Al vermiglio del Sindoor indiano il Pakistan risponde col piombo della sua Bunyan Marsoos - struttura fatta di piombo - come viene tradotta l’operazione bellica di Islamabad. E se le ipocrite dichiarazioni delle reciproche rappresentanze politiche assicurano al mondo vicino e lontano che ciascuno aborre la spirale armata della crisi, sono proprio le rispettive potentissime lobbies delle stellette a soffiare sul fuoco della piaga riaperta con l’attentato di Pahalgam. Fra l’altro lo scambio di missili diretti teoricamente solo su strutture militari e caduti su abitazioni e luoghi di culto, anche fuori della contesa regione kashmira, dimostra come lo spunto preso dall’assalto terroristico anti indiano, ribadisce l’odio anti pakistano e con essi la furia fondamentalista hindu e islamista, specularmente armate cui s’affiancano le eminenze grigie in divisa. Ogni esercito indica gli obiettivi colpiti, da una parte se ne fa vanto, dall’altra accusa il nemico di quattro guerre e di decine di scaramucce a suon di bombe. Anche recenti. Negli elenchi diffusi in queste ore dai due Stati Maggiori risultano colpite: le basi aeree di Nur Khan presso Rawalpindi, Murid a 120 chilometri da Islamabad, Rafiqui nel Punjab pakistano. Di contro quelle di Drangyari e Udhampur nel Kashmir indiano, il sito di stoccaggio per batterie missilistiche a Nagrota sempre nel Kashmir indiano, quindi i campi militari di Pathankot e Adampur che vantano le batterie S-400 fornite da Mosca. I generali hanno rubato la scena a Modi e Sharif, il comandante dell’aeronautica di Delhi Singh fa l’agnellino dichiarando d’aver risposto all’aggressione pakistana, costituita da droni, missili e incursioni aeree dalla Linea di Controllo. E per ridimensionare gli attacchi subìti hanno smentito la versione pakistana che vantava la “distruzione delle basi di Udhampur e Pathankot”. Qual è la verità? Ognuno gioca la sua partita, erta di propaganda verso la stessa opinione pubblica interna aizzata non solo dal reciproco nazionalismo della Lega Musulmana-N di Sharif e del Bharatiya Janata Party di Modi, ma proprio dai comandi dei rispettivi eserciti.
Dei due blocchi contendenti la ciclopica India conta Forze Armate seconde solo alla Cina per numero di uomini, un milione e trecentomila, mentre la graduatoria delle armi la colloca al quarto posto, dopo gli Stati Uniti, primi assoluti per finanziamenti e arsenale. Il Pakistan ha un po’ meno della metà dei militari indiani, però i suoi uomini e anche donne, sono professionisti a tutti gli effetti, giudicati dagli esperti del settore decisamente efficaci. Motivati e orgogliosi naturalmente anche gli indiani, vantano accademie e spirito di corpo, oltreché arsenali in via di svecchiamento dopo il passaggio da forniture belliche russe a quelle statunitensi. Washington rivolge la strategia delle alleanze belliche in funzione anticinese già dalle amministrazioni Obama. Certo la mercanzia armata non manca nel mercato mondiale, fra i gioielli bruciati dai missili pakistani risulterebbero alcuni esemplari dei caccia francesi Rafale. Ma Delhi nega d’averli persi. Fra i super generali contrapposti al comando l’indiano Anil Chauhan, sessantaquattro anni, risulta meno inquietante. Già in quiescenza, è stato reincaricato dal premier Modi dopo una notifica governativa che dal 2022 ha consentito ai pensionati militari d’età inferiore ai sessantadue anni di poter essere ricollocati alla direzione delle Forze Armate. Più che all’arte della guerra i biografi ne sottolineano la passione per l’arte tibetana, la collezione di maschere etniche, la pratica del golf (sic). Ben più marziale il pakistano Asim Munir, cinquantasettenne salito ai vertici del proprio Stato Maggiore anche lui tre anni fa, per una sorta di ricompensa tutta interna al clan militare finito in un braccio di ferro con l’allora premier Imran Khan. All’epoca Munir era responsabile dell’inquietante agenzia Inter-Service, ma fu costretto a dimettersi per iniziativa del leader del Pakistan Tehreek-e Insaf, accusato di corruzione. La sorte cambiò direzione poco dopo: Khan finì sfiduciato dai suoi alleati di governo, quindi incriminato, vittima d’un attentato e infine incarcerato. Gli osservatori sostennero che la regìa delle oscure trame fosse nelle mani della lobby militare, da decenni padrona della scena politica interna. Perciò quando il ceto politico e i media indiani vedono nei militari di Islamabad i fomentatori del caos regionale godono d’un certo credito, compreso il sospetto dei legami col fondamentalismo jihadista. Mai smentiti dall’epoca del generale-presidente Zia-ul-Haq.
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