Cinque anni sono trascorsi dalla gioia dell’exploit
politico-amministrativo del Partito democratico dei popoli alla caduta
nell’inferno carcerario di tanti suoi membri. Il sorriso della prima settimana
di giugno 2015, che nelle elezioni politiche dava all’Hdp ottanta deputati nel
Meclis, veniva insanguinato dall’assedio armato di alcuni centri del sud-est
anatolico, su cui spiccò il settembre nero di Cizre. Da lì, assieme
all’esercito di Ankara che sparava sulle case e su chi le abitava, iniziò la
decurtazione del sogno amministrativo kurdo. La co-sindaco Leyla İmret venne
esautorata dall’incarico dal premier dell’epoca Davutoğlu e sostituita da un
funzionario scelto dal ministro dell’Interno Altinok. Due sodali di Erdoğan col
tempo scomparsi, almeno dal governo, mentre la linea di cancellazione della
rappresentanza kurda ha proseguito il suo corso, specie dopo il mancato golpe
del luglio 2016. Mentre l’attacco al voto popolare continua ad andare di pari
passo con la persecuzione giudiziaria di amministratori e deputati kurdi. Così
il ministero dell’Interno, attualmente è Süleyman Soylu, ha comunicato la
destituzione dei due co-sindaci di Siirt, e di altri due colleghi dei distretti
di Kurtalan e Baykan. Stesso provvedimento nella cittadina di Idgir. Tutti sono
stati rimpiazzati da amministratori di nomina governativa, dunque non si
provvede a una rielezione popolare, ma si collocano funzionari o personaggi che
gravitano nella sfera del partito di maggioranza. Dalle elezioni amministrative
dello scorso anno, in cui l’Akp ha perso la guida nelle maggiori metropoli e
città del Paese, dei sessantacinque sindaci targati Hdp che erano stati eletti
in varie località del sud-est ben quarantacinque sono stati rimossi.
Ventuno sono stati addirittura arrestati con la solita
accusa di fiancheggiamento del terrorismo attraverso una prossimità politica
col Pkk. Purtroppo non è una novità, e il partito filo kurdo sta subendo un
quasi totale azzeramento della generazione di quadri e figure di spicco del
partito che s’erano formate nell’ultimo quindicennio. Tra esse c’è il deputato
e co-segretario dell’Hdp Demirtaş detenuto dal novembre 2016 presso il carcere
di massima sicurezza di Edirne con accuse di favorire il terrorismo. Nei mesi scorsi,
nonostante un grave malore e precarie condizioni cardiocircolatorie, è stata
respinta la richiesta dei suoi legali per un trasferimento in ospedale. Proprio
il ministro Soylu, alla guida del dicastero dell’Interno dal 2016 (dopo l’abbandono
del predecessore Ala accusato d’essere troppo morbido verso ogni terrorismo islamista, kurdo e gülenista), il
mese scorso voleva dimettersi anch’egli. Glielo ha impedito Erdoğan in persona.
Soylu era stato criticato per aver imposto il coprifuoco in oltre trenta città,
come misura per contenere la pandemia. La sua permanenza nell’Esecutivo nella
delicata fase di crisi virale ed economica della Turchia è stata imposta dal presidente
che pochi giorni prima aveva dovuto accettare le dimissioni del ministro dei
Trasporti. Eppure nonostante i balletti governativi, assieme al coronavirus non
s’è fermata un certa repressione. Una giornalista e un’attivista kurda che si
occupavano di controinformazione sui contagi virali sono state accusate della
magistratura di “diffusione di notizie
atte a creare paura fra la popolazione”. Su di loro è in corso un’inchiesta
e il rischio arresto è dietro l’angolo.
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