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mercoledì 18 novembre 2020

Militari turchi affiancano quelli russi in Nagorno Karabach

Il Parlamento turco ha approvato il dispiegamento di proprie truppe nelle aree di confine del Nagorno Karabach, non è ancora certo se entreranno nell’enclave affiancando come ‘osservatori di pace’ i duemila militari di Mosca che Putin aveva inviato in quel territorio nella stessa nottata in cui i governi armeno e azero firmavano l’accordo di cessate il fuoco da lui stesso suggerito. Dipenderà dai patti che i potenti supervisori si daranno nei prossimi giorni. Comunque il presidente Erdoğan non voleva lasciare all’omologo russo, regista delle trattative fra i contendenti, l’unico vantaggio di schierare le proprie pedine in una zona sensibile fuori dai confini statali. Mosca e Ankara praticano da un quinquennio questa tattica, applicata sullo scenario siriano e libico, utilizzando milizie mercenarie nei momenti di battaglia e propri militari nei presidi di pace e pattugliamento, che restano occupazioni di fatto di territori. Pur noto per l’attivismo decisionista Erdoğan non perde il contatto con istituzioni e passaggi previsti dalle leggi, ottenendo peraltro un consenso trasversale fra varie componenti politiche interne. Sull’ultima crisi dell’enclave contesa da un secolo da Armenia e Azerbaijan, il presidente turco coglie l’occasione di accusare l’inconcludente politica estera del cosiddetto gruppo di Minsk (in cui è presente la stessa Russia, Francia e Stati Uniti) per aver congelato una situazione instabile per circa un trentennio, dopo il conflitto conclusosi nel 1994 con l’occupazione armena di vari distretti attorno al Nagorno, prima con l’esercito poi con nuovi insediamenti di popolazione. Ora queste aree verranno restituite al governo di Baku assieme a un pezzo del Karabach.

Come abbiamo visto dal mese di settembre, quando è stato avviato un nuovo scontro in maniera peraltro velleitaria da parte armena che ha pagato un’impreparazione militare, la Russia putiniana si è smarcata dall’Osce e ha fatto intendere a Erevan una sorta di protettorato ma non s’è impegnata in nessun intervento diretto. L’ingenuità del primo ministro Pashinyan - oggi autocritico, oltreché criticato e contestato in patria - e il revanscismo del nazionalismo armeno hanno scelto di attaccare gli avversari che hanno risposto militarmente in maniera più adeguata, anche per le maggiori risorse, ad esempio sul piano missilistico. Le battaglie di artiglieria terrestre e le azioni coi droni hanno seminato morte fra i civili, di entrambe le comunità, con peggiori conseguenze fra le truppe soprattutto armene che reclamano circa duemila vittime. Ma accanto ai danni delle bombe su abitazioni e beni s’aggiungono quelli causati dalla rabbia di chi abbandona le zone perdute. In questi giorni ci sono testimonianze di armeni che pur di non lasciare case agli atavici nemici, le bruciano. E distruggono anche altri beni intrasportabili. E’ quella linea segnata dal fuoco di pogrom, persecuzioni, vendette, riconquiste lunga secoli, che il nazionalismo richiama per non sanarla mai. Inutili sembrano anche le conclusioni dei padrini-mediatori che invocano “la collaborazione fra le comunità per l’interesse di tutti”. Mentre sono già in viaggio decine di migliaia di profughi volontari che s’allontanano da quello che per trent’anni è stata la “loro” terra, poiché non si fidano del futuro. La nazione armena rischia di vedersi invasa da troppa gente che non riuscirà facilmente a ricollocare nei propri confini. E le ferite non si rimarginano.

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