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mercoledì 11 novembre 2020

Nagorno amaro per gli armeni

Gridano contro il premier Pashinyan, i cittadini infuriati che hanno assediato i propri rappresentanti fin dentro il Parlamento armeno. Ma per il primo ministro l’accordo firmato con l’Azerbaijan sotto la supervisione di Mosca è l’unica soluzione praticabile. Anche a seguito della critica condizione militare sul campo di battaglia, dove i loro morti in divisa superano abbondantemente le mille unità. Del resto, dopo la perdita della città di Shusha, i margini di manovra per l’esercito di Yerevan erano minimi. Forti e ben equipaggiate sono apparse le Forze armate di Baku, non a caso negli ultimi dieci anni Aliyev ha investito cinque volte i miliardi utilizzati dall’Armenia per armamenti. Materiale che per entrambi proviene da forniture russe, sebbene l’Azerbaijan abbia potuto spendere ulteriori ‘fondi energetici’ per la tecnologia dei droni turchi e israeliani. Ma al di là di quel che s’è visto nelle sei settimane di battaglie, e di tregue fragilissime, il conflitto del Nagorno Karabakh non poteva durare perché i padrini dei due contendenti decidevano altro. Solo l’infatuazione patriottica poteva far credere agli armeni che Putin si sarebbe preso in carico la loro difesa sulla base della radice cristiana delle chiese armena e ortodossa. Al capo del Cremlino fa gioco tenere buoni rapporti col patriarca Cirillo I, ma al di là di combattere il fondamentalismo islamico quando serve e fa comodo, in Cecenia più che in Siria, non si lascia trascinare in conflitti d’orientamento religioso. E l’Islam sventolato dal mallevadore degli azeri, Recep Tayyip Erdoğan, ha più contorni geopolitici che intenti ideologico-confessionali. Nella sistemazione e ripartizione del Medioriente siriano i due capi di Stato si sono minacciati e poi abbracciati attuando una reciproca convenienza nel lasciare Asad al suo posto e ripulire il Rojava dai combattenti kurdi. Si sono poi misurati nel Mediterraneo libico dividendosi su chi deve governare lo scatolone di petrolio, ma tenendosi bordone nel rintuzzare le iniziative occidentali, francesi e italiane, egualmente rivolte a sfruttare la Libia per i propri interessi energetici. Nel Caucaso, dove passano pipeline ed esistono Paesi dai copiosi giacimenti di gas e pure di petrolio, i due autocrati molto più realisti e concreti di sedicenti statisti europei hanno valutato che spartirsi ruoli e bottini conviene assai più che mordersi a vicenda. Anche perché ciascuno conta un numero maggiore di nemici rispetto agli alleati. Per ora è così. Non è detto che duri. Ma non poteva certo essere il ‘giardino montuoso’, enclave contesa da un secolo, a far cadere il castello degli accordi economici e tattici tessuti nell’ultimo quinquennio.

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