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venerdì 8 maggio 2020

Kashmir, guerriglia e repressione oltre la pandemia


Era un prof di matematica prima di diventare un guerrigliero. Per il suo Kashmir, per la sua fede politica era diventato leader di Hizbul Mujahideen. Riyaz Naikoon è stato ucciso dalle truppe indiane che lo consideravano semplicemente un terrorista. Attivo nella regione che dalla scorsa estate ha perso l’originaria autonomia di gestione, diventando aperto terreno di scontro politico e militare fra i locali, armati e non, e l’esercito di Delhi. A trentacinque anni Naikoon rappresentava uno dei nemici più ricercati e il suo stesso gruppo politico da due stagioni era finito sul libro nero statunitense del terrorismo internazionale. Un marchio che concede carta bianca alle truppe speciali dei Paesi impegnati contro coloro che Washington considera demoni. Riyaz era sfuggito a diverse operazioni che puntavano a catturarlo vivo o morto. Nel Kashmir meridionale, dove gli è stato teso l’ultimo agguato, riusciva a trovare sostegno, reclutando nuovi miliziani, e l’appoggio della popolazione durante retate diventate sempre più cruente. Di lui si conosceva una totale dedizione alla causa, si sapeva che fosse un esperto di tecnologia, attentissimo a non lasciare tracce tramite apparecchiature elettroniche, dai cellulari ai computer. Chi gli dava la caccia sapeva che era un solitario con un’elevata attenzione alla sicurezza. Diffidava degli stessi compagni, ne accettava la condivisione dei nascondigli solo dopo averne sperimentato a lungo i comportamenti. Il curriculum stilato dagli autonomisti kashmiri dice che Naikoon aveva incontrato la politica più di dieci anni fa, dopo essersi laureato e aver iniziato a insegnare.
Arrestato dall’Intelligence indiana nel 2010 era stato rilasciato due anni dopo ed era entrato in clandestinità, dopo essersi mostrato al funerale d’un combattente imbracciando un kalashnikov. Quello diventò il passaggio a nuova vita. Scelte simili non sono rare nella regione a maggioranza islamica che negli ultimi anni ha rinfocolato i contrasti di frontiera fra India e Pakistan. Quest’ultimo, come accade per la stessa galassia talebana attiva in Afghanistan, viene accusato di tollerare, proteggere, sostenere gruppi fondamentalisti di cui Islamabad sfrutta le azioni guerrigliere nei Paesi vicini per trarne vantaggi di supremazia regionale. Ovviamente il governo di Imran Khan rigetta le accuse. Comunque, accanto alle azioni repressive dirette, il confine indo-pakistano è tornato a infiammarsi. Nei primi quattro mesi dell’anno s’è verificata un’impennata di conflitti a fuoco fra guardie di frontiera, cresciuti del 67% rispetto all’anno precedente. A essi s’aggiungono scontri e agguati con gruppi come l’Hizbul. Oltre a questo altre due formazioni tengono impegnati i militari indiani, Modi non ha intenzione di allentare la tensione e invia nuove truppe che impongono alle persone distanziamento e chiusura in casa per la pandemia. Vietato anche qualsiasi funerale. Per protestare contro quello mancato a Naikoom nel villaggio di Beighpora la gente ha lanciato pietre, ricevendo in cambio sventagliate di mitra dei soldati indiani e il coprifuoco totale.

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