Fra i taliban le divisioni esistono, lo si sapeva da tempo. Al di là delle presunte sparatorie
di Palazzo, delle voci del ferimento del mullah Baradar poi riapparso in
pubblico con l’alibi d’un viaggio a motivazione della sua temporanea assenza, i
combattenti intransigenti sostengono di avere un debito col Paese, la sua gente
e la loro stessa organizzazione per i venti anni di guerriglia
sostenuti. E vogliono esser ripagati. Taluni studiosi della galassia coranica
confermano l’esistenza d’una profonda spaccatura che si sviluppa fra i
miliziani e prosegue sul territorio, compresi i luoghi d’origine e le famiglie
di provenienza dei guerriglieri. Ex esponenti di quella che fu l’Army National Forces lamentano azioni,
coordinate e singole, di studenti coranici
armati che sequestrano loro auto o abitazioni. Tutto ciò nonostante gli annunci
cantilenanti della prim’ora: non ci saranno soprusi verso chi vestiva la divisa
nel precedente governo. Proprio Zabihullah Mujahid - volto ufficiale talebano nella
famosa conferenza stampa del 17 agosto scorso - aveva enfatizzato le differenze
dalla corrotta conduzione del collaborazionista Ghani. Ma al di là della
frenesia dei giovani combattenti, contenuti nella possibile vendetta cruenta contro
chi gli sparava addosso se non fino a un mese prima perlomeno fino a un anno fa,
viste “le buone maniere di facciata” con cui l’Esecutivo dei turbanti non vuole
turbare il mondo su un territorio tornato all’Emirato, i combattenti chiedono
almeno di farsi un ‘sacrosanto bottino’.
Quello copioso l’hanno messo al sicuro Ghani e i suoi accoliti, sia i consumati
signoroni della guerra amici scappati via (Dostum), sia i nemici rimasti in loco
(Hekmatyar). Però il talib sa che pure l’ex ufficialetto ha il suo piccolo tesoro.
Fatto di gabelle che richiedeva in taluni check-point. Il miliziano lo sa
perché lui stesso l’ha preteso, e ricevuto, nei posti di blocco creati nelle
aree controllate. E’ il male comune d’un Paese che non cambia perché dipendente
dall’assistenza interessata, un tempo dall’Occidente, in futuro da chissà chi
altro. Gli Stati Uniti ritirandosi hanno congelato nove miliardi di dollari di
fondi internazionali necessari all’immediata sopravvivenza economica della
nazione, e nell’aria viziata dalle citate tare il vizio soggettivo continua a rimanere
radicato. A spargere sale sulle spaccature politiche interne sono i nomi noti
del radicalismo: mullah Yaqoob, il figlio di Omar, già comandante di punta
delle offensive di maggio ora ministro della Difesa del secondo Emirato. E
ovviamente Sirajuddin Haqqani. Seppure quest’ultimo abbia obiettivi più ambiziosi
che taglieggiare gli ex nemici. I suoi odierni avversari sono turbanti come
lui: appunto Baradar e il ministro degli Esteri Mohammad Stanikzai. Questi, originario
della provincia di Logar, quando l’Armata Rossa occupava l’Afghanistan faceva
l’apprendistato nell’Accademia militare indiana, quindi partecipò alla Jihad
antisovietica. E’ un uomo d’arme, ma non ha mai ecceduto nel militarismo, né
nel fondamentalismo confessionale. La coppia rappresenta il pilastro
diplomatico dell’attuale gruppo di potere, che diversi media hanno tacciato di
moderatismo.
Accanto alle etichette distribuite o guadagnate, parlano intenti e fatti. Più d’uno dei leader
dell’area di Kandahar non ha gradito la visita del potentato dell’Isi pakistano
Hameed che ha “mediato” a suo modo, contenendo le pretese degli Haqqani e al
tempo stesso offrendo al clan una sponda esplicita, superiore a quella lanciata
per anni sottotraccia nei territori delle Fata, dove tanta guerriglia talebana
ripara ed è nutrita. Anche un altro leader coranico, Mohammad Mobeen, ritiene
che il miglior futuro d’un governo tuttora provvisorio, potrà essere dettato da
una formula maggiormente inclusiva. E se qualche esemplare della vecchia
guardia dell’Afghanistan messo in soffitta – Karzai, Abdullah – risulta impresentabile e confligge col rigore
anti-Occidentale, altri totem d’un triste passato devono in qualche modo
rientrare in gioco. Uno potrebbe essere Hekmatyar, fondamentalista quanto basta
così da accontentare i più intransigenti della famiglia talebana, e soggetto
già in diretto contatto col potere iraniano. Questa sponda sostiene l’idea di
ampliare il governo con una rappresentanza etnica non solo di hazara a maggioranza
sciita, ma pure di uzbeki e tajiki. In tal
modo l’ingerenza pakistana che si vorrebbe far uscire dalla porta rientrerebbe
da due finestre: la prima aperta verso i cavalli di Troia di Islamabad, con gli
uomini dell’Isi in prima fila, la seconda coi jolly di Teheran. Sebbene
l’intera rissosa e incontentabile famiglia talebana i conti dovrà farli con le
schegge più incontrollabili che flirtano con lo Stato Islamico del Khorasan e
gli offrono uomini, fanatica fede, confronto e conforto.
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