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martedì 30 gennaio 2018

Afghani: rimpatri forzati fra le bombe


Tornano. Sono costretti a tornare nel Paese da cui erano fuggiti per cercare un’esistenza futura. Sono migliaia di afghani che, come altri migranti e rifugiati, si vedono respinti dall’aria che tira in Europa, un’aria xenofoba fomentata o subìta dai tanti governi Ue. Che in troppe circostanze, e nelle più diverse latitudini, non hanno attuato un’adeguata politica dell’accoglienza e dell’inserimento delle emergenze migratorie, così da ritrovarsi decine di migliaia di vite in sospeso. E nelle condizioni più varie: dalle para-detenzioni di taluni centri di accoglienza, alla ghettizzazione e all’autoemarginazione in città e campagne di chi cerca di arrangiare un’agra realtà pur di non tornare negli inferni conosciuti. Di chi si fa fantasma sociale pur rientrando nella catena dell’uso e dello sfruttamento di mano d’opera. Un fenomeno discusso dalla gente per via, prima che dai politici nelle sedi istituzionali e nei salotti televisivi. Discusso spesso in assenza d’informazioni, lamentando le proprie contraddizioni crescenti, col sangue agli occhi per la contrapposizione dei diritti e lo scontro razziale e razzista che ne consegue. E l’Italia non è fra le piazze peggiori, visti i muri e le minacce sollevati in questi anni dal pensiero neonazista riagitato nell’Europa della tradizione e della conservazione. Indifferenti all’orgiastica competizione dell’assassinio di civili per accaparrarsi la leadership del terrore che è in atto da due anni fra talebani e Isis del Khorasan, i governi del nostro continente aumentano i rimpatri forzati di richiedenti asilo afghani.
Nel 2016 avevano respinto circa 10.000 individui, compresi molti minori, nell’anno che s’è chiuso la cifra è aumentata, nonostante siano cresciute le vittime nelle province dove gli afghani vengono rispediti. Ma a premier e ministri degli Interni dei Paesi dell’Unione, anche quelle anime politiche che si fanno belle di sani princìpi di cristiana ospitalità poco interessa il contorno esterno. Premono ragioni di Stato e i risultati elettorali di un’Occidente ormai assillato da paure e chiusure, una società che si asfissia in una futile tecnologia della pace, trasferendo i prodotti della propria tecnologia della morte nel mondo posto sotto tutela. Cui s’aggiunge la sciagurata potestà delle alleanze economiche e geostrategiche che disegnano i disastri presenti nei luoghi di crisi. Con l’ultimo governo locale, frutto delle fallimentari alchimie sperimentate nei sedici anni di occhi e mani sull’Afghanistan, l’Occidente ha siglato il patto “Joint way foward”. Come nei tanti progetti sparsi dall’imperialismo  attorno alle sventure create, di condiviso in quella sigla non c’è nulla. Anzi, niente di più unilaterale si nasconde nella proposta rivolta al presidente Ghani. Se il Paese non accetterà di riprendere gli afghani che le nazioni rispediscono al mittente, Kabul, che già deve fare i conti coi serrati assalti jihadisti e talebani, vedrà tagliarsi i fondi  con cui l’Occidente lo mantiene in un comatoso stato di sopravvivenza. L’Afghanistan risponde a una tipologia di rentier-state. Utilizzato dalla Nato, e principalmente dagli Usa, quale avamposto militare strategico per l’Asia. Le basi aeree di: Kabul, Bagram, Parvan, Charikar, Kandahar, Khost, Paktia, Maza-e Sharif, Jalalabad garantiscono al Pentagono osservazioni, controllo e incursioni tramite F-16 e droni.

L’altra rendita proviene dallo sfruttamento del sottosuolo dove, nell’ultimo quindicennio, sono state scoperte vene minerarie cui è interessata l’industria bellica e l’high-tech. In realtà molti rilievi erano stati fatti a inizi anni Ottanta, durante l’occupazione sovietica. I russi, da sempre attenti a fonti energiche e materie prime, avevano compiuto scandagli, sapendo che per conformazione geologica gli urti fra subcontinente indiano e piattaforma asiatica aveva stratificato vari metalli. Dal 2004 l’Us Geological Survey, grazie all’occupazione dell’Enduring Freedom, ha formalizzato le ispezioni attorno a giacimenti di rame, ferro, cobalto, alluminio, mercurio, litio e le famose ‘terre rare’, stimando in mille miliardi di dollari il patrimonio di quelle viscere. A sfruttare talune riserve, il rame ad esempio, copioso in un punto dove c’è un’antichissima area archeologica (Mes Aynak) è il China Metallurgical Group. Il governo Karzai ne cedette l’estrazione trentennale all’azienda di Pechino in cambio di tre miliardi di dollari. Come per altre concessioni avvenute in questi decenni (terreni per le basi aeree, terreni per la coltivazione dell’oppio) non se ne è avvantaggiato il Pil del Paese; i capitali sono finiti nelle tasche di uomini di governo, clan familiari, clan tribali, Signori della guerra. Perché chi vuol sfruttare le risorse, dall’esterno e dall’interno, consente solo questa via. In quest’Afghanistan vengono rispediti, a morire o patire, i ragazzi che cercano un domani nella vecchia Europa.  

lunedì 29 gennaio 2018

Kabul, la corsa al primato del terrore


Prosegue la gara dell’attentato in una Kabul sfibrata più che blindata. Non c’è check-point, controllo, cinta muraria o ‘cittadella proibita’ che non possa risultare violata da attentati a ripetizione. Stamane la capitale afghana ne registra il terzo in dieci giorni, quand’è ancora mobilitata a tamponare la pesantissima strage di sabato presso l’ospedale Jamhuriat, in pieno centro città, dove le vittime sono salite a oltre un centinaio. All’alba un commando, in quest’occasione dell’Isis che ha rivendicato l’azione  (secondo alcune fonti compiuta di fatto da alleati tattici) ha assaltato l’edificio dell’Accademia militare d’élite ‘Marshal Fahim’, situato nella zona nord-ovest della capitale. L’attacco è durato ore, provocando l’uccisione di 11 militari e 4 assalitori, due dei quali kamikaze. Fra i motivi dell’azione attribuita alla rete di Haqqani, sempre riottosa verso il potere centrale talebano, ci sarebbero “sanzioni” americane verso il gruppo. L’unica sanzione che i comandi del ‘Resolute support’ riservano ai turbanti sono i missili per uccisioni mirate. E nel ‘mors tua vita mea’ tornata a essere unica legge vigente nella quotidianità afghana, talebani ortodossi, dissidenti, miliziani Isis autoctoni e venuti da fuori rivaleggiano a suon di assalti contro militari e civili del luogo. Alla popolazione che ha avuto la fortuna di raggiungere i trent’anni torna alla mente l’assedio di Kabul di inizio anni Novanta, quando a scontrarsi per il potere erano i Signori della guerra, divisi in bande che si cannoneggiavano dai crinali delle montagne attorno alla capitale.
Come allora, e con le diversità apportate dalla tecnologia, i kabulioti girano con dei foglietti infilati nel kurta-paijama. Ci son scritti: numero di cellulare, indirizzo di amici e parenti, gruppo sanguigno. Lo racconta un cittadino afghano a un inviato di Al Jazeera, ricordando come questo appunto potrebbe risultare inutile o essere solo scaramantico. La pesantissima aria che si respira negli ultimi mesi, proprio nel centro città, conduce all’incertezza e al pessimismo cronici. Ci son giovani che confessano di guardare più alla morte che alla vita e c’è chi pensa che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Si vive sospesi, fra esplosioni e un ossessivo riecheggiare di sirene. Dopo attentati devastanti, alcuni dei quali anche senza rivendicazione (quello del 31 maggio 2017 che fece 150 vittime), di certe persone si presume la morte perché non è stato possibile identificarle, in più taluni corpi dilaniati non riescono ad avere neppure una degna sepoltura secondo la ritualità islamica. Nello scenario della geostrategia terroristica, che s’interseca con la geostrategia dei Paesi che praticano il terrorismo di Stato attraverso interventi diretti e indiretti, l’attuale conflitto fra talebani e Isis vede sostegni e burattinai nient’affatto sconosciuti. Le intelligence statunitense e pakistana in primo luogo. Quest’ultima s’è trovata scavalcata in molte delle operazioni americane degli ultimi anni, dallo scontro con Qaeda per l’eliminazione di Osama bin Laden ad Abbottabad (2010), alla ripresa dei colloqui coi talebani da parte del governo Ghani, sempre su suggerimento di Washington (2016).
La trattativa è stata l’ultima pietra traballante posta dall’amministrazione Obama prima di lasciare la Casa Bianca. E non ha prodotto effetti. L’anno di Trump è stato, come per tante mosse della sua gestione, confuso, tranne vagheggiare ritorni di guerra massicci annunciati con la mega esplosione della Moab. Ma la partita afghana, in ballo da un quarantennio, calamita altri interessi. Oltre quelli delle basi militari statunitensi, il Paese è terreno di conquista fra contendenti regionali, e mentre Iran e Turchia rivaleggiano nel Piccolo Medio Oriente, il Pakistan è il gigante del Grande Medio Oriente. Da parte sua la megalomane monarchia Saud, protettissima dagli Usa, interviene su entrambi i fronti, in genere coi vari volti del jihadismo, Qaeda e ora Isis. Islamabad, l’alleato nucleare che impensierisce Washington, sta sicuramente lavorando con la sua Inter Services Intelligence sul fronte afghano. Lo scorso anno ha ricevuto 1.3 miliardi di dollari statunitensi, li usa anche per foraggiare la galassia talebana, la più difficilmente sradicabile dalla terra dell’Hindū Kūsh. E vuole la sua contropartita, fra l’altro difficilmente identificabile, viste le spinte centrifughe presenti nella più grande nazione islamica (200 milioni di abitanti, in gran parte sunniti, ma anche con tendenze fondamentaliste deobandi, e comunque 30 milioni di sciiti). Ad arricchire il panorama, la ‘protezione’ cinese del sistema pakistano, per gli effetti economici che Pechino conduce nella propria geopolitica, che la vede molto interessata alle miniere afghane, tanto da avere ottenuto da oltre un decennio il primato di ricerca e sfruttamento del sottosuolo, ricco delle cosiddette terre rare (scandio, ittrio, cadmio, ricercate nell’alta tecnologia) e non solo.

sabato 27 gennaio 2018

Cimitero-Kabul: la strage continua


Novantacinque corpi straziati, centocinquantotto feriti, fra i tanti lacerati altri perderanno la vita. Kabul centralissima, quella teoricamente super blindata e di fatto aperta alle incursioni. Perché se a portare l’attacco, come in questo caso (e a differenza degli uffici di ‘Save the childern’ di Jalalabad), sono i talebani molti varchi risultano aperti dalle infiltrazioni e collaborazioni presenti fra soldati e ufficiali dell’esercito afghano. Oppure da strumenti sanitari: un’ambulanza nella quale era stipato l’esplosivo che i turbanti hanno fatto brillare. In quale punto della capitale? Lì dove la contraddizione dei simboli parla chiarissimo: presso un’inutile sede dell’Alto Consiglio della pace, in uno snodo vitale della grande arteria di scorrimento denominata Salang wat Road. Nei pressi di un ospedale (Jamhuriat) che sorge fra tante ambasciate: l’indiana, la svedese. E poi, a neppure mezzo chilometro, quelle strategiche: la cinese e poco più su l’iraniana e la francese. Il messaggio al presidente Ghani è tranciante come l’esplosione che fa saltare migliaia di vetri, accecante come il fumo e la polvere rosata che per ore hanno veleggiato sulla città: qui comandiamo noi e vista l’aria che tira con la concorrenza dell’Isis che vuole insidiare a suon di botti il nostro terreno, ascolta l’ennesimo avvertimento e fatti da parte. Il punto di non ritorno che ha assunto la situazione afghana negli ultimi due anni, vede l’amministrazione fantoccio tenuta in pedi dall’opportunistica autoreferenzialità statunitense, nell’assoluta impossibilità di conseguire qualsiasi obiettivo.

Ghani non riesce a governare, non l’ha mai fatto anche quando ha evitato uno scontro di fazione fra pashtun creando la diarchia con Abdullah. Non sono serviti gli ex signori della guerra vestiti da ex presidenti (Dostum) e da ministri. Non sembra aver pagato neppure la cooptazione del fondamentalista Hekmatyar nel ruolo di mediatore coi taliban, perché Washington non riuscendo a batterli ha rilanciato l’ipotesi di accordo, magari inserendoli nel governo. I Talib, sempre rissosi, e spaccati dopo l’ufficializzazione della scomparsa del mullah Omar, tenuta tatticamente celata per oltre due anni, hanno trovato sotto nuove guide (Mansour e Akhundzada) una parziale unità, sebbene molte schegge si fossero separate già dal 2013: nelle aree tribali delle Fata, confluendo verso i Tehrik-e Talib del Waziristan, e nella provincia del Nuristan o in quella sempre borderline dell’antico Khorasan che sconfina nell’attuale Iran, dove è sempre attivo l’Islamic State Khorasan Province, unico gruppo che ha resistito all’ampia controffensiva talib Occorre tener presente quest’orizzonte per comprendere il crescente caos afghano, dov’è in atto uno scontro nello scontro. Quello primario si rivolge al governo kabuliota e all’imperialismo occidentale che lo sostiene. L’altro è una lotta di crudeltà, combattuta a suon di attentati col Daesh che s’è insinuato in territorio afghano.

Ne abbiamo parlato in occasione di altre stragi, attuate contro l’etnia sciita locale (gli hazara), ma ormai gli stessi pashtun sunniti risultano vittime inconsapevoli della corsa alla bomba più devastante, alla strage più sanguinosa che fanno del Paese un cimitero allargato. Una devastazione sulla devastazione avviata dall’Enduring Freedom e proseguita negli ultimi diciassette anni dalle truppe Nato di ‘missioni di pace’ dai nomi cangianti e dalla sostanza destabilizzante. Un Occidente che scuote e scassa come talebani e jihadisti, visto che quest’ultimi continuano a misurarsi e reclutare anche perché nel Paese il conflitto strisciante prosegue, sia con l’obamiana guerra dei droni, sia con “la madre di tutte le bombe” proposta da Trump. Simili attacchi hanno effetti sanguinari, nel caso della Moab, più sui civili che sui miliziani che, invece, subiscono maggiormente dalle esecuzioni mirate com’è accaduto ai tre emiri dell’Isis afghano (Saeed Khan, Abdul Hasis, Abu Saeed) freddati, via aria, fra il 2016 e metà 2017. Ma, appunto, la presenza dell’aviazione statunitense e delle truppe d’occupazione offrono ai due contendenti il meraviglioso alibi di difendere il popolo afghano dall’ingerenza imperialista. Se in quest’affermazione è sicuramente vera la seconda parte, la prima diventa una lotta per la supremazia fondamentalista, usurpatrice d’un popolo stremato e martoriato.

venerdì 26 gennaio 2018

Afghanistan, piccoli galeotti


Nel Paese della vita assediata e dell’infanzia negata i minori ‘rei’ di avere i genitori reclusi, in genere la mamma, subiscono la beffa di finire anche loro in galera. In realtà non c’è una sola nazione a mostrare questa violenza di ritorno, comunque l’Afghanistan, se non proprio tutte, riesce a sopravanzarne tantissime. Le meste storie s’inseguono da una città all’altra, Nangarhar, Jalalabad, Kandahar non fa differenza. Perché nella testa di bambine e bambini, le mura a limitare l’orizzonte degli sguardi, le porte blindate, il rumore di serrature e chiavistelli restano privazioni e incubi difficili da cancellare. L’opzione di avere accanto i figli, scelta da parecchie madri arrestate per alleviare le proprie sofferenze, rendono i bambini stessi detenuti. L’unica alternativa sono le non molte Ong locali che si occupano di orfani, minori abbandonati o privati di genitori. Però non bastano, così i piccoli in molti casi si ritrovano in cella. La questione da qualsiasi parte la si osservi è decisamente delicata e di non facile soluzione, perché per i minori reclusi involontari la privazione della libertà viene in second’ordine rispetto alla perdita, pur temporanea, della mamma. 
Il legame affettivo è di per sé primario nel rapporto madre-figli. Se quest’ultimi in età scolare, pur in prigione hanno la fortuna di vedersi assistiti da programmi di alfabetizzazione che, in casi rari, vengono accettati dall’amministrazione politica e carceraria in base a progetti di qualche associazione umanitaria, quella permanenza forzata si trasforma in un investimento. Talvolta la presenza dietro le sbarre della prole (esclusivamente femminile) prosegue anche nel periodo post puberale. E sempre ragionando per paradossi, questa condizione preserva le ragazze, anche se solo per la durata di quella situazione, da matrimoni forzati con uomini che per età potrebbero esserne padri e nonni. Comunque tutto è lasciato alle circostanze, poiché i tribunali locali non sentenziano allo stesso modo. Così le vite, già sospese per situazioni contingenti, subiscono l’ulteriore variabile della fatalità. Il miracolo accade se, e quando, chi segue questo cammino instabile e doloroso, riesce a ricavarne una forza da poter spendere all’esterno. In quel genere di esistenza che nella nazione dell’Hindū Kūsh non si rivela più sicura dell’inferno carcerario.

mercoledì 24 gennaio 2018

Afghanistan: attentati quotidiani, insicurezza diffusa


Nell’attacco avviato stamane a Jalalabad presso la sede di una delle multinazionali delle Ong “Save the Children” i talebani locali fanno sapere di non entrarci nulla. L’hanno comunicato a Tolo tv, che si occupava dell’ennesimo attentato in terra afghana. Certo, la località e l’area circostante (le aree tribali note come Fata) rappresentano una roccaforte storica dei guerriglieri islamici, e se l’assalto non viene dalle proprie milizie la concorrenza dell’Isis, s’è fatta incalzante. In casa. Rappresenta un conflitto nel conflitto, consolidato ormai da oltre un anno, per contendersi il primato della contrapposizione al governo di Kabul. In questo presente e in un futuro che appaiono pressoché congelati. L’assalto agli uffici dell’Ong conta per ora due vittime, l’emittente afghana inizialmente ha citato 12 feriti fra il personale della struttura, ma il numero, come spesso accade, può salire. Le forze della sicurezza hanno avuto la meglio su tre assalitori che sono stati uccisi. La rivendicazione talebana è invece giunta per l’hotel Intercontinental, assalito da un commando sabato scorso. “Siamo stati noi” ha dichiarato un portavoce talib parlando degli uomini penetrati nella super vigilata struttura alberghiera sorta su un’altura che s’erge sulla piana della capitale. In quell’occasione il commando vestiva divise dell’esercito e ha forzato il blocco di controllo.

I miliziani erano a conoscenza della pianta dell’hotel, testimoni hanno raccontato che si muovevano con agilità e sicurezza, sia seminando panico (e morte) fra gli ospiti (si sono contate 18 vittime e 22  feriti), sia piazzandosi in punti chiave per sostenere il conflitto a fuoco con le squadre speciali afghane sopraggiunte per liberare l’edificio. La battaglia è durata ben 16 ore, mostrando, com’è accaduto in più circostanze, l’alta specializzazione offensiva dei turbanti contro le titubanze direttive e la precaria condizione di quei reparti antiguerriglia, cui si dedica il piano statunitense per la sicurezza afghana sin dai tempi della prima amministrazione Obama. Colpire obiettivi simili, non strategici sotto un’ottica militare, né simbolici come palazzi istituzionali e ambasciate, serve ai Talib per compattare sulla linea del fuoco i propri miliziani, mostrare la precarietà delle Forze Armate di Kabul, fare terra bruciata di una presenza straniera d’ogni tipo in Afghanistan. Un Paese in guerra da 39 anni, in un conflitto cangiante e strisciante durante il quale è da tempo presente un sostegno alle prime vittime di questa condizione che sono i civili. Per i talebani, e per i jihadisti dell’Isis che ne insidiano il primato, tutto ciò è insopportabile. Dunque cercano il terrore diffuso, attaccando in maniera mirata medici e organizzazioni non governative e colpendo anche nel mucchio com’è accaduto all’Intercontinental.

Nonostante si tratti d’una struttura pluristellata  l’hotel non è frequentato da turisti, ci sono corrispondenti dei media e uomini d’affari, più o meno limpidi. E se le infiltrazioni di agenti dei Servizi sono utilizzate anche per organismi internazionali neutrali, è anche vero che in uno scenario devastato come quello afghano simili giochi di prestigio si possono ottimamente fare fuori dal Grand Hotel. Allora lo scopo delle offensive sembra quello di fare ovunque terra bruciata, instaurando l’angoscia dell’attentato come insicurezza assoluta per chi opera sul fronte sanitario e di sostegno alle componenti più deboli: bambini e donne. Colpendo la mega Ong britannica, con filiali operative in una trentina di nazioni, s’intimoriscono le piccole attività di cooperazione, comprese quelle interne. Situazioni che abbiamo visitato e descritto - come gli orfanotrofi e i rifugi per donne di Afceco, le scuole di Opawc a Kabul che si relazionano a organismi italiani come il Cisda e ‘Insieme si può’ di Belluno - in questi ultimi anni riscontrano serie difficoltà per far viaggiare cooperatori e attiviste a sostegno dei progetti che si coniugano a un Afghanistan che rigetta parimenti l’occupazione imperialista occidentale (cui contribuiamo coi nostri militari) e il fondamentalismo. In quella che è sempre più oppressa terra di nessuno, taliban e miliziani Isis uccidono e sorridono.

domenica 21 gennaio 2018

Afrin, parte il piano anti kurdo di Erdoğan


Se sarà una punizione o una più sanguinosa pulizia militare si vedrà prossimamente. Di fatto l’attacco a quelli che il presidente turco Erdoğan definisce terroristi, e che in questi anni sono stati solidi combattenti contro le milizie del Daesh, le formazioni kurde dell’Ypg e dell’Ypj, è iniziato ieri. I caccia turchi sono partiti proprio dalle basi aeree di Dıarbakır, la maggiore città kurda nell’area del sud-est, per sorvolare e colpire l’enclave kurdo-siriana di Afrin, avviando il piano che il presidente turco menziona da tempo: spingere le forze kurde verso est, oltre la stessa regione di Manbij. Quell’area situata fra i laghi Al Joubul e Asad, vede la presenza di ulteriori reparti kurdi che hanno combattuto sui fronti di Aleppo a ovest e Raqqa a est. Ma nelle strategie già esposte nel cosiddetto ‘Scudo dell’Eufrate’, che vide l’ingresso esplicito dei militari turchi nel conflitto in Siria, i kurdi, armati e non, devono finire oltre l’Eufrate, il più lontano possibile dai confini del proprio Stato. Naturalmente nelle incursioni aeree rivolte nella giornata di ieri contro cento obiettivi della cittadina del nord-ovest siriano, finiscono nel mirino anche le popolazioni che lì vivono. Le notizie parlano di alcuni morti, secondo fonti kurde sei civili e un combattente dell’Ypg.
Nei giorni precedenti l’attacco aereo c’erano stati movimenti via terra dell’esercito turco, giustificati da Ankara come “difesa dei confini” e si erano notati avanzamenti verso l’area kurda anche di miliziani dell’Esercito Siriano Libero. Mentre scriviamo il premier Yıldırım ne annuncia una seconda ondata, a suon di tank. L’Onu, per bocca del segretario Guterres, s’è detta preoccupata dalle nuove manovre militari, sostenendo come la sospensione delle battaglie contro l’Isis presupponevano un avvio negoziale sul futuro nella regione. Ma la Siria da sette anni è la mina vagante più esplosiva del Medio Oriente, per nulla disinnescata, dalla miriade d’interessi che si scontrano e non si confrontano. Neppure sul versante che s’è opposto al progetto di Al Baghdadi, lì dove le alleanze sono occasionali, contraddittorie, mirate a tornaconti soggettivi se non personali e i veti incrociati hanno fatto spargere sangue a oltre mezzo milione d’individui, molti dei quali non hanno mai combattuto su nessun fronte. Sono morti per convenienze altrui. Oggi il doppio e triplo giochista Erdoğan attacca i kurdi esterni al suo territorio per corroborare il fronte anti kurdo interno, quello che teme maggiormente da un punto di vista politico, sia nella veste armata del Pkk, con la leadership storica incarcerata (Öcalan); sia quella politico-istituzionale (Demirtaș e Yüksekdağ) incarcerata anch’essa, con l’accusa di sostenere i terroristi. Una sorta di prova ontologica dell’esistenza del terrorismo.
Ma il presidente-sultano non lo fa da solo il passo. Gli è permesso, per ora più dal recente amico autocrate Putin, che dallo sfrontato alleato Trump. In questo triangolo, ultimo esempio della perversione geopolitica che passa sulla testa, oltre che sulla pelle di uomini, donne, bambini, compresi i combattenti per la difesa di ideali come sono i guerriglieri kurdi di Afrin, esistono solo biechi interessi di parte. Erdoğan sembra aver ricompattato attorno alla difesa della sicurezza nazionale il comune sentire turco, difficilmente sarà minacciato da nuove marce pacifiste del Chp, e affonda anche l’opposizione che l’aveva impensierito (la novità dell’Hdp) che coalizzava kurdi, sinistre, giovani e popolo contrario al suo laicismo fascistoide islamista. Putin, il salvatore di Asad e non si sa se anche del suo regime reazionario contro cui s’era avviata la protesta popolare del 2011 presto fagocitata dal jihadismo e dalla guerra per bande, pensa al suo “democratico” quarto mandato presidenziale. Lo raggiungerà anche grazie alle carte giocate nella macelleria siriana e nella scadenza di marzo non incide per nulla se un po’ di kurdi, civili o armati, cadranno sotto le bombe dell’aviazione di Ankara. In queste ore sono i russi a non aver negato lo spazio aereo che controllano su Afrin, ai sorvoli omicidi turchi. Mentre Erdoğan avverte gli Stati Uniti di non muovere truppe per non creare problemi diplomatici e compromettere relazioni geostrategiche.  

mercoledì 17 gennaio 2018

Usa: dimezzati i fondi ai palestinesi, si materializza la vendetta statunitense


Gli effetti della minaccia di Nikki Haley, l’ambasciatrice americana all’Onu che sogna di salire alla Casa Bianca e per questo picchia duro più del boss che l’ha voluta in quel ruolo, si fanno sentire. Lei col piglio dell’immigrato che rinnega le origini (la sua famiglia è indiana, non pellerossa ma del Panjab) e diventa negatrice d’ogni diritto, aveva tuonato contro il voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che bocciava la proposta di considerare Gerusalemme capitale di Israele. “Ci ricorderemo di voi” aveva dichiarato in faccia ai 128 delegati dei Paesi che sotterravano l’idea inseguita dal premier sionista Netanyahu. Dopo neppure un mese l’amministrazione statunitense passa all’azione, colpendo in primo luogo gli aiuti diretti all’Unrwa, l’agenzia Onu che interagisce con le Organizzazioni non governative impegnate nell’assistenza ai profughi palestinesi dislocati in Libano, Giordania, Siria. Verranno colpite anche le strutture sanitarie e d’istruzione create a Gaza e in Cisgiordania. I fondi vengono letteralmente dimezzati e passano dai 125 milioni di dollari del 2017 ai 65 milioni stanziati per l’anno in corso, coi quali ovviamente o non si riuscirà a coprire adeguatamente i servizi finora creati, oppure se ne dovrà sopprimere un congruo numero. In ogni caso ci rimetterà la popolazione.  

Il rappresentante palestinese dell’Olp negli Stati Uniti, raggiunto dall’emittente Al Jazeera, ha dichiarato che quei fondi non rientravano in nessuna contrattazione, rappresentavano un obbligo internazionale. Ma la linea Trump, volta a sostenere i desideri più insostenibili della destra israeliana che da anni detta legge nel Paese, presta il fianco a ogni sorta di provocazione per infiammare gli animi. Privare centinaia di migliaia di bambini palestinesi anche di quell’istruzione basilare rappresentata dalle scuole primarie e tagliare l’assistenza sanitaria a loro stessi e ai familiari, punta a incrementare una frustrazione già elevatissima, ancor più nei Territori Occupati dove check-point e insediamenti coloniali illegali fungono quotidianamente da spunto per vessazioni e violenze. Nella sua spiccia volgarità Trump era stato chiarissimo nel ricordare come con le centinaia di milioni di dollari annuali “pagati” ai palestinesi erano  attesi un rispetto e l’apprezzamento anche delle più canagliesche iniziative, e quella su Gerusalemme lo è in pieno. Se gli Accordi di Oslo, sminuenti per ogni prospettiva di autodeterminazione palestinese, risultano un vago ricordo superato e calpestato dall’aggressivo realismo politico di Tel Aviv in atto da un quarto di secolo, il sostegno globale al sionismo punta ad alzare sempre più l’asticella. E propone privazione, umiliazione, repressione, secondo cicli permanenti e crescenti.

martedì 16 gennaio 2018

Shahrudi malato rientra in Iran



Mentre prosegue la diatriba sui numeri degli arrestati a seguito delle proteste sviluppatesi in Iran a fine anno - i media interni hanno dato risalto alla liberazione di 440 persone, seppure fonti dell’opposizione all’estero sostengano che la maggior parte dei 3.700 fermati risulti tuttora in carcere - è da alcuni giorni rientrato in patria Hashemi Shahrudi. Il chierico, capo della magistratura iraniana nel decennio fra il 1999 e il 2009, si era recato in Germania per visite di controllo a seguito d’una malattia che parrebbe grave. E l’opposizione iraniana che contrasta gli ayatollah s’è subito mobilitata per chiedere il fermo di Shahrudi, trovando sponda nel deputato verde Volker Beck che ha inoltrato al suo governo una denuncia per bloccare l’ospite nella clinica di Hannover. L’attacco all’ayatollah non è l’ultimo, visto che alcuni organismi come Amnesty International, già anni addietro l’accusavano di azioni criminali per aver avallato centinaia di condanne a morte (si dice oltre duemila) comminate dai tribunali iraniani. Molte di queste condanne colpivano oppositori politici e minori, e non riguardavano i classici motivi per la pena capitale (omicidio e traffico di droga). Potevano riguardare l’accusa di tradimento della nazione.  Il braccio di ferro fra sistema iraniano e avvocati dei diritti di diverse nazioni proseguirà oltre questa richiesta, la cui attuazione risultava di per sé problematica per la politica tedesca impegnata nei giorni scorsi col rebus di una soluzione governativa.
Shahrudi, pur non appartenendo all’ala più oltranzista del clero sciita, è comunque una figura di spicco, fedelissima ad Ali Khamenei e in predicato di prenderne il posto, salute permettendo. Nell’agosto scorso è stato nominato presidente del ‘Consiglio di discernimento e delle opportunità’, organismo nato per risolvere le diatribe fra parlamento e  Consiglio dei Guardiani, che ha acquisito nel tempo un ruolo consultivo verso la Guida Suprema. Aveva sostituito un duro come l’ayatollah Yazdi nella guida del massimo organismo giudiziario, nomina avvenuta durante la presidenza di Mohammed Khatami, ma la linea non si spostò granché da quella del predecessore e le condanne a morte proseguirono, anche nella fase della guida riformista. Per questa gestione Shahrudi, nato fra gli iraniani dell’Iraq (a Najaf) allievo di Khomeini e a sua volta maestro di Nasrallah, il leader dell’Hezbollah libanese, s’è visto contestato dalla componente riformista del clero e dai laici che tuttora reclamano un orientamento politico interno più aperto. Ebbe conflitti con lo stesso presidente che gli indirizzò una lettera di fuoco per non aver fermato le condanne a parlamentari, violandone - secondo Khatami - l’immunità. Shahrudi gli rispose per le rime, sostenendo che l’indipendenza della magistratura andava rispettata da tutti, compreso il Capo di Stato, per il bene del Paese.

lunedì 15 gennaio 2018

La Tunisia dei ‘benalisti’


In lingua coloniale, il francese che nel Maghreb è parlato come l’arabo, son definiti “Ercidisti”. Da RCD, Rassemblement Costitutionel Démocratique, il vecchio partito di Abidine Ben Ali. Il patrigno della Tunisia che, con l’aiuto dell’altra sponda del Mediterraneo, sotterrò politicamente Bourguiba, elevando se stesso al potere. L’altra sponda eravamo noi, l’Italia craxiana e andreottiana attiva, nel 1987, a predisporre quello che fu definito il ‘golpe morbido’. Il colpo doveva garantire una svolta democratica (si perdoni la contraddizione in termini) in una Tunisia che rischiava di diventare terreno di coltura per l’Islam politico. In realtà a Roma interessavano gli affari petroliferi dell’Eni, quelli d’industrie tessili, e non solo, che delocalizzavano avvantaggiandosi di manodopera a prezzi stracciati. A essere garantito non fu lo sviluppo della nazione e della sua popolazione, ma l'interesse del neo presidente tunisino, del cospicuo clan familiare acquisito con la seconda moglie, Leila Trabelsi, con l'aggiunta della casta dei faccendieri personali e di Stato. Tutto ciò era chiaro anche nel ventennio che precedette la grande ribellione popolare del 2011, quando il referente di sponda di Ben Ali, Bettino Craxi, caduto in disgrazia per Tangentopoli, aveva trovato riparo come latitante di lusso nella tenuta personale di Hammamet. Fra il regime affamatore di Ben Ali e l’attuale politica laica che s’oppone agli ingombranti e contraddittori passi compiuti nel 2012 dall’Islam politico, incarnato da Ennahda e dai furori jihadisti, c’è l’immagine di Béji Caïd Essebsi, politico vecchio per mentalità ed età anagrafica (oggi 91 anni, 85 all’epoca della creazione del suo partito liberista Nidaa Tounés).

Un classico esempio di quegli uomini per tutte le stagioni che si son visti nell’Egitto pre golpe Sisi (Suleimann,  ElBaradei) o l’attuale Al Serraj libico. Finti traghettatori che non conducono verso nessuna soluzione, se non quella dettata dai poteri sovranazionali che in Occidente si chiamano Fondo Monetario Internazionale e Nato. Perciò indigna ma non stupisce che la coppia Ben Ali-Trabelsi, vissuta per ventitre anni ad arricchirsi in casa propria, sia dal 2011 a Gedda, a godersi i beni sottratti alla nazione, al riparo da ogni sentenza per corruzione e frode, appropriazione di capitali, addirittura detenzione di reperti archeologici. Tutti reati addebitatigli. Al seguito dei genitori ci sono i figli Halima e Mohamed; mentre Nersrine Ben Ali e il marito affarista Sakher El Materi, entrambi condannati in contumacia per frode, corruzione, acquisto illecito di terreni, sono riparati prima in Qatar quindi alle Seychelles. In Canada è finito il capo della famiglia Trabelsi, Belhassen, fratello di Leila. Moglie e figli hanno ottenuto lo status di rifugiati, perché considerati soggetti vulnerabili, lui no. Solo ultimamente i parenti hanno avuto un blocco dei propri fondi finanziari, probabilmente a seguito di un intervento del governo tunisino che si presentava come parte lesa. Per quello che s’intravede nel panorama politico attuale non è detto che il governo continuerà a sostenerlo. Ma non sono questi citati gli unici seguaci del dittatore. Uno degli aspetti denunciati dall’opposizione, oltre ai rincari generalizzati che infiammano da dieci giorni le strade del Paese, è la presenza di numerosi politici “benalisti” riciclati da e con Essebsi. Il premier Chahed che, nello scorso settembre, assumendo l’incarico annunciava un intervento per combattere terrorismo e corruzione, e incrementare crescita economica ed eguaglianza sociale, non solo ha stentato nell’avviare il programma.

Chahed su pressione del presidente ha affidato ministeri chiave (difesa, esteri, finanze, educazione) a personaggi screditati per la passata vicinanza alla gestione di Ben Ali. Ora che la crisi brucia sulla pelle degli strati più disagiati, ma disagiata è anche la metà della popolazione giovanile di ogni ceto che non trova lavoro, quest’apertura delle Istituzioni ai volponi della politica urta ancor più il sentimento dell’attivismo più cosciente. Il tema era già stato affrontato mesi addietro dai minoritari gruppi di sinistra, eppure numerosi analisti gettavano acqua sul fuoco sostenendo che diversi dei nomi contestati erano ‘tecnici’ più che ‘politici benalisti’, e venivano scelti perché, dal momento delle grandi contestazioni in poi non era sorta una nuova classe dirigente competente, che peraltro non si forma in un quinquennio. Però, d’altro canto, proprio situazioni come l’attuale non permettono, o volutamente non sono intenzionate, a svezzare figure competenti che possano comunque essere messe nelle condizioni di  predisporre un’alternativa di salvaguardia della nazione e della sua gente. Secondo altri politologi, invece, l’essenza conservatrice di Ennahda e la finta svolta democratica di Nidaa Tounés mirano allo stesso obiettivo: evitare ogni rinnovamento. Come appare anche dall’attacco a “Verità e giustizia”, un’iniziativa istituita per verificare la violazione di diritti umani e crimini economici commessi fra il 1955 e il 2013. Essebsi sta cercando di eliminare da “Verità e giustizia” il reato di corruzione. E non sembra un caso.

giovedì 11 gennaio 2018

Tunisia 2018: rabbia sedimentata


In strada, urlando, magari non in tanti come ai tempi di Ben Ali, ma l’ondata di proteste monta. Per ora trecento arresti e un morto e può accadere il peggio. Nella periferia meridionale di Tunisi oppure nella turistica Djerba, ai margini dell’anniversario - il settimo - dall’esplosione di quella rivolta che fece da apripista per le primavere arabe, presto sfiorite, calpestate, trasformate in altro. Sono migliaia, giovani e meno, studentesse e padri di famiglia visto che le contraddizioni restano tutte. Perché in questi anni le mutazioni governative, istituzionali e costituzionali, in Tunisia come in Egitto, non hanno mutato la sostanza. Carovita, disoccupazione, in molte aree anche miseria, restano lo spettro con cui si misurano tutti: cittadini scontenti e ustionati da una realtà che appare immutabile e politici incapaci di fornire sostanza alle molteplici formule di conduzione amministrativa. Oggi in Tunisia governa una coalizione di liberali della formazione Nidaa Tounes, primo partito alle elezioni del 2014, e degli islamisti di Ennahda, meno oltranzisti d’un tempo, più aperti e possibilisti tanto da aver accettato la collaborazione. Però la voce del popolo nelle strade, nei suq, nelle periferie e quella educata allo studio nelle università mostra lo scontento antico di quando i finti progressisti del clan Ben Ali-Trabelsi, accaparravano per sé, affamando la gente, complici i governi italiani e francesi che finanziavano la metà del Pil del Paese.

Fuggendo a Riyad, senza che la comunità internazionale li perseguisse su nulla, si portarono dietro una cinquantina di milioni di dollari, solo in lingotti d’oro. Eppure la nazione s’è ritrovata altri patrigni, immersi in una lotta per il potere che ha visto scontro aperto fra l’ala islamista del pur filosoficamente pacifico Gannouchi ed epigoni del presidente Bourguiba. Uno di questi Baji Caid Essebsi ha creato quel partito (Nidaa Tounes) che alle elezioni del 2014 ha ottenuto il 37% dei consensi, contro il 27% di Ennahda. Con l’opposizione di sinistra del Fronte Popolare ridotta a poco più del 3%. Questo prima della caduta di consensi, dovuta anche al clima di paura creato dallo scontro armato che nel febbraio 2013 aveva condotto all’assassinio dell’esponente di spicco Chokri Belaid, aveva col suo leader cercato di contrastare la popolarità islamista formando quel raggruppamento laico-progressista antagonista al governo confessionale di Ennahda. Nel 2013 oltre a Belaid, un altro rappresentante laico e deputato del Movimento del Popolo, Brahmi, veniva assassinato a colpi di pistola. Era l’Islam jihadista che cercava di destabilizzare la linea moderata di Gannouchi per offrire sponda alla creatura fondamentalista materializzatasi nell’Isis e nel progetto di Al Baghdadi.

Il Paese maghrebino, che risulta assieme al Marocco uno dei maggiori fornitori di combattenti stranieri alle azioni imbastite dal Daesh in Europa e altrove, ha subìto pure le scosse stragiste al museo del Bardo e a un resort di Sousse, rispettivamente nel marzo e giugno 2015, decine le  vittime fra cui turisti italiani. Si è fortemente concentrato sulla questione sicurezza, investendo denaro per rafforzare forze dell’ordine ed esercito, tralasciando politiche sociali e investimenti. Il settore industriale della costa, già da anni contratto per carenza di capitali esteri e quello del turismo, in crisi per le menzionate ragioni di sicurezza, sono rimasti in bilico. Nell’anno appena concluso quest’ultime stime sono in ripresa, ma non bastano a risollevare una disoccupazione attestata al 18% nazionale e al 30% per i giovani. Ora riaumentano i generi alimentari, non il pane com’era nel 2010, ma quelli che solo una società arcaica può considerare prodotti superflui: caffè, thè, frutta e aumentano benzina e gasolio, che fanno da traino a ogni sorta di rincaro. La gente non ce la fa: urla, protesta, brucia copertoni, scene già viste, sono le soluzioni che mancano. L’Occidente dal colonialismo di ritorno, fautore di servizi che, con le sue multinazionali, si riprende il doppio e il triplo di ciò che offre, per ora lesina finanziamenti e fa latitare investimenti. Ci pensa il Fondo monetario internazionale ad avanzare aiuti (2.8 miliardi di dollari), chiedendo in cambio una riforma con rincari che strangolano le vite. I risultati si vedono tutti.

Regeni, il mistero alla luce del sole


Questione giudiziaria - Diventata questione meramente giudiziaria, ovviamente lo è vista la cruenta e crudele morte cui è stato sottoposto Giulio Regeni, l’accidentato cammino della verità tutta politica sulla sua morte trova un’ennesima tappa d’indagine: la tutor omertosa. Egiziana trapianta a Cambridge, la professoressa, Maha Abdel Rahman ha dopo circa due anni di dinieghi (il ricercatore assassinato fu rapito il 25 gennaio 2016) ha deciso di rispondere al pubblico ministero italiano Colaiocco che s’è recato in Inghilterra a interrogarla. Rispondere per modo di dire. Lei non si è più negata, ma ha messo in fila la classica serie di “non ricordo” e vaghezze varie, tipiche di testimoni che evitano di collaborare con gli organi preposti alle indagini. Cosicché le sono stati sequestrati computer e ogni altro possibile contenitore di dati sensibili presenti nella stanza che la ospita nella prestigiosa università dove insegna. In quegli apparati elettronici lo staff di esperti informatici che collabora con Colaiocco cercherà tracce sul tema attinente alla ricerca del dottorato: i sindacati autonomi egiziani. Argomento che la prof nega di aver mai assegnato a Regeni, e che la di lui madre Paola sostiene, invece, sia stato commissionato dall’Università. Glielo aveva rivelato in una telefonata il figlio stesso.
Servizi segreti - Che quella ricerca, accademica, fosse attenzionata dai servizi segreti egiziani sembra un’esagerazione. Potrebbe esserlo meno se, come tempo addietro qualcuno ipotizzò, la documentazione poteva venire utilizzata dall’Intelligence britannica, per quei rapporti che la stessa crea con centri di studio compiacenti. Cosa che fa saltare i gangheri a quei  docenti di tutto il mondo, che appunto presiedono studi, siano essi sociali e geopolitici, ma non fanno le spie. Tesi, altresì, confutata con sdegno dai familiari del giovane assassinato che ricordano come l’etica del figlio, rivolta esclusivamente allo studio, non sfiorasse neppure l’idea di acconsentire a un uso diverso degli studi medesimi. Purtroppo le Intelligence di tutto il mondo, e d’ogni epoca, non hanno scrupoli, e Regeni si sarebbe potuto trovare, a sua totale insaputa, dentro un ingranaggio di quel tipo. Ma quel punto avrebbe senso stanare non solo l’omertosa professoressa Abdel Raham, ma l’omertosa Cambridge che si presta al triangolo fornendo materiale ai propri 007. Però, per uscire da quella che finisce d’apparire una trama di Ian Fleming, dovrebbe essere ripresa l’altra via, che non compete agli inquirenti, bensì ai latitanti politici nostrani. Diciamo ripresa per moto ideale, perché volevamo fosse percorsa dal tragico 3 febbraio 2016, quando il corpo dello studioso friulano fu ritrovato straziato, violato, sfruttato lungo una delle caotiche arterie di scorrimento che circondano Il Cairo.
Questione politica - L’allora premier Renzi e il successore e collega di partito Gentiloni, che all’epoca del misfatto ricopriva l’incarico al dicastero degli Esteri, fecero solo la manfrina di ritirare l’ambasciatore italiano in Egitto. Dopo Massari che rientrò a Roma, nel Ferragosto 2017 Giampaolo Cantini andò a rioccupare la sede italiana al Cairo, un segnale distensivo verso un Paese che su quell’omicidio aveva evitato ogni collaborazione; e mostrava oltre le contraddizioni di diversi apparati repressivi, un pervicace impegno di depistaggio offrendo due, tre, cinque versioni di fatti, moventi, tutti a carico della vittima o inventando mendaci fatalità. S’è detto che la riapertura dei rapporti fra i due Paesi serviva alle reciproche economie, assai legate negli affari. Serviva pure una ricollaborazione sul versante “sicurezza”, sia quello imposto dalla geopolitica statunitense che influenza Roma come influenza Il Cairo, sia l’angoscioso tema immigrazione che, pur vedendo nel mar libico il centro del flusso degli sbarchi, trova nella cooperazione a 360° del generale Al Sisi un attore non secondario. La real politik chiede di non ostacolare al Sisi e di tenerselo buono per varie ragioni: lotta all’Isis, rapporti con Israele, coalizione conservatrice filoccidentale che riunisce lui, il generale Haftar, le petromonarchie. Ma è Al Sisi, il suo apparato repressivo basato sulla paranoia e il consenso estirpato con la paura, che dovrebbero rispondere dell’omicidio di Giulio Regeni. E non accade.  

martedì 9 gennaio 2018

Rohani: compresione generazionale


Non si può forzare lo stile di vita delle attuali e future generazioni” ha affermato un compassato e comprensivo Hassan Rohani, tornando a parlare delle proteste che hanno scosso per alcuni giorni l’Iran e che sembrano placate o sedate da repressione e arresti (venti morti e un migliaio di reclusioni). Il presidente ha lanciato una riflessione reale: la via che la sua generazione ha tracciato può star stretta agli attuali ventenni e trentenni. E’ il sentimento che si può facilmente raccogliere in una larga fetta della gioventù urbana e magari anche rurale del Paese. “Libertà e vita sono acquistabili col solo denaro? Questo sembra un insulto per la gente” ha anche rilanciato l’ayatollah moderato, ventre molle d’un sistema clericale che in questa delicata fase appare aderire totalmente all’inattaccabile posizione della Guida Suprema: i governi nemici dell’Iran (statunitense, saudita, sionista) hanno ordito un complotto destabilizzante, usando propri agenti e orientando le proteste contro la nazione. Però, se si ascoltano le voci di amici e parenti di alcuni dei giovani fermati dalle forze antisommossa davanti all’Università di Teheran, accanto a chi affermava di passare lì per caso, magari negando l’evidenza per non cadere nell’accusa di moharebeh (senza Dio) punita con la pena di morte, la questione dell’identità soggettiva e generazionale di fronte a una classe politica che non ascolta c’è tutta. E bisogna capire se Rohani stia riproponendo un sincero dialogo con quell’elettorato giovanile che, deluso, l’ha apertamente accusato nelle strade o se la sua sia pantomima di regime, perché l’uomo si mostra sì diplomatico e aperto, ma interpreta pur sempre quel compromesso pragmatico fra il khomeinismo reicarnato in Khamenei e pragmatismo clerical-affaristico di Rafsanjani. Che in queste settimane nel Paese si stia giocando una partita di potere, è apparso chiaro coi “domiciliari” non ufficializzati, ma neppure smentiti di Ahmadinejad. Il laico che lo stesso secondo mandato Rohani vorrebbe inchiodato per quella corruzione che fa crollare le case sulla testa dei poveri che l’ex basij ha sempre sostenuto di voler difendere.
Provata o meno che sarà quest’accusa, l’altra rivoltagli: aver fomentato disordini nelle province povere, fra quei mostazafan che ancora lo venerano come uno di loro, ha tagliato fuori l’ex presidente da un possibile ritorno politico (non certo istituzionale). Una mossa gestita dal partito dei Pasdaran e l’entourage dell’attuale presidente. Stretti attorno alla Guida Suprema, di cui da mesi si vociferano malattia e morte e che invece continua a mostrarsi presente e attivo. Certo, discorrere di Ahmadinejad nell’Iran del futuro sembra una contraddizione. Eppure nel perenne contrasto fra tradizione e innovazione, chi raggiunge ruoli di prestigio non scompare definitivamente, sia sul versante riformista, pensiamo a Khatami, sia in campo conservatore. Per tacere di chi ha trascorso un’esistenza pubblica relazionandosi ai due schieramenti: Rafsanjani. Sulle cui orme - lo è stato detto sin dalle elezioni in cui agitava la chiave del “cambiamento” nel 2013 - si pone Rohani, probabilmente costretto a mediare perfino sulla proposta dell’Alto Consiglio per l’Educazione che vorrebbe tagliare l’esperimento d’insegnare la lingua inglese nelle elementari. Motivo: sventare il pericolo di modelli devianti, magari pensando all’uso comunicativo dei social media. Una proposta che appare un autogol in un Paese altamente scolarizzato che insegue impulsi tecnologici. Un’idea che fa trasparire un passatismo antistorico, visto l’uso globale che quella lingua ha assunto, pur imponendosi al mondo grazie allo strapotere economico e geostrategico degli imperi prima britannico, poi statunitense. Il Rohani che stiamo già osservando, non tace affermazioni simili: “La gente ha posto domande e queste domande dovrebbero essere ascoltate”, ma deve difendersi dalla piazza di Meshaad, aizzata forse dai basij ma sostenuta da quel Raisi su cui nel maggio scorso Rohani l’ha spuntata, che però resta in lizza per i ruoli di presidente o, addirittura, di Guida Suprema. L’ayatollah moderato deve galleggiare in un panorama dove i nemici esterni esistono eccome, mentre gli amici interni, che si sentono traditi da promesse non mantenute e dalle difficoltà oggettive, non gli faranno più da sponda.