Non
c’è tempo per vivere nell’Afghanistan devastato da kamikaze e autobomba. Non
c’è futuro nella tua vita di poche ore o pochi giorni. Così muori in fasce fra
le braccia di tua madre, oppure muori tu e lei si salva. Se accade il contrario
è davvero cosa peggiore. Perché da maschio, pur sopravvivendo ad altri
attentati, se ti va bene finirai in un orfanotrofio, dove con difficoltà però
sarai nutrito. Altrimenti t’aspettano
gli stenti della strada, col tuo corpicino offerto alla miseria che impera, le membra
che possono essere offese, stuprate, usate da chicchessia. E da bambino c’è chi
ti guarda e, oltre a sfruttarti col lavoro minorile, sonda il disorientamento
per gettare il tuo cuore nella mischia del fondamentalismo armato. Oppure cuce
sul tuo corpo una divisa a difesa del leader corrotto che un certo mondo
geopolitico designa e t’indica di votare come Presidente. Se sei una bambina e
futura donna, la vita sarà ancora più dura, dentro e fuori le mura domestiche.
Le storie le conosciamo e, fra coloro che non hanno voce, solo le ribelli - che
rischiano, ma quale alternativa resta? - danno una luce e vendono cara la
pelle. Ieri a Kabul la strage di neonati e delle loro mamme, ventiquattro
vittime e decine di feriti, inizialmente non rivendicata, è opera dello Stato
Islamico del Khorasan. In tre si son fatti saltare in aria fra i reparti
dell’ospedale gestito da Medici senza Frontiere, colpendo ancora una volta la
comunità hazara, e anche alcuni sanitari del reparto più bello, quello che dà
luce a voci nuove. Invece gli uomini che s’immolano, seminando morte, hanno
creato il black out dell’orrore. Ghani ufficialmente dichiara che l’esercito
non può limitarsi alla sicurezza (che palesemente non riesce a garantire) deve
riprendere l’offensiva. Quasi in contemporanea, in un funerale d’un comandante
di polizia nella provincia di Nangarhar, esplodeva un’autobomba e si portava
via ancora più persone. Venticinque, ma come da copione i morti nelle ore
saliranno perché fra il centinaio di feriti molti sono in condizioni disperati.
Fra i deceduti accertati c’è un noto comandante delle Forze armate afghane che
assisteva al rito funebre. Quest’attentato era stato immediatamente firmato
dall’Isil. In un Paese trasformato nel trionfo della morte, che s’impone alla
vita appena sbocciata, a chi la crea e la festeggia, oppure ai cuori spezzati
che assistono un defunto e che trovano in quel luogo sepoltura per se stessi. In
quel Paese resta il quadro desolante che vuole seppellire la vita appena
compare un vagito. Se i boia sono i fanatici dell’Islam, il fanatismo di chi
rimane avvinghiato a un modello spettrale che parla di risposta, di guerra, di
popolo da vendicare non è da meno. Quel popolo andrebbe rigenerato, ma non può
farlo chi gli offre come futuro solo la fuga da un inferno creato e conservato per
decenni.
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