Se l’Italia impegnata nel dettare i tempi politici, col presidente
Conte, e giudiziari, col pm Colaiocco, al regime repressivo e assassino del
presidente Al Sisi doveva ricevere l’ultima risposta sull’efferato omicidio di
Giulio Regeni dal clima che si respira al Cairo, purtroppo ogni speranza può
considerarsi vanificata ben prima della scadenza offerta del 4 dicembre. La
cartina al tornasole di questa tendenza viene dall’ennesimo rinvio a una
possibile scarcerazione di Patrick Zaky, legato egualmente al nostro Paese per
gli studi in corso a Bologna e dallo scorso febbraio trattenuto nelle carceri
egiziane. Lo sarà per i prossimi 45 giorni, questo hanno decretato i giudizi al
servizio di una giustizia di parte: quella voluta dal presidente-golpista dal
volto bonario e dal cuore perfido. Non ci meravigliamo. Saremmo rimasti
sorpresi di un’inversione di tendenza, pur sempre auspicabile, però impossibile
per quanto Sisi e la sua cricca hanno creato da anni. L’ex ministro della
Difesa, lì collocato nientemeno che dalla sua vittima politica preferita: il
presidente Morsi poi disarcionato, ha certamente uno staff di fedelissimi. Negli
ultimi anni, con la sedimentazione d’un potere personale sono venuti a galla anche il classico clanismo e i
favoritismi verso i familiari, come nella peggior tradizione dei raìs
mediorientali. Ma non si può né si devono sottovalutare i meccanismi
tradizionali in cui quest’autoritarismo personalistico si è innestato. Innanzitutto
l’appartenenza alla lobby militare, che è l’essenza dell’Egitto moderno, nato
dal putsch dei “Liberi ufficiali” nasseriani.
Da quasi settant’anni le stellette fanno il bello e cattivo tempo nella
vita politica, sociale, economica, civile e incivile della grande nazione araba
senza che islamisti (sempre perseguitati), laici, intellettuali e ogni
categoria possano bloccare quel potere. Quest’ultimo elegge capi, boss, raìs e
presidenti, nonostante esistano partiti, sindacati, istituzioni religiose
(islamiche e copte) che si trovano inevitabilmente a collaborare per la
conservazione di questo stato di cose. Chi non lo fa non può essere che
perseguito, come accade dal tentativo della grande spallata della rivolta 2011,
la cosiddetta primavera di Tahrir. Contro quel cambiamento, affinché i militari
(che nei mesi dell’utopica rivoluzione “guidavano” il Paese col Consiglio
Supremo delle Forze Armate) ricollocassero un proprio uomo ai vertici ufficiali
della nazione, contribuirono forze laiche, liberali, di sinistra, tutte unite
contro il pericolo della Fratellanza Musulmana. Nella propria inconsistenza
finirono per abbracciare la revanche militare e militarista di quelli che il
popolo ribelle individuava come i propri nemici: mukhabarat, poliziotti, militari, baltagheyah (picchiatori della malavita), feloul (nostalgici del vecchio regime). Fra costoro ci sono gli
spioni, i torturatori, gli assassini di Giulio Regeni. Ma prima del suo
sacrificio, c’è stato quello di migliaia di attivisti e oppositori perseguitati
dall’agosto 2013, per mesi, per anni. Poi anche di quella sinistra imbelle che
per incomprensione della realtà o per settarismo aveva scelto di stare coi
militari. Di accreditarne l’ufficializzazione nelle massime istituzioni laiche:
presidenza della Repubblica, ministeri, Parlamento. E’ noto come il sistema
consolidato da Sisi sia articolato, travalica la stessa lobby dei suoi
sottoposti, che lui mai svenderà per ragioni di democrazia, che ama calpestare,
di libertà, che vuole umiliare, di morale, che non conosce.
La rete, su cui ha costruito un potere anche personale, lo lega a quel mondo
perché egli ne fa parte. Ci si può illudere quanto si vuole, ma il capo di
questo sistema non rivelerà i domicili dei cinque agenti dell’Intelligence
individuati dai pm italiani. Coloro che hanno pedinato, sequestrato, fatto
fuori Regeni visto come simbolo dell’ingerenza della libera informazione
sull’Inferno egiziano che gli amici del presidente hanno creato in questi anni
su sua indicazione. E’ triste, ma è così. L’Italia, il suo attuale governo, la
nostra magistratura dovranno seguire propri percorsi, additare un uomo e il suo
regime, mettere davanti alle crude responsabilità un Paese, perlomeno quello
complice, vile o sottomesso che tiene sponda all’apparato dell’assassinio.
L’Occidente addormentato, simile ai
liberali e sinistorsi egiziani che non denunciavano i crimini dei militari del
Cairo già nel biennio 2011 e 2012, misfatti basati su stragi, sparizioni,
uccisioni, repressioni, imprigionamenti, sono stati svegliati dall’omicidio del
ricercatore friulano. Alla buon’ora!!! L’Egitto piangeva i suoi giovani da
anni, continua a piangerli giorno dopo giorno, come raccontano gli ultimi
giornalisti rimasti, gli avvocati dei diritti, gli operatori di ong ridotti al
lumicino. Per rompere quest’accerchiamento alla libertà, questo soffocamento
della vita che continua a colpire ogni parola, ogni pensiero l’unica via è la
denuncia di quel regime. Sisi non sarà mai un amico del mondo libero, l’ultimo
oppressore del popolo egiziano non può che cadere. Una leva alla rimozione
possono darla anche i premier occidentali che continuano a richiamare “libertà,
giustizia, onore” purché ne abbiano volontà e coraggio.