Stavolta è la difesa di
Patrick Zaki
a prolungare i tempi. La prossima udienza a carico del ricercatore egiziano
dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, che si terrà sempre presso il
Tribunale di Mansura, slitta di dieci settimane (7 dicembre). Consentirà all’avvocata
di difesa Hoda Nasrallah di studiare ed esaminare appropriatamente gli atti
giudiziari di cui ha chiesto alla Corte copia del fascicolo. Finora li aveva
potuti visionare solo presso gli uffici competenti. La sentenza nei confronti
del giovane, che può essere emanata in qualsiasi udienza, riguarda la
“diffusione di notizie false” attraverso i social. Per tale reato la pena
prevista è fino a cinque anni di detenzione.
Secondo le leggi vigenti sotto il regime di Al-Sisi possono essergli attribuiti
anche il crimine di “minaccia della sicurezza nazionale” e quello di “terrorismo”,
per i quali la reclusione raggiunge i 25 anni e oltre. Sono due aberranti
percorsi repressivi con cui si sta cercando un capro espiatorio internazionale,
dal momento che il caso Zaki è diventato di dominio pubblico non solo in Egitto
e in Italia. Quaranta europarlamentari hanno firmano un appello per la sua
liberazione. Però il governo cairota, oltre a respingere ingerenze esterne su
questioni di sicurezza nazionale - questo affermano i giudici -, oppone al sostegno
di familiari, attivisti dell’ong Egyptian
Initiavive Personal Right, studenti dell’ateneo bolognese, Amnesty International, più qualche amministratore
emiliano e onorevole italiano, il proprio teorema accusatorio per creare un
esempio generale da applicare al futuro.
Come l’omicidio Regeni ha praticamente
azzerato studi sul campo e gli stessi reportage giornalistici in loco, la vicenda dello studente, che
rischia di restare venti mesi e forse più in prigione solo per avere espresso
un libero pensiero sull’abolizione del diritto di pensiero e di parola nella
grande nazione araba, rappresenta un monito al mondo, invitato a non
immischiarsi, e alla popolazione islamica, copta, laica che sia. Alla quale si
chiede fedeltà e prostrazione al presidente-golpista e oppressore pena il
rischio di non poter vivere neppure da sudditi silenti. E’ la storia di Alaa Abdel
Fattah, delle sorelle Sanaa e Mona, della madre Layla lui incarcerato, loro
fuggitive oppure a rischio di fermi e reclusioni che già si sono ripetuti. E si
tratta pur sempre degli episodi più conosciuti, riguardanti attivisti,
familiari, cittadini diventati, loro malgrado, celebri seppure all’interno del
tragico tunnel della repressione subìta e in corso d’opera. Eppure fra i
sessantamila detenuti di una fra le lobbies militari più potenti del globo ci
sono persone di cui nessuno parla, anche perché gli stessi avvocati dei diritti
non sono messi in condizione di poter conoscere casi, accuse, situazioni
generali e particolari del carcerato, talvolta neppure la galera dov’è stato
sepolto. Il balletto delle Corti può proseguire, e soprattutto l’angoscioso
sistema che ti rimanda ad libitum la
libertà e l’esistenza intera.
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