Prosegue la gara dell’attentato in una Kabul sfibrata
più che blindata. Non c’è check-point, controllo, cinta muraria o ‘cittadella
proibita’ che non possa risultare violata da attentati a ripetizione. Stamane
la capitale afghana ne registra il terzo in dieci giorni, quand’è ancora
mobilitata a tamponare la pesantissima strage di sabato presso l’ospedale Jamhuriat,
in pieno centro città, dove le vittime sono salite a oltre un centinaio.
All’alba un commando, in quest’occasione dell’Isis che ha rivendicato l’azione (secondo alcune fonti compiuta di fatto da
alleati tattici) ha assaltato l’edificio dell’Accademia militare d’élite
‘Marshal Fahim’, situato nella zona nord-ovest della capitale. L’attacco è
durato ore, provocando l’uccisione di 11 militari e 4 assalitori, due dei quali
kamikaze. Fra i motivi dell’azione attribuita alla rete di Haqqani, sempre
riottosa verso il potere centrale talebano, ci sarebbero “sanzioni” americane
verso il gruppo. L’unica sanzione che i comandi del ‘Resolute support’
riservano ai turbanti sono i missili per uccisioni mirate. E nel ‘mors tua vita
mea’ tornata a essere unica legge vigente nella quotidianità afghana, talebani
ortodossi, dissidenti, miliziani Isis autoctoni e venuti da fuori rivaleggiano
a suon di assalti contro militari e civili del luogo. Alla popolazione che ha
avuto la fortuna di raggiungere i trent’anni torna alla mente l’assedio di
Kabul di inizio anni Novanta, quando a scontrarsi per il potere erano i Signori
della guerra, divisi in bande che si cannoneggiavano dai crinali delle montagne
attorno alla capitale.
Come allora, e con le diversità apportate dalla tecnologia, i kabulioti girano con
dei foglietti infilati nel kurta-paijama. Ci son scritti: numero di cellulare,
indirizzo di amici e parenti, gruppo sanguigno. Lo racconta un cittadino
afghano a un inviato di Al Jazeera,
ricordando come questo appunto potrebbe risultare inutile o essere solo
scaramantico. La pesantissima aria che si respira negli ultimi mesi, proprio
nel centro città, conduce all’incertezza e al pessimismo cronici. Ci son
giovani che confessano di guardare più alla morte che alla vita e c’è chi pensa
che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Si vive sospesi, fra esplosioni e un
ossessivo riecheggiare di sirene. Dopo attentati devastanti, alcuni dei quali
anche senza rivendicazione (quello del 31 maggio 2017 che fece 150 vittime), di
certe persone si presume la morte perché non è stato possibile identificarle,
in più taluni corpi dilaniati non riescono ad avere neppure una degna sepoltura
secondo la ritualità islamica. Nello scenario della geostrategia terroristica, che
s’interseca con la geostrategia dei Paesi che praticano il terrorismo di Stato attraverso
interventi diretti e indiretti, l’attuale conflitto fra talebani e Isis vede
sostegni e burattinai nient’affatto sconosciuti. Le intelligence statunitense e
pakistana in primo luogo. Quest’ultima s’è trovata scavalcata in molte delle
operazioni americane degli ultimi anni, dallo scontro con Qaeda per
l’eliminazione di Osama bin Laden ad Abbottabad (2010), alla ripresa dei
colloqui coi talebani da parte del governo Ghani, sempre su suggerimento di
Washington (2016).
La trattativa è stata l’ultima pietra traballante posta
dall’amministrazione Obama prima di lasciare la Casa Bianca. E non ha prodotto
effetti. L’anno di Trump è stato, come per tante mosse della sua gestione, confuso,
tranne vagheggiare ritorni di guerra massicci annunciati con la mega esplosione
della Moab. Ma la partita afghana, in ballo da un quarantennio, calamita altri
interessi. Oltre quelli delle basi militari statunitensi, il Paese è terreno di
conquista fra contendenti regionali, e mentre Iran e Turchia rivaleggiano nel Piccolo
Medio Oriente, il Pakistan è il gigante del Grande Medio Oriente. Da parte sua
la megalomane monarchia Saud, protettissima dagli Usa, interviene su entrambi i
fronti, in genere coi vari volti del jihadismo, Qaeda e ora Isis. Islamabad,
l’alleato nucleare che impensierisce Washington, sta sicuramente lavorando con
la sua Inter Services Intelligence sul fronte afghano. Lo scorso anno ha
ricevuto 1.3 miliardi di dollari statunitensi, li usa anche per foraggiare la
galassia talebana, la più difficilmente sradicabile dalla terra dell’Hindū Kūsh.
E vuole la sua contropartita, fra l’altro difficilmente identificabile, viste
le spinte centrifughe presenti nella più grande nazione islamica (200 milioni
di abitanti, in gran parte sunniti, ma anche con tendenze fondamentaliste
deobandi, e comunque 30 milioni di sciiti). Ad arricchire il panorama, la
‘protezione’ cinese del sistema pakistano, per gli effetti economici che
Pechino conduce nella propria geopolitica, che la vede molto interessata alle
miniere afghane, tanto da avere ottenuto da oltre un decennio il primato di
ricerca e sfruttamento del sottosuolo, ricco delle cosiddette terre rare
(scandio, ittrio, cadmio, ricercate nell’alta tecnologia) e non solo.
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