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giovedì 30 settembre 2021

Il venditore d’idee che resta a Kabul

Saldo come lo scaffale della libreria dietro cui si fa immortalare da fotografi e videomaker che lo vanno a scovare, Muhammad Rais, resiste più dei Budda di Bamyan. Non lo toccarono i talebani della prim’ora, non lo toccheranno gli attuali, pensa lui fiducioso. Ormai è un simbolo, si sta invecchiando come gli oltre ventimila volumi che possiede e commercia nella sua bottega, una delle librerie più fornite dell’Afghanistan e non solamente. E’ attivo dal 1974, quando fu scacciato il re Mohammed Zair Shah. Ha visto passare tutta la terribile storia del Paese narrata sul fronte geopolitico: invasione sovietica, guerra civile, primo Emirato, invasione Nato, ritorno talebano. Con la smania di fuga vissuta da tanti connazionali, quelli riusciti a partire, una minoranza, quelli che vorrebbero farlo, numeri esagerati, Rais, cercato da molti media per la sua storia, conferma uno stato di tranquillità. Ne ha viste tante, non si scompone. Ha ricordato alla testata The Nation, quando i russi lo imprigionarono per aver esposto pagine jihadiste dell’epoca, decreti del mullah Omar, e periodici provenienti dal Pakistan. Può testimoniare come durante l’occupazione ufficiali statunitensi si recavano nel suo spazio d’informazione e sapere a cercare testi vietati. E’ convinto di non correre rischi e qualora finisse nuovamente recluso, non rinnegherebbe l’amore per un’attività per la quale è disposto a farsi torturare e pure uccidere. La sua è una passione, prim’ancora d’una missione, rappresentata dall’essenza dei libri: divulgare nozioni, d’ogni tendenza ed epoca. In effetti Rais è entrato nella storia degli ultimi travagliati cinquant’anni afghani. Trattando, nonostante una temporanea repressione e problemi logistici, testi d’ogni genere, compresi quelli sui misfatti dei turbanti, le atrocità sovietiche e statunitensi.  La libreria dà lavoro a giovani addetti, uno, padre di tre figli nonostante i ventisei anni d’età, aveva perduto una precedente occupazione al ministero che all’arrivo dei taliban s’è desertificato. Differentemente da certi colleghi questo giovane non è corso all’aeroporto Karzai, sperando di agguantare un volo per l’Occidente. E’ riparato da Rais e dal suo esercizio riconosciuto come un’istituzione. Certo, i problemi finanziari in corso, il blocco dei nove miliardi di dollari degli aiuti internazionali al Paese disposti da Biden contro il nuovo regime, non fanno circolare denaro. Proseguono le scene dei primi giorni dalla conquista talebana, con le banche chiuse davanti a code di cittadini speranzosi di raccattare anche solo qualche manciata di banconote locali. E se non c’è liquidità per acquistare cibo, figurarsi se si possono vendere libri… Eppure la forza del Rais sta nell’atavica coscienza della funzione del libro, dall’invenzione della carta e della stampa, dalla civiltà cinese all’imprenditoria di Gutenberg. E guardando fiducioso al futuro, parla anche di digitalizzazione, orgoglioso rivela d’aver iniziato a riprodurre opere rare in PDF.

mercoledì 29 settembre 2021

Tunisia, una donna come amica

La Tunisia ha una figura femminile nella carica di premier: Najla Bouden Romdhane, sessantatrè anni, docente alla Scuola nazionale d’ingegneria della capitale. L’ha scelta il presidente Kaïs Saïed con l’intento di stabilizzare caos interno e corruzione. Robocop, come viene definito il Capo di Stato fra il dileggio e la mitizzazione di alcuni tratti del carattere marziale, ci ha lavorato per due mesi dopo il colpo di mano con cui aveva liquidato l’ultimo primo ministro, Mechichi, e bloccato il Parlamento. Due anni di sbando per la conduzione politica nazionale, dall’autunno 2019 con un primo incaricato, l’ex ministro delle finanze Fakhfakh, caduto dopo sei mesi per uno scandalo di milioni di dollari di mazzette; un primo gabinetto Mechichi a settembre 2020; un rimescolamento a inizio 2021 sino alla crisi dello scorso luglio. Di mezzo la pandemia Covid che ha mietuto vittime, certo meno che altrove, ma ha messo a nudo carenze sanitarie,  disorganizzazione amministrativa, mancanza di qualsivoglia programmazione d’intervento preventivo. L’escamotage d’una premier donna, la prima nel mondo arabo, è un assist per se stesso, per il decisionismo con cui Saïed ha forzato la mano in una situazione di logorio e stallo, peraltro polarizzata e comunque critica economicamente e socialmente. E’ un segnale all’avversario principale, il partito islamico Ennahda, che nella contenuta tendenza moderata continua a essere diretto dall’anziano al-Ghannuchi e sulla questione di genere non è andato oltre il conferimento di seggi parlamentari, mostrando solo parziali aperture agli incarichi femminili.

 

Certo una nota parlamentare islamista, Saida Ounissi, è stata per circa un anno ministro del Lavoro sotto il governo Chahed, e sulle inchieste di corruzione che riguardano anche il suo partito (oltre ai gruppi politici Qalb Tounes e Ayich Tounes) afferma come sia in corso un eccessivo batti e ribatti mediatico cui non stanno seguendo prove giudiziarie. Ma sembrano dichiarazioni di circostanza volte più ad ammorbidire i contrasti col Capo di Stato che acuirli, dopo le accese proteste islamiste seguìte alla chiusura dell’organo legislativo. Visto che spetterà a una donna avviare le consultazioni per cercare la formazione d’un esecutivo minimamente stabile, e soprattutto capace d’intervenire su alcuni nodi cruciali: la mancanza di lavoro che determina una migrazione disperata, le parlamentari velate potrebbero risultare più utili al confronto della vecchia guardia ghannouciana, sempre che questa le coinvolga negli incontri di vertice. Intanto Saïed non ha perso l’occasione di “suggerire” alcuni temi indispensabili da trattare immediatamente: sanità, trasporti, scuola. Comunque il terreno su cui il prossimo governo tunisino dovrà immediatamente muoversi è quello del supporto finanziario. Il gioco di sguardi, e non solo, fra le figure istituzionali (presidente e premier) e il Fondo Monetario Internazionale può iniziare, si sa che il rapporto non è mai disinteressato. Nonostante l’azzardo di luglio abbia accresciuto e non diminuito la popolarità di Robocop (risulta che oltre alle Forze Armate anche i sindacati oggi sostengano il Capo di Stato) lo sgarro alla democrazia parlamentare fatto passare come “misure eccezionali” è il vulnus da sanare nelle prossime settimane per rilanciare una collaborazione nazionale, fra i partiti e fra le parti. La sensibilità d’una donna leader potrà fare il miracolo? Il potere maschile, laico e islamico, consentirà questo percorso?   

martedì 28 settembre 2021

Zaki, rinvio al 7 dicembre

Stavolta è la difesa di Patrick Zaki a prolungare i tempi. La prossima udienza a carico del ricercatore egiziano dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, che si terrà sempre presso il Tribunale di Mansura, slitta di dieci settimane (7 dicembre). Consentirà all’avvocata di difesa Hoda Nasrallah di studiare ed esaminare appropriatamente gli atti giudiziari di cui ha chiesto alla Corte copia del fascicolo. Finora li aveva potuti visionare solo presso gli uffici competenti. La sentenza nei confronti del giovane, che può essere emanata in qualsiasi udienza, riguarda la “diffusione di notizie false” attraverso i social. Per tale reato la pena prevista è fino a cinque anni di detenzione.  Secondo le leggi vigenti sotto il regime di Al-Sisi possono essergli attribuiti anche il crimine di “minaccia della sicurezza nazionale” e quello di “terrorismo”, per i quali la reclusione raggiunge i 25 anni e oltre. Sono due aberranti percorsi repressivi con cui si sta cercando un capro espiatorio internazionale, dal momento che il caso Zaki è diventato di dominio pubblico non solo in Egitto e in Italia. Quaranta europarlamentari hanno firmano un appello per la sua liberazione. Però il governo cairota, oltre a respingere ingerenze esterne su questioni di sicurezza nazionale - questo affermano i giudici -, oppone al sostegno di familiari, attivisti dell’ong Egyptian Initiavive Personal Right, studenti dell’ateneo bolognese, Amnesty International, più qualche amministratore emiliano e onorevole italiano, il proprio teorema accusatorio per creare un esempio generale da applicare al futuro. 

 

Come l’omicidio Regeni ha praticamente azzerato studi sul campo e gli stessi reportage giornalistici  in loco, la vicenda dello studente, che rischia di restare venti mesi e forse più in prigione solo per avere espresso un libero pensiero sull’abolizione del diritto di pensiero e di parola nella grande nazione araba, rappresenta un monito al mondo, invitato a non immischiarsi, e alla popolazione islamica, copta, laica che sia. Alla quale si chiede fedeltà e prostrazione al presidente-golpista e oppressore pena il rischio di non poter vivere neppure da sudditi silenti. E’ la storia di Alaa Abdel Fattah, delle sorelle Sanaa e Mona, della madre Layla lui incarcerato, loro fuggitive oppure a rischio di fermi e reclusioni che già si sono ripetuti. E si tratta pur sempre degli episodi più conosciuti, riguardanti attivisti, familiari, cittadini diventati, loro malgrado, celebri seppure all’interno del tragico tunnel della repressione subìta e in corso d’opera. Eppure fra i sessantamila detenuti di una fra le lobbies militari più potenti del globo ci sono persone di cui nessuno parla, anche perché gli stessi avvocati dei diritti non sono messi in condizione di poter conoscere casi, accuse, situazioni generali e particolari del carcerato, talvolta neppure la galera dov’è stato sepolto. Il balletto delle Corti può proseguire, e soprattutto l’angoscioso sistema che ti rimanda ad libitum la libertà e l’esistenza intera.

sabato 25 settembre 2021

Taliban: risse, egemonia, realismo politico

Fra i taliban le divisioni esistono, lo si sapeva da tempo. Al di là delle presunte sparatorie di Palazzo, delle voci del ferimento del mullah Baradar poi riapparso in pubblico con l’alibi d’un viaggio a motivazione della sua temporanea assenza, i combattenti intransigenti sostengono di avere un debito col Paese, la sua gente e la loro stessa organizzazione per i venti anni di guerriglia sostenuti. E vogliono esser ripagati. Taluni studiosi della galassia coranica confermano l’esistenza d’una profonda spaccatura che si sviluppa fra i miliziani e prosegue sul territorio, compresi i luoghi d’origine e le famiglie di provenienza dei guerriglieri. Ex esponenti di quella che fu l’Army National Forces lamentano azioni, coordinate e  singole, di studenti coranici armati che sequestrano loro auto o abitazioni. Tutto ciò nonostante gli annunci cantilenanti della prim’ora: non ci saranno soprusi verso chi vestiva la divisa nel precedente governo. Proprio Zabihullah Mujahid - volto ufficiale talebano nella famosa conferenza stampa del 17 agosto scorso - aveva enfatizzato le differenze dalla corrotta conduzione del collaborazionista Ghani. Ma al di là della frenesia dei giovani combattenti, contenuti nella possibile vendetta cruenta contro chi gli sparava addosso se non fino a un mese prima perlomeno fino a un anno fa, viste “le buone maniere di facciata” con cui l’Esecutivo dei turbanti non vuole turbare il mondo su un territorio tornato all’Emirato, i combattenti chiedono almeno di farsi un ‘sacrosanto bottino’. 

 

Quello copioso l’hanno messo al sicuro Ghani e i suoi accoliti, sia i consumati signoroni della guerra amici scappati via (Dostum), sia i nemici rimasti in loco (Hekmatyar). Però il talib sa che pure l’ex ufficialetto ha il suo piccolo tesoro. Fatto di gabelle che richiedeva in taluni check-point. Il miliziano lo sa perché lui stesso l’ha preteso, e ricevuto, nei posti di blocco creati nelle aree controllate. E’ il male comune d’un Paese che non cambia perché dipendente dall’assistenza interessata, un tempo dall’Occidente, in futuro da chissà chi altro. Gli Stati Uniti ritirandosi hanno congelato nove miliardi di dollari di fondi internazionali necessari all’immediata sopravvivenza economica della nazione, e nell’aria viziata dalle citate tare il vizio soggettivo continua a rimanere radicato. A spargere sale sulle spaccature politiche interne sono i nomi noti del radicalismo: mullah Yaqoob, il figlio di Omar, già comandante di punta delle offensive di maggio ora ministro della Difesa del secondo Emirato. E ovviamente Sirajuddin Haqqani. Seppure quest’ultimo abbia obiettivi più ambiziosi che taglieggiare gli ex nemici. I suoi odierni avversari sono turbanti come lui: appunto Baradar e il ministro degli Esteri Mohammad Stanikzai. Questi, originario della provincia di Logar, quando l’Armata Rossa occupava l’Afghanistan faceva l’apprendistato nell’Accademia militare indiana, quindi partecipò alla Jihad antisovietica. E’ un uomo d’arme, ma non ha mai ecceduto nel militarismo, né nel fondamentalismo confessionale. La coppia rappresenta il pilastro diplomatico dell’attuale gruppo di potere, che diversi media hanno tacciato di moderatismo. 

 

Accanto alle etichette distribuite o guadagnate, parlano intenti e fatti. Più d’uno dei leader dell’area di Kandahar non ha gradito la visita del potentato dell’Isi pakistano Hameed che ha “mediato” a suo modo, contenendo le pretese degli Haqqani e al tempo stesso offrendo al clan una sponda esplicita, superiore a quella lanciata per anni sottotraccia nei territori delle Fata, dove tanta guerriglia talebana ripara ed è nutrita. Anche un altro leader coranico, Mohammad Mobeen, ritiene che il miglior futuro d’un governo tuttora provvisorio, potrà essere dettato da una formula maggiormente inclusiva. E se qualche esemplare della vecchia guardia dell’Afghanistan messo in soffitta – Karzai, Abdullah – risulta  impresentabile e confligge col rigore anti-Occidentale, altri totem d’un triste passato devono in qualche modo rientrare in gioco. Uno potrebbe essere Hekmatyar, fondamentalista quanto basta così da accontentare i più intransigenti della famiglia talebana, e soggetto già in diretto contatto col potere iraniano. Questa sponda sostiene l’idea di ampliare il governo con una rappresentanza etnica non solo di hazara a maggioranza sciita, ma pure di uzbeki e tajiki. In tal modo l’ingerenza pakistana che si vorrebbe far uscire dalla porta rientrerebbe da due finestre: la prima aperta verso i cavalli di Troia di Islamabad, con gli uomini dell’Isi in prima fila, la seconda coi jolly di Teheran. Sebbene l’intera rissosa e incontentabile famiglia talebana i conti dovrà farli con le schegge più incontrollabili che flirtano con lo Stato Islamico del Khorasan e gli offrono uomini, fanatica fede, confronto e conforto.

mercoledì 22 settembre 2021

Il carcere “umano” di Al-Sisi

E’ il regime che ti tiene in galera senza gettar via la chiave. Ti prolunga le sentenze da un mese e mezzo all’altro. Ad libitum, come ben sa Patrick Zaky, monitorato e assistito da familiari, amici, sostenitori anche internazionali. Ma intanto ti priva non solo del libero arbitrio, arbitrariamente ti tiene in celle spoglie, umide, sporche, sovraffollate. Fa in modo che qualche accidente ti capiti lì, provocando finanche la morte per infezione di Covid o intestinale, per attacco cardiaco privato d’interventi rapidi, per ossessione da tempo bloccato, che conduce pure coriacei detenuti,  come l’attivista Alaa Adbel Fattah, a pensare e ripensare al futuro che non c’è e voler farla finita. Se ti suicidi in cella, nessun carceriere dovrà rispondere d’un gesto insensato appartenente solo a te detenuto che non sopporti la punizione o l’attesa d’un pronunciamento della Corte. Il tutto fa parte del sistema repressivo messo su dalla lobby militare la cui espressione più funzionale ha il faccione bonario del feldmaresciallo Al-Sisi. Nei giorni in cui un altro feldmaresciallo è passato, per via naturale, a miglior vita: Hussein Tantawi, volto smunto che rimpiazzava quello funereo e criminale di Suleiman, premier ad interim, dopo la cacciata di Mubarak, l’Egitto non vede differenze. Stragisti con le stellette sostituiti da colleghi stragisti con altrettanti fregi militari che sfregiavano la propria gente: ottocento le vittime della rivolta di Tahrir repressa dalla coppia Mubarak-Suleiman; svariate centinaia quelle schiacciate da Tantawi nei mesi seguenti (massacro del Maspero, dello Stadio di Port Said, di Mohammed Mahmoud Street), fino alla madre di tutti gli eccidi presieduta da Sisi in persona: la mattanza della moschea di Rabaa. 

 

Duemila morti o giù di lì, fatti fuori in una notte e nella mattinata seguente, 13-14 agosto 2013, uno dopo l’altro, sparati, schiacciati, sventrati per via. E’ il modello d’ordine che il golpista Sisi, eletto presidente nei mesi successivi, stabiliva nel Paese. Da lì l’escalation della pressione e della repressione con le migliaia d’incarcerati, coi sequestri e le sparizioni che l’Occidente ha iniziato a vedere solo nel 2016 con la vicenda di Giulio Regeni. Nonostante questo nessuna nazione addita l’Egitto per quel che è: uno Stato d’intimidazione verso attivisti, sindacalisti (quelli reali, non le spie dei mukhabarat) e poi giornalisti, avvocati dei diritti, familiari, cittadini qualunque, atterriti dalla prospettiva d’essere trattati come i casi che denunciano, come i congiunti e gli amici che difendono. Compreso il favore di cui gode - grazie a un quadro geopolitico che ne esalta la disponibilità a porsi accanto ai regnanti senza scrupoli sauditi ed emiratini, più i signori della guerra libici, quale garante della reazione nel vicino Medio Oriente - la lobby militare egiziana interpreta il ruolo dell’alleato di comodo cui si perdona tutto. Anche perché accanto alla strategia securitaria della regione ballano interessi finanziario-energetici coi giacimenti di gas nel Mediterraneo di Levante, ripagati con appalti miliardari per servizi e armamenti. Così non solo i cinici governi di Francia e Gran Bretagna, l’opportunismo  tedesco, ma il tricolore tanto sbandierato e ingioiellato nei mesi della foia sportiva, che sempre pacifica e ammanta d’oblìo ogni cosa, resta ammainato sotto il peso del sangue di quel connazionale tanto nominato quanto abbandonato, assieme al Diritto e alla Giustizia con le maiuscole. 

 

Diversi governi nostrani hanno illuso la famiglia Regeni, ma non muovono foglia, anzi lusingano un regime tiranno. Questo subdolamente ha assunto un comportamento possibilista verso le migliaia di prigionieri con cui riempie Minya, Wadi al-Natrun, Tora. Non li condanna, li tiene a ‘bagno maria’. Ogni tanto li blandisce con una liberazione a tempo, per poi riprenderli in custodia, se fanno i capricci li tortura un po’: botte, cavi elettrici, acqua salata a gogò, testa i giù per giorni, per far capire loro che non gli conviene fare i duri e puri. Ora la National Security Agency fa circolare un quesito nelle celle. Dice: Cosa diresti se uscissi? Quindi li carezza, gli prospetta di finire nella lista del perdono, annunciato per i festeggiamenti nazionali delle Forze Armate del 6 Ottobre o in quella dell’anniversario da nascita di Maometto che quest’anno ricorre il 18 dello stesso mese. Ovviamente le risposte dovranno essere compiacenti, del tipo: le prigioni non sono lugubri, ci si può stare comodi, i detenuti rinnegheranno d’aver a che fare con l’opposizione o d’appartenere al deprecato Islam politico. Così il mondo potrà focalizzarsi sulla magnanimità del regime militare egiziano. Aumentando il livello di ‘democraticità’ Sisi ha anche annunciato che presto verranno adottate strutture circondariali in “stile americano”. Magari potrà giustificare i brutali trattamenti coi cavi elettrici nel più umano sistema di esecuzione, quello della ‘sedia’ che tuttora vede alcuni States (Mississipi, Utah, Oklahoma) attivi e contenti. 

martedì 21 settembre 2021

Af-pakistan, la danza dell’insicurezza

Il potere talebano in Afghanistan sta rinfiammando alcuni mai spenti focolai della regione. Quello storico fra Pakistan e India è rilanciato dalla palese ingerenza con cui un potentato di Islamabad - il capo dell’Inter-Services Intelligence Faiz Hameed - ha mediato e sospinto il gruppo Haqqani ai vertici degli attuali Palazzi di Kabul. Secondo certi analisti il capoclan Sirajuddin avrebbe voluto molto di più del ministero degli Interni assegnatogli, puntava a essere il leader dell’esecutivo. Hameed l’avrebbe limitato, dotandolo, però, d’un sostegno esterno non da poco: il proprio, così da proseguire e incrementare la ‘profondità strategica’ di Islamabad nel Paese attiguo. A questi aggiornamenti di fatti noti i media indiani additano come spazzatura un dossier compilato nei mesi scorsi dall’Intelligence pakistana che accusa alcuni diplomatici di Delhi presenti a Kabul, di brigare con nuclei terroristi in Beluchistan per condurre azioni destabilizzanti in quella regione e nelle Aree Autonome Tribali. E un più recente documento con cui si rivela un presunto sostegno logistico a miliziani dell’Isis in India. Dossier, accuse di falsità e giochi sporchi restano nell’aria perché nel contrastarsi India e Pakistan fanno ampio uso di propaganda, ipotesi plausibili, rivelazioni inventate. 

 

Anziché esasperare i contrasti incentrati sulla cosiddetta Linea di Controllo, i settecento e passa chilometri, che insistono sul Jammu e Kashmir, Stato indiano autonomo sino a due anni fa, sottoposto alla cura anti-autonomia del premier Modi, i due contendenti, e non solo loro, dovrebbero rafforzare la sicurezza interna e regionale che per quanto il panorama afghano sta mostrando può essere messa a soqquadro, proprio con le variabili dello Stato Islamico. La città di Jalalabad, a meno di settanta chilometri, dal confine pakistano è da giorni teatro di attentati antitaliban, compiuti da combattenti dell’Isis Khorasan. Azioni prevalentemente simboliche, che comunque mettono a nudo la difficoltà del governo insediato a Kabul di controllare il territorio. E sull’onda del combattentismo jihdista gruppi oltranzisti pakistani come i Tehreek-e Taliban e Lashkar-e Jahangvi, sono stimolati a una ripresa del conflitto dentro il territorio nazionale, contro la lobby delle Forze Armate, magari col solito zampino compiacente dei Servizi. Mentre Lashkar-e Taiba cerca spazio distruttivo nella citata regione del Kashmir, puntando per nuovi reclutamenti sul malcontento dei musulmani repressi dalla polizia indiana. Insomma l’instabilità di una fetta dell’Af-pakistan è palese, i diretti interessati all’aria che tira (Cina e India, Pakistan e Iran) dovrebbero chiedersi se conviene dialogare coi taliban, come accadeva prima dell’insediamento governativo a Kabul, o assistere a un precoce logoramento foriero di ulteriore caos e conflitti.  

domenica 19 settembre 2021

Kabul, tutte a casa

Tutte a casa, dice il sindaco, che poi è un incaricato pro tempore, un facente funzioni. Così oggi a Kabul circa mille dipendenti pubbliche non hanno potuto varcare l’ingresso dei posti occupati fino al giorno precedente. Era nell’aria, sebbene Hamdullah Nomany, il sindaco ad interim della capitale afghana, abbia dichiarato che si tratta d’una situazione transitoria mentre s’attende un ennesimo provvedimento. Ma i taliban hanno disposto così e lui applica le direttive. Le lavoratrici non sono state sostituite nelle loro funzioni da personale maschile e, nonostante il fermo, continueranno a ricevere lo stipendio. Però alcune attiviste presenti stamane davanti all’ex ministero degli “Affari Femminili” ora ministero per il “Rispetto della Virtù”, che protestavano contro la ‘metamorfosi’ del dicastero e contro il nuovo orientamento decisamente penalizzante per i diritti al femminile scuotevano la testa. Non certo per pessimismo precostituito. Da giorni il governo degli studenti coranici gira intorno alla questione del lavoro per le donne, affermando di volerlo orientare e preservare. Di fatto questo fermo potrebbe rappresentare il primo passo verso il temuto divieto. Che segue il provvedimento restrittivo registrato nella giornata di ieri per le allieve di scuole primarie, medie e secondarie: l’avvìo dell’anno scolastico è stato consentito solo alle classi maschili, a conferma del doppio binario usato dai turbanti dal giorno della prima conferenza stampa d’agosto. Il nucleo di donne schierate davanti al ministero armate di cartelli, denunciava questo stato di cose, oltre a contestare l’assenza di figure femminili nel governo dei soli talebani maschi. Un’attivista intervistata da Tolo tv, ammessa in questa circostanza ad effettuare riprese video, sosteneva che “il ministero degli Affari Femminili rappresentava un’identità di genere, la sua cancellazione ha l’amaro sapore d’una rimozione delle donne dalla società”. E ancora “le donne che perdono il lavoro non possono aiutare economicamente i loro congiunti. E vivono il dramma d’un impoverimento familiare”.

giovedì 9 settembre 2021

Torture talebane

Chissà se alla prossima conferenza stampa mostrerà la stessa flemma Zabihullah Mujahid, già portavoce talebano e ora ministro della Cultura e della Comunicazione, nel dover spiegare quanto i suoi compari mettono in atto: ferreo divieto per le donne di esercitare l’arte musicale e quella corporea attraverso lo sport. Lui all’unica giornalista di sesso femminile, ammessa all’incontro con la stampa ormai diventato storico dello scorso 17 agosto, che chiedeva quale sarebbe stato il futuro lavorativo e civile per le donne rispondeva a mezza bocca che avrebbero potuto continuare a lavorare e studiare, secondo i princìpi della Shari’a. Princìpi che i talebani rivisitano secondo il più fanatico fondamentalismo delle scuole coraniche del deobandismo, con cui reintroducono limitazioni, esclusioni, accompagnamenti con mahram, minacce e repressioni. A neppure un mese dalle bandiere bianche sui Palazzi di Kabul. A tre giorni dall’insediamento d’un governo nient’affatto aperto a figure della società civile, oltre che ai volponi del passato regime, che comunque qualcuno fra i turbanti avrebbe accettato. Ma l’esecutivo del compromesso benedetto dal pakistano Hameed, mette in prima fila uomini e ideali estremi seppure mostra di barcamenarsi su un doppio binario: ricerca di accoglienza e benevolenza internazionale e volto casalingo severo per stroncare da subito proteste che potrebbero crescere. Gli sparuti manipoli di donne senza paura dei giorni scorsi, iniziano a diventare gruppi di centinaia di persone con cartelli, striscioni, manifestazioni di strada che accusano i taliban d’intolleranza e oscurantismo. La risposta sempre più dura appare in linea con la volontà coercitiva del secondo Emirato, che prelude a violenza aperta verso chiunque ponga diversità di vedute. Una violenza che i giornalisti afghani hanno già impressa a suon di frusta sulla pelle e di botte sul corpo, inferti da picchiatori-torturatori coranici, affinché ciascuno si metta in testa di non poter descrivere, fotografare, filmare gli slogan delle donne coraggiose e rabbiose contro l’oscurantismo in cammino sulla propria esistenza. Gli uomini pubblici in turbante stabiliscono questo duplice comportamento: affabile accettazione per i reporter stranieri, tornati numerosi sulle polverose strade afghane. Legnate e minacce di morte ai cronisti locali che non dovranno aiutare i colleghi né collaborare coi media mondiali. Non dovranno raccontare restrizioni e pene quotidiane d’una popolazione minacciata e vessata o impaurita e acquiescente, l’epilogo può essere la morte.  

mercoledì 8 settembre 2021

Emirato afghano, atto secondo

Infine eccolo il Gotha talebano, messo nero su bianco. Frutto di mediazioni, tante, e di aggiustamenti per tutti, a tal punto che gli opposti possono egualmente sentirsi vincitori. La sorpresa è nella figura del primo Ministro Mohammad Hasan, un turbante venuto dal primo Emirato nel quale ricopriva l’incarico degli Esteri. Chi l’ha voluto? Probabilmente il garante supremo, il chierico Akhundzada, che ha dovuto cedere a pressioni interne della Shura maggioritaria e ai ‘consigli’ pakistani materializzatisi con la presenza costante, nei giorni di composizione della squadra di governo, del capo dell’Inter-Services Intelligence, Faiz Hameed. Da quest’ultimo dev’essere anche giunto il suggerimento dell’investitura del focoso Serajuddin Haqqani al dicastero dell’Interno, quello che presiede polizia e sicurezza. Anche se attualmente in terra afghana mancano entrambe. In tal modo il cosiddetto moderato Baradar, che ha condotto la defatigante trattativa di Doha e doveva guidare l’attuale transizione, dovrà accontentarsi del ruolo di vice premier. Ma non tutto è come sembra. Da quello che potrebbe essere letto come un ridimensionamento il ‘mullah dei colloqui’ può trarre più luci che ombre. Proprio agendo defilato ma accanto ad Hasan, può condizionarne gli orientamenti. Nel braccio di ferro a distanza con Serajuddin per la guida del Paese, è quest’ultimo ad averci rimesso. 

 

Avrebbe voluto esser lui il padrone del secondo Emirato, i menzionati suggerimenti esterni non l’hanno escluso, ma premiato come desiderava. Ne hanno tutelato il clan: il potente zio Khalil mette le mani sul ministero dei Rifugiati, altri componenti gestiscono Telecomunicazioni e Università. Per il dispiacere delle donne su cui potranno far pesare esclusioni. L’equilibrio fra i capi pone Muhammad Yaqoob, il figlio del mullah Omar, al ministero della Difesa. Sempre per l’area della forza Abdul Wasiq controllerà l’Intelligence. Amir Muttaqi diventa ministro degli Esteri, e l’ormai noto Zabinullah Mujahid, è ministro della Cultura. Superfluo ricordare come vari di questi nomi sono sulle liste nere della Cia, anche perché gli uomini della Cia hanno dialogato con costoro e non solo quand’erano rinchiusi nella superprigione di Guantanamo. Così la taglia da milioni di dollari sulla testa dei due Haqqani più noti, Serajuddin e Khalil, diventa folklore ora che i grandi della terra inizieranno a dialogare con loro. E Baradar e Wasiq liberati dalle rispettive reclusioni per raggiungere lo scopo che è ora sotto gli occhi della Comunità internazionale: un Afghanistan senza truppe d’occupazione, non potranno essere additati come reprobi d’un fosco passato. Resta il presente, incertissimo per chi vuol fuggire e per chi resta. Per chi china il capo e chi protesta. Poiché oggi c'è chi chiede diritti e anche pane. Un presente pesante come i mesi e forse gli anni che seguiranno.

martedì 7 settembre 2021

Bandiere, intrecci, intrighi nell’Afghanistan in arrivo

Nonostante le bandiere talebane che pavesano, quasi fosse una nave, la valle arida, stretta, infida del Panshir – coi cinquemila e oltre del Kuk-e Kolzaro Zaghicha a ovest e i quasi seimila di Mir Samir a Levante – il problema dei turbanti restano le turbe interne. Scardinare l’ex rifugio del leone Shah s’è dimostrato cosa semplice. Imprendibile ai taliban del primo Emirato, e a inizi anni Ottanta agli assalti dell’Armata Rossa: il primo con mezzi corazzati di terra ed elicotteri Gunship, il secondo con tanti militari in più, e un altro ancora con uomini e mezzi, millesettecentocinquanta carri e blindati. Tutto inutile. Ma erano altri tempi, c'era un comandante vero e soprattutto altre motivazioni. La presunta resistenza di Massud junior è servita poco alla sua stessa propaganda, unirsi a elementi come il torturatore di prigionieri Saleh, vicepresidente di Ghani, significava sommare corruzione e terrore da contrapporre al terrorismo talebano. Poteva trovar credito solo in bastian contrari alla Henry Lévy, neppure in combattenti tajiki che si prospettano un fronte resistenziale migliore che per ora non esiste. Simbolicamente paiono più efficaci azioni di resistenza passiva – ma potrà durare? – dei gruppetti di donne che in varie città, capitale compresa, scendono per via in quindici-venti, come hanno mostrato finora telecamere ufficiali di Tolo tv o i video di free lance locali. I taliban preposti all’ordine pubblico con kalashnikov in bella vista, lacrimogeni e spry urticanti le hanno minacciate e disperse. Le coraggiose insistono. Qualcuna è finita male, e c’è stato di peggio: la poliziotta Banu Negar è stata assassinata in casa, davanti ai familiari. Non l’ha salvata neppure la gravidanza all’ottavo mese. 

 

Se si tratta di reazioni sconsiderate di ‘teste calde’ che perdono il controllo, oppure di direttive durissime che partono da comandanti ispirati dal vertice, si capirà al momento dello scioglimento d’un nodo che sta diventando scorsoio: chi deve guidare il secondo Emirato. I due gruppi in contesa per il dominio, sebbene tutto fosse stato approntato già dalla scorsa settimana col binomio Akhundzada leader spirituale, Baradar primo ministro più  l’appoggio, oltreché militare, politico di Yacoob, utile agli equilibri nella Shura di Quetta – è messo in discussione da Sirajuddin Haqqani. Il liberatore di Kabul, l’acceleratore dell’uscita statunitense dal Paese e della fuga per la salvezza di chi non vuol restare sotto quel cielo. Se sarà solo  una minoranza di qualche decina di migliaia di filo-occidentali o una crescente massa di milioni di profughi si vedrà nelle prossime settimane, diventate strategiche e critiche. A tal punto che fra i partecipanti al rinnovato “Grande gioco” sono già in prima fila il Pakistan, con l’attuale signore dei Servizi, il generale Hameed, nella veste di  mediatore fra i taliban afghani per la formazione del governo. E l’emiro  qatariota Al-Thani, che sopravanza i presuntuosi vicini: il saudita bin Salman e il principe di Abu Dhabi bin Zayad. Al-Thani acquirente di tivù, squadre di calcio, campionati Fifa, promette petrodollari a un affamato Afghanistan, fornisce aiuto tecnico per la riapertura dell’aeroporto della capitale, ammicca  buoni uffici tramite la Turchia (e probabilmente la Russia) per una stabilizzazione interna. Ma vicini gelosi già dissentono – Teheran per bocca del neopresidente Raisi – e nel governo che può accontentare anche gli Haqqani non ci sarà la variabile poco governabile dell’Isis-Khorasan e dei manipoli della ‘strage perenne’ acquattati nelle Fata, Nord-Warizistan, Beluchistan. Altro che Panshir…

domenica 5 settembre 2021

Pakistan, il grande fratello talebano

Almeno una parte della pesante zavorra che negli ultimi decenni condiziona la vita della gente afghana deriva dai comportamenti d’un vicino invadente al limite dell’invasione. Quelle ottocentesche dell’impero britannico e le recenti sovietica e statunitense erano palesi, con tanto di eserciti e sangue versato. Aggressioni peraltro respinte e rispedite al mittente con l’immancabile tributo di violenza e morte. L’invasione pakistana è subdola, basata su aiuti presunti e concessione di campi profughi oltreconfine, e via vai di guerriglieri e agenti dei Servizi, grande specialità del gigante musulmano. Coi suoi 220 milioni di abitanti la nazione cresce in proporzione più delle più prolifiche stirpi africane, il 37% sono bambini al di sotto dei 15 anni d’età. E’ dopo l’Indonesia il Paese islamico maggiormente popolato. Questa fede raccoglie il 97% degli abitanti, concentrati, eccezion fatta per le megalopoli di Karaki, Lahore, Faisalabad (rispettivamente 24, 11 e 7.5 milioni di persone) in centri di medio cabotaggio e nei villaggi. Ma alcune regioni, note principalmente a chi si occupa di geopolitica, come il Belucistan, dove sorge Quetta, oppure le Kyber Pakhtunkhawa e Aree Tribali Federali, conosciute con l’acronimo Fata, raccolgono rispettivamente 13 e 40 milioni di pakistani. Un quinto della popolazione, spesso non gente tranquilla, ma attivisti e combattenti. Sempre chi mastica di politica estera alle città di Quetta e alla più popolata Peshawar aggiunge la denominazione Shura (che in arabo sta per Consiglio), entrambe caratterizzate dai ceppi talebani di riferimento. La Shura storica di Quetta raccoglie i talebani afghani ortodossi, oggi guidati dal chierico conservatore Akhunzada con l’ausilio del pragmatico Baradar; quella di Peshawar è influenzata da studenti coranici amici dei pakistani. Fra le due, e nelle due, agisce la famigerata Rete di Haqqani, un potente clan che con gli eredi del defunto patriarca Jalaluddin, muove milizie, attentati, pressioni e rapporti a 360°. Ecco, dunque, alcuni tratti distintivi del Pakistan: Paese in spaventosa ascesa demografica, enorme laboratorio confessionale, crocevia di alleanze in diretta correlazione con gli interessi dei grandi del mondo.

 

E fucìna di distorsione della politica, nutrita dalle entità talebane che lì possono muoversi grazie ai poteri interni (capi di Stato e di governo, esercito, intelligence) capaci d’influenzare quanto hanno a portata di mano e anche più lontano. Il Pakistan grande guastatore, dunque, non da oggi. Dopo l’indipendenza e la separazione dall’India con tanto di guerre per i territori contesi del  Jammu e Kashmir, la politica nazionale ha oscillato attorno alla potente lobby militare (sostenuta da un terzo del bilancio statale), autrice in varie epoche di golpe, colpi di mano e dittature (coi presidenti-padroni Ayyab Khan, Yahya Khan, Zia ul-Haq, Musharraf) e la forza di clan familiari. Il più famoso, i Bhutto, ha espresso capo di Stato e premier (Zulfiqar e Benazir), le cui vite sono state stroncate da esecuzioni capitali e attentati. Un ambiente assai agitato, dove sulle contraddizioni interne ponevano le mani gli alleati statunitensi che per circa mezzo secolo hanno regolato le proprie intese in base a interessi e dinamiche dello scacchiere mondiale. In tal modo Islamabad, l’anti-Delhi filosovietica, riceveva l’arma atomica (attualmente detiene un quarto dell’arsenale globale), mentre ai vertici della nazione le lotte per il comando rendevano la coalizione non così tranquilla come Casa Bianca e Pentagono s’aspettavano. Una delle figure più inquietanti fu il generale Muhammad Zia ul-Haq. Si rivoltò al premier Bhutto che nel 1976 l’aveva fatto Capo di Stato maggiore, non contento due anni dopo lo fece condannare all’impiccagione. Con un dispotismo personale sostenuto dalle Forze Armate, Zia rilanciava il programma nucleare già supportato dagli Stati Uniti. Dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan sostenne la resistenza dei mujaheddin, aiutando soprattutto il gruppo fondamentalista dell’Hezb-i Islami di Hekmatyar. In quella fase sul territorio pakistano trovavano ampio spazio le predicazioni più radicali del deobandismo e s’instaurava un esplicito integralismo di governo. Non solo il divieto assoluto della vendita di alcolici e i prelievi forzati ai cittadini giustificati come zakat, ma le punizioni corporali, le lapidazioni di donne per presunto adulterio, condizionavano una nazione che il Partito Popolare Pakistano e gli stessi orientamenti del padre della patria Ali Jinnah, volevano diversa dalle arie di Califfato. 

 

Nel 1988 la carriera di Zia si schianterà nel Punjab durante un volo, in un mistero rimasto tale solo per la cronaca. Su questo fronte l’omicidio di Stato rende il Pakistan molto occidentale... Da quell’epoca la nazione ha accresciuto l’economia con un’accelerazione industriale privata e ha aumentato le pretese di controllo regionale. Facendo leva sugli interessi soprattutto statunitensi contro gli avversari storici Urss e Cina, i governanti di Islamabad s’infilano nelle cento e una crepe regionali cercando un proprio tornaconto. Ma al fianco delle tendenze da Stato moderno interessato ai risvolti della globalizzazione, pur nella spirale perversa di consumismo-corruzione-debito pubblico, si accrescono gli intrighi fra pezzi dello Stato e l’integralismo confessional-culturale. Le scuole deobandita, in gran parte sunnita hanafita, e quella hanabalita, dove prevale la predicazione wahhabita, non fanno che rinfocolare una visione fanatica del proprio credo con facili derive sanguinarie verso altri culti e nei confronti degli stessi musulmani considerati infedeli. Considerando che una parte minoritaria, ma non così minuta - è calcolata attorno al 25% - dei pakistani professa la fede sciita, le tensioni interne in materia religiosa raggiungono frizioni elevate. E alimentano quel substrato violento che dalle madrase, come quella storica di Darul Uloom Haqqania dove si formò il mullah Omar, inondano metropoli e villaggi diffondendo intolleranza, settarismo, attentatori kamikaze. Il rapporto delle Istituzioni pakistane con tale substrato ideologico dell’islam politico dei più svariati gruppi talebani è contraddittorio. Ufficialmente i governi hanno manifestato adesioni agli accordi internazionali che legano il Paese agli Stati Uniti, ma ad esempio il riavvicinamento di quest’ultimi all’India di Narendra Modi - che incarna il duplice ruolo di nemico geopolitico e pure religioso - ha incrementato il doppiogiochismo di Islamabad. Sia quello voluto dalla leadership nazionale, sia quello da essa subìto per conto dell’Inter-Services Intelligence che agisce sopra e contro la stessa ufficialità della politica. Emblematico fu il rifugio offerto a Osama bin Laden, che era finito ad Abbottabad non solo grazie alla rete qaedista di sostegno. In realtà i giochi sporchi, scambiando favori con ogni fronte talebano, la locale Agenzia dei Servizi li compie da anni, interviene nelle instabili province afghane per creare la cosiddetta “profondità strategica” utile alla supremazia regionale che Islamabad insegue. 

 

Ma pur carezzando e nutrendo la Jihad della resistenza talebana contro i propri referenti e protettori globali statunitensi, il governo pakistano deve fare i conti con quel radicalismo di branche come i Tehreek-i Taliban capaci di strazianti stragi di bambini (scuola di Peshawar nel 2014, parco giochi di Lahore nel 2016) tanto simili alle carneficine dell’Isis Khorasan. E nuclei ancora più minuti e schizofrenici nel programmare raid sanguinari: Lashkar-i Taiba, Lashkar-i Jhangvi, Harkat-ul Jiahad-al Islami, Sipah-i Sahaba. L’effetto boomerang di simili sodalizi divide i governanti fra chi propugna di sradicare anche con la forza, come avvenne nel 2009 nella valle dello Swat, il radicalismo islamico e chi non vuole saperne. Nelle dinamiche presenti e future del Pakistan che condiziona l’Afghanistan entrerà sempre più la Cina, con la sua politica mercantile bisognosa di sicurezza di determinate aree. Quelle da sfruttare: il sottosuolo afghano ricco di litio, rame, alluminio, oro, quelle del passaggio di manufatti: i corridoi che dallo Xinjiang conducono merci al porto pakistano di Gwadar, evitando d’incanalarle nel Mar cinese meridionale verso lo stretto di Malacca. In questo gioco delle alleanze di coppia o triplici che si frantumano e si ricreano, il Pakistan “americano” fa il voltafaccia a Washington, flirtando con la Cina che negli ultimi anni lì ha investito 52 miliardi di dollari, e con essa divide un  reciproco orientamento anti-indiano. Primigenio e ricambiato quello di Islamabad contro Delhi, mentre l’India restituisce a Pechino astio sugli impervi confini dell’Himalaya, cui s’aggiunge la frustrazione di vedersi scavalcata nella corsa per le “autostrade delle acque” dalla più corposa smania di supremazia cinese. Cosicché i cospicui investimenti compiuti dai vertici indiani per la conquista dell’Oceano che porta il proprio nome - dove viaggiano due terzi del petrolio mondiale e una buona metà dei prodotti stipati nei container - paiono vani.  La Cina non ha mosso un passo durante il ventennio di presenza militare statunitense in Afghanistan, né vorrebbe farlo ora, sebbene i vuoti della geopolitica chiedano sempre d’essere riempiti. Ma rischia, proprio nello Xinjiang col terrorismo a sostegno uiguro del focoso Partito Islamico del Turkestan, e lungo quella ‘via della seta’ che attraversa valli afghane, a dominio talebano o dei presìdi dissidenti dell’Isis-K. Il gigante asiatico avrà certamente bisogno dell’eminenza grigia pakistana, fautrice di un ordine-disordine sintetizzato in nazione. Una nazione spregiudicata nel condizionare il subalterno vicino e chiunque gli si avvicini per qualsivoglia interesse.