In strada, urlando,
magari non in tanti come ai tempi di Ben Ali, ma l’ondata di proteste monta.
Per ora trecento arresti e un morto e può accadere il peggio. Nella periferia
meridionale di Tunisi oppure nella turistica Djerba, ai margini dell’anniversario
- il settimo - dall’esplosione di quella rivolta che fece da apripista per le
primavere arabe, presto sfiorite, calpestate, trasformate in altro. Sono
migliaia, giovani e meno, studentesse e padri di famiglia visto che le contraddizioni
restano tutte. Perché in questi anni le mutazioni governative, istituzionali e
costituzionali, in Tunisia come in Egitto, non hanno mutato la sostanza. Carovita,
disoccupazione, in molte aree anche miseria, restano lo spettro con cui si misurano
tutti: cittadini scontenti e ustionati da una realtà che appare immutabile e
politici incapaci di fornire sostanza alle molteplici formule di conduzione
amministrativa. Oggi in Tunisia governa una coalizione di liberali della
formazione Nidaa Tounes, primo partito alle elezioni del 2014, e degli
islamisti di Ennahda, meno oltranzisti d’un tempo, più aperti e possibilisti
tanto da aver accettato la collaborazione. Però la voce del popolo nelle
strade, nei suq, nelle periferie e quella educata allo studio nelle università
mostra lo scontento antico di quando i finti progressisti del clan Ben Ali-Trabelsi,
accaparravano per sé, affamando la gente, complici i governi italiani e
francesi che finanziavano la metà del Pil del Paese.
Fuggendo a Riyad, senza
che la comunità internazionale li perseguisse su nulla, si portarono dietro una
cinquantina di milioni di dollari, solo in lingotti d’oro. Eppure la nazione
s’è ritrovata altri patrigni, immersi in una lotta per il potere che ha visto
scontro aperto fra l’ala islamista del pur filosoficamente pacifico Gannouchi ed
epigoni del presidente Bourguiba. Uno di questi Baji Caid Essebsi ha creato
quel partito (Nidaa Tounes) che alle elezioni del 2014 ha ottenuto il 37% dei
consensi, contro il 27% di Ennahda. Con l’opposizione di sinistra del Fronte
Popolare ridotta a poco più del 3%. Questo prima della caduta di consensi,
dovuta anche al clima di paura creato dallo scontro armato che nel febbraio
2013 aveva condotto all’assassinio dell’esponente di spicco Chokri Belaid, aveva
col suo leader cercato di contrastare la popolarità islamista formando quel
raggruppamento laico-progressista antagonista al governo confessionale di
Ennahda. Nel 2013 oltre a Belaid, un altro rappresentante laico e deputato del
Movimento del Popolo, Brahmi, veniva assassinato a colpi di pistola. Era
l’Islam jihadista che cercava di destabilizzare la linea moderata di Gannouchi
per offrire sponda alla creatura fondamentalista materializzatasi nell’Isis e
nel progetto di Al Baghdadi.
Il Paese maghrebino, che
risulta assieme al Marocco uno dei maggiori fornitori di combattenti stranieri
alle azioni imbastite dal Daesh in Europa e altrove, ha subìto pure le scosse
stragiste al museo del Bardo e a un resort di Sousse, rispettivamente nel marzo
e giugno 2015, decine le vittime fra cui
turisti italiani. Si è fortemente concentrato sulla questione sicurezza,
investendo denaro per rafforzare forze dell’ordine ed esercito, tralasciando
politiche sociali e investimenti. Il settore industriale della costa, già da
anni contratto per carenza di capitali esteri e quello del turismo, in crisi
per le menzionate ragioni di sicurezza, sono rimasti in bilico. Nell’anno
appena concluso quest’ultime stime sono in ripresa, ma non bastano a risollevare
una disoccupazione attestata al 18% nazionale e al 30% per i giovani. Ora
riaumentano i generi alimentari, non il pane com’era nel 2010, ma quelli che
solo una società arcaica può considerare prodotti superflui: caffè, thè, frutta
e aumentano benzina e gasolio, che fanno da traino a ogni sorta di rincaro. La
gente non ce la fa: urla, protesta, brucia copertoni, scene già viste, sono le
soluzioni che mancano. L’Occidente dal colonialismo di ritorno, fautore di servizi che, con le sue multinazionali, si riprende il doppio e il
triplo di ciò che offre, per ora lesina finanziamenti e fa latitare
investimenti. Ci pensa il Fondo monetario internazionale ad avanzare aiuti (2.8 miliardi
di dollari), chiedendo in cambio una riforma con rincari che strangolano le vite. I risultati si vedono tutti.
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