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venerdì 20 novembre 2020

I bavagli di Sisi macchiati di sangue

Ha voglia il cantautore Ramy Essam - che quasi un decennio fa, faceva intonare Irhal (Vattene) all’intera piazza Tahrir sollevatasi contro Mubarak - a chiedere ai governi europei di rompere i rapporti con la dittatura di Al Sisi. L’intervista è di ieri, ai microfoni della Rai a seguito della consegna del ‘premio Tenco’ assegnato all’artista. Ma l’accorato appello difficilmente verrà raccolto da esecutivi che nell’epoca Covid guardano agli affari economici, non certo al dramma della repressione nel grande Paese arabo. Mentre Essam solleva il suo grido di dolore, e può farlo solo perché dal 2014 è fuggito dall’Egitto di Sisi di cui ha impresso sulla pelle la ferocia, l’apparato del presidente-golpista continua a colpire. Ieri sera è finito in galera Gasser Abdel Razek, direttore dell’Egyptian Initiative Personal Rights, struttura che da lunedì scorso s’è vista incarcerare il direttore amministrativo Mohamed Basheer e Karm Ennarah, responsabile della giustizia penale. La colpa del trio è d’aver incontrato nei giorni precedenti alcuni rappresentanti di Stati europei alleati del Cairo (Germania, Francia, Gran Bretagna) e un esponente del Canada. Il tema dei contatti verteva appunto sulla repressione e il totale disprezzo dei diritti dei propri cittadini da parte delle autorità egiziane. Un aspetto del tema coercitivo riguardava la pena capitale. Un recentissimo rapporto dell’Eipr denuncia la pratica di cinquantatre condanne a morte nel mese di ottobre, di cui il regime di Al Sisi s’è macchiato senza rivelare i luoghi delle esecuzioni. L’arresto dei tre esponenti dei diritti segue la consolidata prassi dei “quindici giorni” che vengono poi prolungati ad libitum. Anche l’accusa rivoltagli ricalca un copione prestabilito: diffusione di notizie false che incrinano la sicurezza nazionale. Ulteriore addebito è la presunta minaccia di rovesciare il sistema. Del resto dal ministero degli Esteri del Cairo si ammoniscono gli alleati occidentali a non rapportarsi a Ong e organismi (in genere dei diritti umani come HRW, che continua a lanciare appelli per la liberazione di oltre 60.000 prigionieri) “impegnati a screditare il buon nome dello Stato egiziano”. Lo Stato della distruzione delle identità non solo di oppositori e attivisti, ma di giornalisti, intellettuali, avvocati dei diritti e chiunque sia impegnato a rivelare gli effetti del sanguinario regime benvisto dai reazionari del Medio Oriente e del mondo. Tollerato dagli altri per vile affarismo.

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