Novantacinque corpi straziati, centocinquantotto
feriti, fra i tanti lacerati altri perderanno la vita. Kabul centralissima, quella
teoricamente super blindata e di fatto aperta alle incursioni. Perché se a
portare l’attacco, come in questo caso (e a differenza degli uffici di ‘Save
the childern’ di Jalalabad), sono i talebani molti varchi risultano aperti
dalle infiltrazioni e collaborazioni presenti fra soldati e ufficiali
dell’esercito afghano. Oppure da strumenti sanitari: un’ambulanza nella quale
era stipato l’esplosivo che i turbanti hanno fatto brillare. In quale punto
della capitale? Lì dove la contraddizione dei simboli parla chiarissimo: presso
un’inutile sede dell’Alto Consiglio della pace, in uno snodo vitale della grande
arteria di scorrimento denominata Salang wat Road. Nei pressi di un ospedale (Jamhuriat)
che sorge fra tante ambasciate: l’indiana, la svedese. E poi, a neppure mezzo
chilometro, quelle strategiche: la cinese e poco più su l’iraniana e la
francese. Il messaggio al presidente Ghani è tranciante come l’esplosione che
fa saltare migliaia di vetri, accecante come il fumo e la polvere rosata che
per ore hanno veleggiato sulla città: qui comandiamo noi e vista l’aria che
tira con la concorrenza dell’Isis che vuole insidiare a suon di botti il nostro
terreno, ascolta l’ennesimo avvertimento e fatti da parte. Il punto di non
ritorno che ha assunto la situazione afghana negli ultimi due anni, vede l’amministrazione
fantoccio tenuta in pedi dall’opportunistica autoreferenzialità statunitense,
nell’assoluta impossibilità di conseguire qualsiasi obiettivo.
Ghani non riesce a governare, non l’ha mai fatto
anche quando ha evitato uno scontro di fazione fra pashtun creando la diarchia con
Abdullah. Non sono serviti gli ex signori della guerra vestiti da ex presidenti
(Dostum) e da ministri. Non sembra aver pagato neppure la cooptazione del
fondamentalista Hekmatyar nel ruolo di mediatore coi taliban, perché Washington
non riuscendo a batterli ha rilanciato l’ipotesi di accordo, magari inserendoli
nel governo. I Talib, sempre rissosi, e spaccati dopo l’ufficializzazione della
scomparsa del mullah Omar, tenuta tatticamente celata per oltre due anni, hanno
trovato sotto nuove guide (Mansour e Akhundzada) una parziale unità, sebbene molte
schegge si fossero separate già dal 2013: nelle aree tribali delle Fata,
confluendo verso i Tehrik-e Talib del Waziristan, e nella provincia del
Nuristan o in quella sempre borderline dell’antico Khorasan che sconfina nell’attuale
Iran, dove è sempre attivo l’Islamic State Khorasan Province, unico gruppo che
ha resistito all’ampia controffensiva talib Occorre tener presente
quest’orizzonte per comprendere il crescente caos afghano, dov’è in atto uno
scontro nello scontro. Quello primario si rivolge al governo kabuliota e
all’imperialismo occidentale che lo sostiene. L’altro è una lotta di crudeltà,
combattuta a suon di attentati col Daesh che s’è insinuato in territorio
afghano.
Ne abbiamo parlato in occasione di altre stragi, attuate contro
l’etnia sciita locale (gli hazara), ma ormai gli stessi pashtun sunniti
risultano vittime inconsapevoli della corsa alla bomba più devastante, alla
strage più sanguinosa che fanno del Paese un cimitero allargato. Una
devastazione sulla devastazione avviata dall’Enduring Freedom e proseguita
negli ultimi diciassette anni dalle truppe Nato di ‘missioni di pace’ dai nomi
cangianti e dalla sostanza destabilizzante. Un Occidente che scuote e scassa
come talebani e jihadisti, visto che quest’ultimi continuano a misurarsi e
reclutare anche perché nel Paese il conflitto strisciante prosegue, sia con
l’obamiana guerra dei droni, sia con “la madre di tutte le bombe” proposta da
Trump. Simili attacchi hanno effetti sanguinari, nel caso della Moab, più sui
civili che sui miliziani che, invece, subiscono maggiormente dalle esecuzioni
mirate com’è accaduto ai tre emiri dell’Isis afghano (Saeed Khan, Abdul Hasis,
Abu Saeed) freddati, via aria, fra il 2016 e metà 2017. Ma, appunto, la
presenza dell’aviazione statunitense e delle truppe d’occupazione offrono ai
due contendenti il meraviglioso alibi di difendere il popolo afghano dall’ingerenza
imperialista. Se in quest’affermazione è sicuramente vera la seconda parte, la
prima diventa una lotta per la supremazia fondamentalista, usurpatrice d’un
popolo stremato e martoriato.
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