si facevano scrupoli, cercavano risorse in ogni modo, recuperando denaro dal mercato internazionale dell’oppio, contrabbandando armi strappate alle forniture statunitensi per l’esercito di Kabul. Diventando flessibili verso coloro che si davano a una sorta di part-time della guerriglia, giovani che conservavano un lavoro nei villaggi di provenienza (agricoltore, pastore, mercante) e partecipavano ad azioni armate. Soprattutto dopo la scomparsa di Omar è prevalsa una tendenza a favorire un network resistente decentralizzato che risolve problemi locali e offre credibilità al disegno politico generale. Questo svelano, ora che c’è aria di vittoria, alcuni leader talib e gli analisti annuiscono visto che alle cinquantamila unità effettive accreditate, sicuramente se ne possono aggiungere altrettante se non di più. Sono i giovani che le famiglie di molte province hanno offerto a una guerriglia passata negli ultimi cinque anni dall’apparire un  contropotere al governo di Kabul all’essere il potere effettivo. Un potere che controlla il territorio, regola dispute, riscuote tasse, investe denaro per certi servizi anche minimi di sanità e scuola, cose che in periferia il governo promette e non mantiene.
E poi i denari di Ghani provengono dagli aiuti occidentali, su questo punto la propaganda talebana è spietata, sostenendo che quel denaro viene da coloro che sganciano le bombe sulla gente. Il combattentismo talebano sta sui social media, visitati dagli  afghani tramite i cellulari, mostra operazioni repressive del governo di Kabul e dell’alleato americano, girate artigianalmente col telefonino dai propri miliziani e inserite in rete. Divulgando quei video parte la campagna per il reclutamento: unirsi agli insorti per difendere la vita dei civili. Alcuni filmati raccontano che mullah Akhundzada (l’attuale leader talebano) ha offerto suo figlio, kamikaze, per il Jihad, mentre i militari pro governativi inviano la prole a vivere e studiare all’estero. Propaganda sì, ma propaganda che paga. E se i negoziatori di Doha nei primi mesi tendevano a discutere coi comandanti ogni passaggio degli accordi per evitare dissidenze e ribellioni, ora Baradar, che ha guidato la delegazione al cospetto di Khalilzad, fa riflettere il braccio militare che se il movimento avesse puntato tutto sulla forza non ci sarebbe stato bisogno di patteggiare ogni parola con gli americani. Ora che il ritorno a Kabul degli sconfitti del 2001 sembra a portata di mano un nemico possono temere anch’essi: il caos. Quello che mise gli uni contro gli altri i Signori della guerra nel periodo della guerra civile. Avere un nemico unico rende tutto più semplice. Contrapporsi in fazioni concorrenti è la dannazione più frequente della guerriglia.

martedì 26 maggio 2020

Libia, la guerra dei mercenari


Fra i passaggi di truppe di quello che dopo la Siria diventa il fronte mercenario più battuto del Mediterraneo, l’agenzia Reuters annuncia un corposo ritiro di combattenti in Libia. Sono soprattutto i russi del discusso Wagner Group, attivi nei mesi scorsi in alcuni quartieri di Tripoli a sostegno dell’Armata nazionale libica del maresciallo Haftar che s’oppone all’esercito del presidente Serraj. Diverse centinaia di contractor hanno viaggiato su pick up e camion verso la base aerea di Al-Watiya, non distante dalla frontiera tunisina, per essere imbarcati su aerei militari e lasciare il territorio. Non è chiaro se sarà un addio alle armi definitivo (per loro sarebbe un controsenso), probabilmente no perché le manovre di guerra aperta o strisciante continueranno. Da inizio anno l’impegno turco sul suolo libico - in genere per addestramento truppe, ma pure con l’impiego di droni che hanno messo in difficoltà proprio il ‘battaglione Wagner’ - hanno rimesso in discussione gli amorosi sensi che su un altro campo di battaglia mercenario, quello siriano, avevano fatto avvicinare Erdoğan e Putin. Ciascuno tenendo buoni i propri alleati e combattendo i nemici, comunque riavvicinati dopo gli attriti del 2017. La Libia sembra riallontanare i due autocrati, che nel Mediterraneo hanno interessi geopolitici da assolvere, in più su uno scacchiere diventato un crocevia per attori minori (Egitto, Emirati Arabi) e per un affarismo di guerra dove sguazzano imprenditori attratti dai lauti guadagni nel fornire servizi di pattugliamento, cecchinaggio e guerriglia, secondo richieste e bisogni.

Le maggiori agenzie fanno riferimento a mister Prince, affarista americano delle armi in affitto, e a gospodin Prigozhin, magnate russo fattosi forte con ristorazione e casinò poi invaghitosi degli appalti militari. Il primo è un ex marines che ha messo la sua creatura più famosa, Blackwater, al servizio di vari presidenti statunitensi su diversi terreni di guerra, fino a doverla sciogliere per un’inchiesta parlamentare. La sua lucrosa attività prosegua con altri marchi (Academi, Frontier Services) buoni per scontri sul campo oppure vigilanza in zone ad alto rischio, come certi impianti estrattivi in Africa. Eugenij  Prigozhin, col Gruppo Wagner ha fatto molto di più, aggiungendo all’affarismo dei contractor, un diretto rapporto con l’appaltatore principe: il presidente Putin. In seno al Wagner al mercenario è richiesta non solo una ‘prestazione tecnica’, ma un’adesione alla causa. Infatti ‘Wagner’ più che un’agenzia è ritenuta da molti osservatori un esplicito gruppo paramilitare. Lo guida un personaggio esperto, Dmitry Utkin, già colonnello delle Forze speciali russe. All’interno di queste unità trovano collocazione ex militari e miliziani d’ogni risma, con trascorsi da signorotti della guerra o canaglie matricolate delle guerre sporche, insomma soggetti speculari ai tagliagole dell’Isis contro cui hanno battagliato in Iraq e Siria. Così dietro le armate e gli eserciti popolari, l’orizzonte libico continua a restare offuscato da affari personali e affari di Stato in un intreccio serratissimo d’incastri di potere.

lunedì 25 maggio 2020

L’Eid porta la tregua, i taliban vogliono tornare a Kabul


La giostra afghana, dove tutti hanno perso la faccia dicendo ogni cosa e il suo contrario, prosegue la corsa. L’ultima, conseguenza del giorno di chiusura del Ramadan, è la piccola tregua di tre giorni proposta dai talebani proprio per l’Eid e immediatamente sottoscritta da Ghani. Questi, non più tardi d’una settimana fa, aveva decretato azioni offensive contro i turbanti che nell’anno di colloqui coi rappresentanti statunitensi lo avevano espressamente tenuto fuori dalle trattative. Lui per ripicca non ha voluto applicare l’accordo sulla liberazione dei prigionieri. Così stava saltando un po’ tutto, perché i talebani riprendevano le offensive contro l’esercito di Kabul e Ghani sosteneva di passare da azioni difensive a un’aperta ripresa delle ostilità. Bombe, scontri e morti, naturalmente anche fra i civili, non sono mancati. Ora giunge la proposta d’un gesto di ‘buona volontà’ presidenziale con la promessa di liberare duemila prigionieri. Ma i turbanti hanno firmato per riaverne cinquemila e tanti ne vogliono. In cambio lascerebbero mille militari afghani. Ormai la conta passa a chi finora ha evitato d’incontrarsi, ufficiosamente agenzie afghane sostengono che sono tornati in libertà mille miliziani e trecento militari di Kabul. Se questo passo post Ramadan renderà i due fronti più flessibili, il dialogo inter afghano, quello che introduce la ‘fase due’ della pandemia del conflitto, potrà considerarsi iniziato.
Però, come per l’infezione della Sars CoV2, che ufficialmente avrebbe colpito diecimila persone e prodotto circa un migliaio di vittime, il fuoco del contagio della violenza potrebbe ripartire in ogni istante. Anche perché, raggiunto il numero delle rispettive liberazioni, le due parti dovrebbero patteggiare sull’assetto d’un nuovo Esecutivo. Per ora la rinnovata diarchia Ghani-Abdullah ha di nuovo piazzato propri fedelissimi nei vari ministeri, mentre i miliziani coranici si aspettano di ricevere anch’essi una fetta di potere. Il loro leader Akhunzada ha sottolineato che, visti i progressi compiuti a Doha, nessuno può permettersi di gettare al vento l’opportunità di pacificare il Paese dopo diciannove anni di conflitto. Comunque fra le intenzioni e i fatti parlano i dati forniti di recente dall’agenzia Onu Unama. Dicono che, pur in clima di trattative, nell’ultimo anno è aumentato il numero dei feriti civili, causati per il 25% da attacchi talebani (attentati compresi) e per il 36% da azioni dell’esercito afghano (quelle definite difensive da Ghani). E i turbanti, pur assecondando la proposta statunitense di ‘piano di pace’ che Trump vuole sfruttare a suo favore per le presidenziali di novembre, accusano l’aviazione statunitense di aver aumentato dell’80% i raid aerei, ampliando il numero delle vittime civili.

martedì 19 maggio 2020

Bin Salman, cuore di tenebra bloccato dal Coronavirus


Per i ventenni sauditi la "riforma" che cambia vita e costumi significa avere sotto gli occhi una trasformazione delle città dove, accanto alle moschee, al massimo esistevano negozi per i ceti medio-alti. Nei quattro anni di applicazione del programma ‘Vision 2030’, spinto a colpi d’innovazione forzata anche con l’uso della forza su parenti vicini e lontani, il principe Bin Salman ha dato una sterzata alla quotidianità e all’economia. Tantoché la gioventù locale può dire che se fino a ieri non c’era quasi nulla, ora c’è tutto. Inserendo nel tutto l’iper tecnologia, gli intrattenimenti sportivi, musicali, culturali, le donne al volante e i caffè dove ragazzi e ragazze possono incontrarsi, senza che quest’ultime vengano scortate dai maschi di famiglia. Sono cambiamenti, eccome. Ma attenzione, il wahhabismo che ha nutrito per decenni la dinastia Saud, orientando in senso conservatore l’Islam del Golfo e oltre in Golfo, non è affatto scomparso. Trangugia le variazioni d’una certa apparenza del vivere perché è in corso una mutazione degli stessi affari della petromonarchia che finanzia luoghi santi, pellegrinaggi, moschee e madrase dove il fondamentalismo wahhabita prospera e continua a predicare. A modo suo. Le concessioni al femminile sono la moneta di scambio che gli ulema fondamentalisti pagano al principe ‘visionario’ che vuole garantire un futuro a un’economia finora basata sulla rendita d’un unico bene: il petrolio. Proprio la pandemia in corso - che ha bloccato per tre mesi il mondo e rallentato a tal punto i movimenti da ridurre quasi a zero l’estrazione del greggio, facendo crollare il prezzo del barile - ha rappresentato l’ennesima conferma della necessità dell’emancipazione dal sistema di ‘Stato redditiere’ e della bontà del piano principesco. Progetti e investimenti mirati non a fare della penisola arabica un luogo di produzione sul modello asiatico, ma a guadagnare creando oasi per ricchi vacanzieri, approdi per uomini d’affari, un Paese aperto a incontri internazionali d’ogni tipo, persino mediatici. Un controsenso per una nazione dove la libertà di parola non è amata affatto.  
Ma sono proprio le contraddizioni il piatto forte di MBS, uomo che vuole mescolare tradizione e futurismo, privilegiando qua e là quel che conviene al suo potere senza una selezione dettata da regole ferree. Questa flessibilità piace ai molteplici partner, interessatissimi a fare affari con lui prim’ancora che con la dinastia. Attualmente ‘Vision 2030’ deve vedersela con gli effetti della pandemia Sars CoV2 che, imponendo il distanziamento, colpisce inesorabilmente eventi pubblici e turismo, due settori dove il principe riconvertiva i petrodollari. Poi ci sono design e costruzioni (basti pensare alla cattedrale nel deserto di Neom, la megacittà da 500 miliardi di dollari), bioteach, digitale, intrattenimento. Ma come s’è visto in questa fase se il circuito globale si ferma il giocattolo di MBS rischia di finire in pezzi. Già qualche analista intona il De profundis per il piano del principe. E sebbene nelle settimane d’infezione lo Stato saudita ha tutelato i dipendenti di sue grandi aziende come l’Aramco, pagando comunque stipendi e tenendo il personale in quarantena, questo particolare “welfare” non potrà durare. La crisi del greggio sta colpendo duramente le pur corpose casse saudite e pure la riconversione in atto subisce il blocco e pericolosi strascichi, tantoché i benefit offerti alla popolazione per carburanti ed energia elettrica dovranno diminuire. In più il governo triplica la tassa per beni e servizi facendola passare dal 5 al 15%, un fattore che potrà avere una ripercussione sulla popolarità di Bin Salman. Un uomo finora più amato che odiato. Ma sicuramente temuto da nemici e amici.  Il suo cuore di tenebra, implacabile verso ogni dissidenza, è testimoniato da incarcerazioni e condanne a morte ufficiali, accanto a quelle decise in ambienti celati dove può accadere di tutto, come la vicenda Khashoggi insegna.

lunedì 18 maggio 2020

Afghanistan, accordo a due sul generale stupratore


Si sono accordati ieri rappresentando se stessi, la propria foia di potere, le miserie con cui nominano maresciallo (onorificenza offerta solo in due occasioni nella storia del Paese) uno sciacallo del panorama afghano, che già avevano fatto vicepresidente. Il lugubre trio è tristemente noto: Ghani, Abdullah, Dostum. I primi due che, dopo le elezioni farsa dello scorso settembre s’erano proclamati entrambi presidenti, non bisticciano più. Come nel 2014 Ghani sarà capo di Stato, Abdullah rappresenterà il governo nei colloqui inter-afghani finora bloccati dalla rigidità di Ghani. Il quale non accettava di applicare l’accordo sottoscritto a Doha fra la delegazione dei turbanti e la rappresentanza statunitense, ripagato col disprezzo e disconoscimento di qualsiasi leadership dai talebani stessi. Ora si ritroveranno tutti nel governo di transizione con l’aggiunta del generale uzbeko. Un assassino matricolato, al pari di altri signori della guerra degli anni Novanta, ma più di altri rimasti in vita inserito ai vertici dell’amministrazione “democratica” che seguiva quella di Karzai. Sei anni fa Dostum, che dispone di diverse centinaia di miliziani, aveva spostato la forza delle sue armi su Ghani, che lo aveva reso vicepresidente. Ora è Abdullah a insistere per il prestigioso titolo militare, Ghani acconsente e i comandi Nato presenti a Kabul annuiscono, sebbene negli ultimi tempi qualche grana Dostum l’avesse creata allo stesso governo fantoccio. Da boss della guerra è difficile ostacolarne affari e vizi, in alcune circostanze in cui reparti dell’Afghan National Army erano intervenuti a limitarne certe malefatte s’era sfiorato il duello amico.
Probabilmente su imposizione statunitense, diventato d’un certo ingombro, Dostum aveva svernato per un periodo in Turchia. Ma ora che la coppia del potere interno lo fa partecipare alla festa d’una ritrovata armonia canagliesca rispunta una losca vicenda che conferma la depravazione del generale. La rilancia Human Rights Watch riprendendo le accuse rivolte da un parlamentare afghano, Ahmad Ishchi, che quattro anni addietro denunciò d’essere stato duramente picchiato da Dostum davanti a centinaia di persone. Quindi venne rapito da un suo commando, condotto in una casa, torturato e violentato dal signore della guerra che lo lasciò in balìa dei suoi bravi pronti a proseguire lo stupro  usando le canne dei fucili. La vittima ha prodotto documentazioni mediche e denunciato la vicenda su una tivù nazionale. Il fattaccio era stato messo a tacere dal governo. Rappresentava una delle reiterate violenze di cui continuava a macchiarsi l’uzbeko, uno dei massacratori di kabulioti assieme al pashtun Hakmatyar, al tajiko Massud, all’hazara Mazari, tutti responsabili di crimini contro l’umanità. Invece la vicenda non imbarazza l’establishment di Kabul, pronto a proseguire il percorso da dove l’aveva lasciato prima della consultazione elettorale. Col nuovo patto della diarchia Dostum beneficerà del titolo (e del copioso stipendio di maresciallo) mentre Ghani e Abdullah, che per ora hanno assegnato fifty-fifty i ministeri ai propri galoppini, dovranno patteggiare coi taliban l’organizzazione del nuovo governo. Ovviamente ci sarà un rimpasto. Però fra criminali, fra un attentato e una sparatoria, un accordo si dovrà trovare. Anche perché è quel che desiderano a Washington.  

domenica 17 maggio 2020

Nuovi arresti di sindaci kurdi in Turchia


Cinque anni sono trascorsi dalla gioia dell’exploit politico-amministrativo del Partito democratico dei popoli alla caduta nell’inferno carcerario di tanti suoi membri. Il sorriso della prima settimana di giugno 2015, che nelle elezioni politiche dava all’Hdp ottanta deputati nel Meclis, veniva insanguinato dall’assedio armato di alcuni centri del sud-est anatolico, su cui spiccò il settembre nero di Cizre. Da lì, assieme all’esercito di Ankara che sparava sulle case e su chi le abitava, iniziò la decurtazione del sogno amministrativo kurdo. La co-sindaco Leyla İmret venne esautorata dall’incarico dal premier dell’epoca Davutoğlu e sostituita da un funzionario scelto dal ministro dell’Interno Altinok. Due sodali di Erdoğan col tempo scomparsi, almeno dal governo, mentre la linea di cancellazione della rappresentanza kurda ha proseguito il suo corso, specie dopo il mancato golpe del luglio 2016. Mentre l’attacco al voto popolare continua ad andare di pari passo con la persecuzione giudiziaria di amministratori e deputati kurdi. Così il ministero dell’Interno, attualmente è Süleyman Soylu, ha comunicato la destituzione dei due co-sindaci di Siirt, e di altri due colleghi dei distretti di Kurtalan e Baykan. Stesso provvedimento nella cittadina di Idgir. Tutti sono stati rimpiazzati da amministratori di nomina governativa, dunque non si provvede a una rielezione popolare, ma si collocano funzionari o personaggi che gravitano nella sfera del partito di maggioranza. Dalle elezioni amministrative dello scorso anno, in cui l’Akp ha perso la guida nelle maggiori metropoli e città del Paese, dei sessantacinque sindaci targati Hdp che erano stati eletti in varie località del sud-est ben quarantacinque sono stati rimossi.
Ventuno sono stati addirittura arrestati con la solita accusa di fiancheggiamento del terrorismo attraverso una prossimità politica col Pkk. Purtroppo non è una novità, e il partito filo kurdo sta subendo un quasi totale azzeramento della generazione di quadri e figure di spicco del partito che s’erano formate nell’ultimo quindicennio. Tra esse c’è il deputato e co-segretario dell’Hdp Demirtaş detenuto dal novembre 2016 presso il carcere di massima sicurezza di Edirne con accuse di favorire il terrorismo. Nei mesi scorsi, nonostante un grave malore e precarie condizioni cardiocircolatorie, è stata respinta la richiesta dei suoi legali per un trasferimento in ospedale. Proprio il ministro Soylu, alla guida del dicastero dell’Interno dal 2016 (dopo l’abbandono del predecessore Ala accusato d’essere troppo morbido verso ogni  terrorismo islamista, kurdo e gülenista), il mese scorso voleva dimettersi anch’egli. Glielo ha impedito Erdoğan in persona. Soylu era stato criticato per aver imposto il coprifuoco in oltre trenta città, come misura per contenere la pandemia. La sua permanenza nell’Esecutivo nella delicata fase di crisi virale ed economica della Turchia è stata imposta dal presidente che pochi giorni prima aveva dovuto accettare le dimissioni del ministro dei Trasporti. Eppure nonostante i balletti governativi, assieme al coronavirus non s’è fermata un certa repressione. Una giornalista e un’attivista kurda che si occupavano di controinformazione sui contagi virali sono state accusate della magistratura di “diffusione di notizie atte a creare paura fra la popolazione”. Su di loro è in corso un’inchiesta e il rischio arresto è dietro l’angolo.

mercoledì 13 maggio 2020

Afghanistan, le bombe dalla culla alla bara


Non c’è tempo per vivere nell’Afghanistan devastato da kamikaze e autobomba. Non c’è futuro nella tua vita di poche ore o pochi giorni. Così muori in fasce fra le braccia di tua madre, oppure muori tu e lei si salva. Se accade il contrario è davvero cosa peggiore. Perché da maschio, pur sopravvivendo ad altri attentati, se ti va bene finirai in un orfanotrofio, dove con difficoltà però sarai  nutrito. Altrimenti t’aspettano gli stenti della strada, col tuo corpicino offerto alla miseria che impera, le membra che possono essere offese, stuprate, usate da chicchessia. E da bambino c’è chi ti guarda e, oltre a sfruttarti col lavoro minorile, sonda il disorientamento per gettare il tuo cuore nella mischia del fondamentalismo armato. Oppure cuce sul tuo corpo una divisa a difesa del leader corrotto che un certo mondo geopolitico designa e t’indica di votare come Presidente. Se sei una bambina e futura donna, la vita sarà ancora più dura, dentro e fuori le mura domestiche. Le storie le conosciamo e, fra coloro che non hanno voce, solo le ribelli - che rischiano, ma quale alternativa resta? - danno una luce e vendono cara la pelle. Ieri a Kabul la strage di neonati e delle loro mamme, ventiquattro vittime e decine di feriti, inizialmente non rivendicata, è opera dello Stato Islamico del Khorasan. In tre si son fatti saltare in aria fra i reparti dell’ospedale gestito da Medici senza Frontiere, colpendo ancora una volta la comunità hazara, e anche alcuni sanitari del reparto più bello, quello che dà luce a voci nuove. Invece gli uomini che s’immolano, seminando morte, hanno creato il black out dell’orrore. Ghani ufficialmente dichiara che l’esercito non può limitarsi alla sicurezza (che palesemente non riesce a garantire) deve riprendere l’offensiva. Quasi in contemporanea, in un funerale d’un comandante di polizia nella provincia di Nangarhar, esplodeva un’autobomba e si portava via ancora più persone. Venticinque, ma come da copione i morti nelle ore saliranno perché fra il centinaio di feriti molti sono in condizioni disperati. Fra i deceduti accertati c’è un noto comandante delle Forze armate afghane che assisteva al rito funebre. Quest’attentato era stato immediatamente firmato dall’Isil. In un Paese trasformato nel trionfo della morte, che s’impone alla vita appena sbocciata, a chi la crea e la festeggia, oppure ai cuori spezzati che assistono un defunto e che trovano in quel luogo sepoltura per se stessi. In quel Paese resta il quadro desolante che vuole seppellire la vita appena compare un vagito. Se i boia sono i fanatici dell’Islam, il fanatismo di chi rimane avvinghiato a un modello spettrale che parla di risposta, di guerra, di popolo da vendicare non è da meno. Quel popolo andrebbe rigenerato, ma non può farlo chi gli offre come futuro solo la fuga da un inferno creato e conservato per decenni.  

martedì 12 maggio 2020

Afghanistan, foto ricordo per il "generale talebano"


Più realista dell’accordo firmato a Doha il generale afghano, ormai in pensione, Abdul Jalil Bakhtawar, un tempo persecutore di talebani nella provincia di Farah, s’è fatto fotografare con ghirlande  al collo, un bel turbante colorato assieme ai turbanti neri e gente che sventola bandiere dell’Emirato Islamico. Uno dei siti web della propaganda fondamentalista mostra entusiasticamente lo scatto come un trofeo. Dimessa, ma propagandistica, anche la replica proveniente dal ministero dell’Interno afghano. Dice: “Ci rammarichiamo che il generale in pensione si sia unito ai nemici della pace e della stabilità e abbia scelto la violenza rispetto alla vita e alla dignità” facendo intendere che i governi di Kabul scelgano quest’ultima strada agli antipodi dei taliban. Una discrasia rispetto ai passi compiuti negli ultimi diciotto mesi dai protettori statunitensi che una pacificazione, tutta da verificare, l’hanno cercata dialogando con gli ex nemici. In tal senso l’ex generale è più realista dei sovrani firmatari, quelli di Washington e di Quetta, che fra l’altro escludevano Ghani, disconoscendogli spessore e potere.

Non è noto perché Bakhtawar si sia lanciato nel clamoroso gesto. Temeva, forse, fuori dai ranghi di poter diventare un bersaglio di quella guerriglia che tanto aveva combattuto e che aveva cercato di ucciderlo in vari modi? Ha, però, creato una voragine coi parenti stretti. In sintonia con lui i figli erano coinvolti nella politica filogovernativa, uno come deputato, un secondo come amministratore locale. E quando quest’ultimo morì in un incidente d’elicottero i miliziani che controllavano la zona oltraggiarono il cadavere tenendolo in ostaggio per alcuni giorni. Ma il passato familiare e di conflitto coi talebani sembra lavato da un gran colpo di spugna. Un po’ come i diciassette anni di guerra americano-afghana contro i combattenti islamici. Il figlio-deputato cerca d’uscire dall’imbarazzo sostenendo che la notizia è usata da opportunisti che puntano a mettere indirettamente in difficoltà il governo. E che non occorre mescolare attuali iniziative personali paterne coi ruoli del passato. Infatti sembra che il genitore stesse intraprendendo un’azione di conciliazione fra tribù rivali nelle cui dinamiche intervenivano anche i talebani della zona.

Ma si vocifera che per anni il generale unisse a operazioni militari antiguerriglia anche operazioni affaristiche creando milizie personali per sopperire alle carenze governative. Come fosse un Signore della guerra. Poi dev’essere accaduto qualcosa ai suoi rapporti col Gotha statale. Alle votazioni del 2018 si presentava come deputato nella provincia di Farah, pareva aver conseguito l’elezione, tranne poi venir dichiarato perdente dai “risultati ufficiali”. Da tempo il generale si sentiva abbandonato dai vertici militari e politici e anche prima di lasciare l’incarico per sopraggiunti limiti d’età, si trovava coi suoi gruppi tribali paramilitari di Farah a volte a sostenere la linea governativa, in altre circostanze prendeva posizioni pro taliban. Ben prima della foto-ricordo. E’ il lato celato della cosiddetta “democratizzazione” del Paese. Un modello considerato fallito dagli stessi vertici di Washington che rimettono in gioco i talebani, magari disponibili a consentire, a fronte d’un ritiro delle truppe di terra, la conservazione di alcune basi aeree strategiche per il controllo del  Grande Medio Oriente. L’ex generale Bakhtawar, nel suo piccolo è in linea col nuovo quadro. Possiamo pensarlo impegnato in affarucci personali (droga? armi?) come accade da decenni a tanti, col benestare di tutti. 

sabato 9 maggio 2020

India, morire di lavoro e senza il lavoro


Camminavano in venti su una ferrovia, da Jalna a Bhusawal nello Stato indiano del Maharashtra. Centoquindici milioni di abitanti, la terza entità amministrativa della nazione-continente col capoluogo Mumbai, metropoli di 12 milioni di cittadini e impero di Bollywood. Erano rimasti senza lavoro, e senza salario, per la chiusura dell’acciaieria dov’erano occupati. Avevano percorso 36 chilometri a piedi, seguendo la strada ferrata che li avrebbe portati verso nord col tragitto più breve. Stremati s’erano accucciati a bere, riposare e, forse dormire, quando improvvisamente alle cinque del mattino un treno merci è piombato alle loro spalle. Loro sapevano che nessun mezzo sarebbe transitato durante il blocco dei trasporti. Il conducente ha tirato il freno, ma il treno ha continuato a scivolare sulla lingua ferrosa per decine e decine di metri. Solo quattro hanno avuto prontezza e forza di saltare oltre i binari. Di altri quattordici la polizia, accorsa sul posto dopo il disastro, ha trovato corpi straziati e poveri abiti imbrattati di sangue. Altri due martoriati, con ferite gravissime, sono deceduti in ospedale. E’ l’altra faccia del Covid-19, la morte per fame, o quella per incredibili incidenti ricercando un qualsiasi lavoro che dia a famiglie numerose qualche risorsa per sopravvivere.
Il giorno precedente un altro incidente aveva ucciso undici dipendenti d’una fabbrica di materie plastiche per fuoriuscita di stirene (un idrocarburo) da una valvola d’un serbatoio. L’impianto della LG Group, multinazionale sud coreana, aveva appena ripreso la produzione, ora nuovamente sospesa per l’intossicazione di centinaia di addetti. In questi giorni di graduale ripresa, dopo sei settimane di chiusura di importanti attività industriali, le notizie di tragici incidenti si rincorrono. Saranno state allentate le misure di sicurezza per “recuperare” il tempo perduto oppure si riparte con superficialità, magari affidando a nuove maestranze operazioni che richiedono adeguata preparazione, comunque c’è pressappochismo. Un profondo scombussolamento l’aveva prodotto l’inadeguato approccio governativo alla pandemia. Dopo un’iniziale vaghezza l’Esecutivo Modi ha imposto severi blocchi agli ingressi nel Paese e agli stessi spostamenti interni. Così un’infinità di migranti internazionali e nazionali si sono affrettati a rientrare e ammassati per raggiungere le località d’origine. Quindi si sono verificati comportamenti scorretti, come quello della Confraternita islamica Tablighi Jamaat di New Delhi, che ha creato un focolaio infettivo nella capitale. Da lì le accuse discriminatrici verso i fedeli musulmani in genere, limitate dal governo per l’ennesima volta in ritardo e senza la dovuta severità nei confronti del dilagante estremismo hindu.
Ciò che macroscopicamente l’India sta vedendo nelle due ultime settimane è una marea umana disperatamente alla ricerca di cibo, verso cui l’intervento di sostegno statale risulta inadeguato, e neppure l’apporto caritatevole di comunità religiose riesce a offrire un aiuto completo. Una nota governativa di queste ore afferma come il premier sia angosciato per la sequela di tragici incidenti. L’opposizione gli punta il dito contro. Sostiene che l’angoscia la vive un popolo stremato dall’assenza di provvedimenti adeguati e di prospettive. Mentre i sindacati denunciano quegli incidenti frutto di mancanza di verifiche nella fase di blocco della produzione. E’ il caso del serbatoio della fabbrica LG dove l’idrocarburo aveva accumulato vapori tossici senza che né la proprietà né autorità preposte si fossero preoccupate a effettuare verifiche. I classici buchi d’una linea economica legata al mero profitto senza tutele per i lavoratori e senza che il governo difenda la comunità da quelli che vengono catalogati come “disastri”. La frenesia del quotidiano e dei bisogni ha ripreso la sua corsa folle, dopo il confinamento nelle case. Una parte della popolazione l’isolamento non l’ha vissuto semplicemente perché priva dell’abitazione, ma i media indiani hanno ripreso a ricordare, fra i vari tipi d’incidente anche quelli automobilistici. Gli indiani stanno morendo più in fabbrica e fuori, fra asfalto e strade ferrate, che per infezione di Covid-19.

Turchia combattuta fra la pandemia sanitaria ed economica


Vive il suo secondo week end blindato per il coronavisrus la Turchia di Erdoğan. Il precedente c’era stato l’11-12 aprile. Tutti in casa in ventiquattro province e nelle maggiori città nonostante le carezze della primavera.  La popolazione è stata “carezzata” dalla pandemia in maniera meno intensa d’altre nazioni, specie d’Europa. Aspetto favorito dalle strutture sanitarie decentrate che hanno realizzato test e tamponi sui primi focolai d’infezione. Attualmente i contagi s’avvicinano ai 130.000 casi, i ricoveri hanno superato gli 86.000, i decessi sono contenuti in 3.700, sebbene alcuni critici facciano notare come il numero delle vittime comprenda solo chi è risultato positivo al test virale. Esistono, però, due fasi della pandemia turca, l’iniziale contenimento condito di profilassi sanitaria, e un’espansione successiva (e tuttora galoppante) dovuto alla necessità economica che ha visto il Paese continuare diverse attività produttive. Sia quelle legate ai mega progetti lanciati dal presidente per il centenario della nazione che cade nel 2023, sia le attività con cui sempre Erdoğan ha pensato di tamponare una situazione interna in crisi già un anno prima che scoppiasse la pandemia mondiale. 

La perdita di valore della lira turca nei confronti del dollaro è cosa nota, e la dispendiosità dei citati progetti (nuovo ponte sul Bosforo, raddoppio del canale sul Mar Nero, le spese già effettuate per la linea euro-asiatica, quelle del nuovo aeroporto İstanbul Yeni Havalimanı e le attuali per dotarlo di metropolitana verso la città che dista 50 km) pone le casse statali in debito visto che i ricconi amici-finanziatori dei sogni del Sultano non sono più numerosi come un tempo. Finora lui ha orgogliosamente escluso domande di prestiti al Fondo Monetario Internazionale sia perché col numero uno di Washington non corre buon sangue, sia perché sa che quell’organismo chiede contropartite politiche a ogni allargamento di borsa. Ma per far da sé ha imposto un sacrificio alla sua gente: lavorare durante la fase pandemica, che è pandemia virale ed economica al tempo stesso. Perciò avere la concorrenza edile, navale, manifatturiera ferma un po’ ovunque per alcune settimane poteva dare ossigeno alla produttività turca, peraltro sempre fiera e dedita al lavoro e al suo export. Per questo Erdoğan non ha usato e maniere forti. Non s’è mostrato in pubblico ma in video, col buon senso del buon padre. Ha provato a bilanciare aperture e chiusure, ha tenuto ferma la filiera turistica (anche per totale assenza di arrivi) perciò hotel, ristoranti, bar, piccoli esercizi hanno dismesso le attività fra marzo e aprile. Non l’hanno fatto gli impianti di costruzione, i cantieri navali, le fabbriche tessili. Per ora la scelta ha pagato sul fronte della popolarità. Sondaggi, non di parte, gli attribuiscono nuovamente un gran consenso, salito addirittura al 60%.

Però da almeno due settimane ha ripreso a salire anche la curva infettiva e i casi di contagio si registrano soprattutto fra gli occupati dei comparti tenuti aperti. Così, parlando fuori dai denti, il presidente dell’Unione lavoratori della costruzioni ha chiesto di bloccare i cantieri, poiché le misure di sicurezza sanitaria sono inesistenti fra chi lavora gomito a gomito. La Confederazione dei sindacati ha stilato un rapporto, sostenendo che indagini sugli iscritti impegnati in questo periodo, evidenziavano casi di ritorno dell’infezione sulla stessa persona colpita e guarita. Tutto ciò rappresenta un pericolo sociale evidente. Già tempo addietro aveva scioccato il caso del dirigente sindacale collassato sulla banchina del nuovo porto di Galata, il più costoso progetto di tutta l’innovazione del fronte mercantile del Bosforo. L’uomo risulta fra i deceduti per Sars CoV2, essendo stato testato in ospedale. D’altro canto sul mercato del lavoro interno gli occupati senza contratto sono i più vulnerabili, se tutto chiude essi non mangiano. Ma ormai anche le categorie dei commercianti tenute forzatamente ferme sono sul piede di guerra. Accanto al virus fanno paura debiti e mancati introiti. Il paso doble, del presidente con aperture e chiusure alternate, potrebbe continuare nonostante i rischi sanitari. E’ l’ennesimo azzardo che l’uomo delle sfide impossibili intende praticare per giungere politicamente indenne al fatidico centenario.

venerdì 8 maggio 2020

Kashmir, guerriglia e repressione oltre la pandemia


Era un prof di matematica prima di diventare un guerrigliero. Per il suo Kashmir, per la sua fede politica era diventato leader di Hizbul Mujahideen. Riyaz Naikoon è stato ucciso dalle truppe indiane che lo consideravano semplicemente un terrorista. Attivo nella regione che dalla scorsa estate ha perso l’originaria autonomia di gestione, diventando aperto terreno di scontro politico e militare fra i locali, armati e non, e l’esercito di Delhi. A trentacinque anni Naikoon rappresentava uno dei nemici più ricercati e il suo stesso gruppo politico da due stagioni era finito sul libro nero statunitense del terrorismo internazionale. Un marchio che concede carta bianca alle truppe speciali dei Paesi impegnati contro coloro che Washington considera demoni. Riyaz era sfuggito a diverse operazioni che puntavano a catturarlo vivo o morto. Nel Kashmir meridionale, dove gli è stato teso l’ultimo agguato, riusciva a trovare sostegno, reclutando nuovi miliziani, e l’appoggio della popolazione durante retate diventate sempre più cruente. Di lui si conosceva una totale dedizione alla causa, si sapeva che fosse un esperto di tecnologia, attentissimo a non lasciare tracce tramite apparecchiature elettroniche, dai cellulari ai computer. Chi gli dava la caccia sapeva che era un solitario con un’elevata attenzione alla sicurezza. Diffidava degli stessi compagni, ne accettava la condivisione dei nascondigli solo dopo averne sperimentato a lungo i comportamenti. Il curriculum stilato dagli autonomisti kashmiri dice che Naikoon aveva incontrato la politica più di dieci anni fa, dopo essersi laureato e aver iniziato a insegnare.
Arrestato dall’Intelligence indiana nel 2010 era stato rilasciato due anni dopo ed era entrato in clandestinità, dopo essersi mostrato al funerale d’un combattente imbracciando un kalashnikov. Quello diventò il passaggio a nuova vita. Scelte simili non sono rare nella regione a maggioranza islamica che negli ultimi anni ha rinfocolato i contrasti di frontiera fra India e Pakistan. Quest’ultimo, come accade per la stessa galassia talebana attiva in Afghanistan, viene accusato di tollerare, proteggere, sostenere gruppi fondamentalisti di cui Islamabad sfrutta le azioni guerrigliere nei Paesi vicini per trarne vantaggi di supremazia regionale. Ovviamente il governo di Imran Khan rigetta le accuse. Comunque, accanto alle azioni repressive dirette, il confine indo-pakistano è tornato a infiammarsi. Nei primi quattro mesi dell’anno s’è verificata un’impennata di conflitti a fuoco fra guardie di frontiera, cresciuti del 67% rispetto all’anno precedente. A essi s’aggiungono scontri e agguati con gruppi come l’Hizbul. Oltre a questo altre due formazioni tengono impegnati i militari indiani, Modi non ha intenzione di allentare la tensione e invia nuove truppe che impongono alle persone distanziamento e chiusura in casa per la pandemia. Vietato anche qualsiasi funerale. Per protestare contro quello mancato a Naikoom nel villaggio di Beighpora la gente ha lanciato pietre, ricevendo in cambio sventagliate di mitra dei soldati indiani e il coprifuoco totale.

sabato 2 maggio 2020

Egitto, l’ultima vittima di balaha-Sisi


Chi definisce balaha, che vuol dire dattero, Abdel Fattah Al Sisi, il presidente-golpista che continua a tingere di sangue l’Egitto? Semplice: il popolo. Non solo quel popolo che lo odia, anche quello che l’accetta per paura. Un po’ come l’italiano medio d’un tempo,  che obbediva al puzzone-Mussolini pur detestandolo, tanti egiziani chinano la testa davanti al dittatore e lo sbeffeggiano a mezza bocca. Ma certi giovani coraggiosi e scanzonati, che credono nella democrazia e nell’ironia, non si autocensurano. Uno di loro era Shadi Habash, che la gioia di vivere la trasmetteva con un sorriso accattivante, e da ieri aggiunge il suo nome alla lunghissima lista dei defunti in carcere. Per CoronaSisi, non per Coronavirus, sebbene nelle galere cairote si muoia anche di quello. Rispetto ad altri tiranni il dittatore egiziano non è stato neppure sfiorato dall’idea d’una moratoria sulle carcerazioni di persone che non possono essere neppure annoverate fra gli oppositori. Shadi era uno di loro. Aveva partecipato al montaggio d’un video (diventato virale prima d’essere cancellato dai social) in cui compariva il nomignolo del generale egiziano, che non ha certo nell’altezza un punto di forza. Dunque, è bollato come dattero. Per quel video Shadi era finito nella peggiore galera egiziana, la famigerata Tora nella capitale.

Aveva vent’anni quando confezionava quel materiale, considerato peggio di una bestemmia contro Allah. Conteneva la canzonetta con cui il cantante Rami Essam canzonava il generale. Rami, per non fare la fine di tanti connazionali, era prudentemente riparato in Svezia. Non Shadi che ha terminato una vita breve ma intensa a ventidue anni. Davanti al suo malore i compagni di cella invocavano l’aiuto delle guardie carcerarie. Nessuno ha mosso un dito. Ieri il pesante portone s’è aperto per portarne via il cadavere. Uno di meno, conteggiano nei palazzi del lubrico Potere. Uno di più in una lista immensa di morti ammazzati, oppure fatti morire nelle immonde prigioni dove il ‘dattero’ interna anche chi semplicemente ne deride la goffaggine, non fisica, ma mentale. Shadi era un artista, amante della fotografia, una professione egualmente perseguitata in quel Paese, a meno che non si ponga al servizio della lobby militare e inquadri l’esercito che sfila, vigila, protegge (chi? cosa?) o lanci i primi piani di mister Balaha. Habash non era fra costoro. E’ finito nell’immenso cimitero dei deceduti, dentro e fuori le galere, che è l’Egitto di Sisi. Dove prosegue il perfido tormento dello “stop and go” che una magistratura asservita all’esercito ha adottato nei confronti di migliaia di giovani. Fermati, arrestati, rilasciati e ricondotti alla spirale di partenza.

Ribadiamo, non necessariamente oppositori, rapper, blogger, giovani e basta. O ricercatori come Patrick Zaky, di cui s’è parlato perché veniva da Bologna, perché la sua famiglia è benestante e qualche contatto con Ong internazionali l’ha preso. Ma è servito a poco, visto che resta tuttora rinchiuso. Condizione comune con persone che non hanno goduto neppure d’una traccia sulla stampa e se spariranno, com’è accaduto ad altri prima di loro, il governo del Cairo potrà dire che quei casi non esistono. Come non esistono quegli individui. E’ solo grazie a una rete non ancora tagliuzzata, ma continuamente minacciata, di attivisti che dall’estero seguono la triste sorte dei connazionali piegati, torturati, lasciati morire da secondini, poliziotti, militari, che si sussurra di questo scempio. L’Egitto-lager che la geopolitica e la geoeconomia fanno finta di non vedere, come bene sanno i genitori Regeni. Così un ragazzo che chiameremo Khaled, per non metterne ulteriormente in pericolo la già precaria condizione di carcerato-rilasciato-carcerato, è nuovamente scomparso dopo essere passato per il commissariato  di Kasr el Nil. I conoscenti pensavano fosse stato rigettato in cella a Tora. Invece da alcune settimane di lui non si sa nulla. Gli amici disperano. Hanno davanti agli occhi l’immagine martoriata di Giulio Regeni e quella dei tanti ragazzi estratti esanimi dalle celle. Corpi seviziati o denutriti. Un cartoccio di ossa e indumenti di cui, se va bene, resta un nome. Da dimenticare.

Kabul, soliti copioni


Se la pace non cammina, ritorna la guerra. Devono ammetterlo a Kabul: gli attentati riprendono il ritmo di due anni addietro. Non lo dice il apertamente il governo, ma gli uomini del Sigar, l’Ispettorato speciale per la ricostruzione. E sono attentati talebani, non dello Stato Islamico del Khorasan che dalle trattative di Doha era escluso e si escludeva da sé. Peraltro negli ultimi tre mesi coi marines poco schierati nei presidi di terra, l’impatto offensivo ricade tutto sul claudicante esercito locale, sempre in affanno sul tema di vigilanza e sicurezza. Più efficiente l’apparato statistico che dall’inizio di marzo ha conteggiato un numero di attacchi doppio rispetto all’anno precedente. Trattandosi di una fase dell’anno tradizionalmente scelta dalla guerriglia quale “campagna di primavera”, la notizia non è confortante. Il comando statunitense tuttora presente nella capitale afghana, punterebbe a un’applicazione dei propositi sanciti con tanto di firma in calce a conclusione della trattativa. Però, per bocca del generale responsabile Austin Miller giunge anche la domanda: “Cosa dovremmo fare noi, restare a guardare questi attacchi?”. In realtà le offensive non sono a senso unico. Proprio Baradar, il mullah che guidava il gruppo talebano negli incontri in Qatar, nelle scorse settimane ha denunciato la ripresa di operazione antiguerriglia da parte dell’esercito di Ghani, con tanto di supporto dai cieli di elicotteri e droni americani. Dunque le accuse s’intrecciano.
Proprio un rapporto Sigar ufficializza che ad aprile, fra una ripresa di attentati e di azioni antiguerriglia, il generalone Usa ha attivato un personale canale d’incontri (finora un paio) coi taliban, per capire come gestire la piazza di Kabul. Gli accordi di Doha non proibiscono ai turbanti di colpire obiettivi del governo definito fantoccio, quest’ultimo è alleato di Washington, ma i rapporti sono ai minimi storici. Ciò che preoccupa Miller è limitare l’impatto della violenza nella capitale, tenerlo basso, controllarlo. Sembra un controsenso, ma è conforme all’agenda sostenuta dal Segretario di Stato Pompeo che ha punito Ghani, boicottatore della concordata liberazione dei miliziani prigionieri, tagliandogli un miliardo di dollari di aiuti. Comunque i talebani sono infuriati. Ribadiscono che non si può esistere una situazione tranquilla senza punire chi non rispetta gli accordi. Sostengono, poi, d’aver ripreso l’offensiva, ma certi agguati non provengono dalle proprie file. E richiamano, quindi lo spettro dell’Isil che, accordi o meno, per proprio conto tengono vivi gli attentati. “La violenza colpisce la volontà popolare di accettare compromessi e discredita la promessa del processo di pace” ha dichiarato in un’intervista ai media di casa mister Miller. Non chiarendo, però, se per violenza s’intenda anche quella dei suoi reparti di terra e d’aria. Mentre i graduati afghani non cercano voli pindarici, non credono al processo di pace e ritengono che i mesi di trattative abbiano rafforzato i reclutamenti talib in tante province. Loro sono per la guerra e tirano per la giacca i marines, incitandoli a restare e combattere.