venerdì 9 maggio 2025

Il Pkk lascia le armi

 


Del marxismo storico, cui si richiamava fin dalla nascita nel 1978, il Partito dei lavoratori kurdi va a conservare l’arma della critica abbandonando quella delle armi. Infatti è attesa a momenti  la sua definitiva uscita dal conflitto armato con la Turchia. L’ha deciso un congresso interno dibattendo, con due delegazioni separate riunite per tre giorni in località diverse, l’invito del leader Abdullah Öcalan. Dopo svariati incontri proposti nello scorso autunno dal nazionalista Bahçeli, maggiore alleato nel governo dell’Akp, sedute cui ha preso parte anche l’attuale ministro degli Esteri di Ankara Fidan per molti anni al vertice dell’Intelligence, a febbraio Öcalan aveva definito lo scontro armato un retaggio del passato. Necessario alla lotta in una fase in cui la Turchia negava ai kurdi ogni diritto e riconoscimento d’identità, ma da tempo controproducente. Quel periodo era incardinato alla Guerra Fredda e al militarismo sfrenato che vedeva le Forze Armate di Ankara in prima linea nel condizionare la politica interna. Il presidente Erdoğan, intervenendo ieri a una riunione direttiva del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, ha sostenuto che tutti gli ostacoli sono superati: “L’organizzazione (militante kurda, ndr) sarà sciolta e inizierà una nuova era per tutti noi”. Dal suo canto Ayşegül Doğan, portavoce del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli la componente legalitaria kurda tuttora presente nel Parlamento nonostante le ripetute persecuzioni di suoi deputati tuttora reclusi, ribadiva l’arrivo d’una “decisione storica per il nostro popolo”. Tutti d’accordo, dunque, compresa l’ala cosiddetta militarista o comunque critica col pensiero dello zio Apo, come viene affettuosamente etichettato lo storico fondatore, ideologo e nell’ultimo ventennio rifondatore del raggruppamento, già prima di ridiscutere sull’uso della forza. Sue le aperture verso un federalismo creativo e comprensivo di riferimenti all’autodeterminazione, all’ecologismo, al femminismo. Occorrerà vedere quanto tollerato dallo Stato centrale e quanto praticabile nelle aree anatoliche del sud-est dove la quella comunità è maggioritaria. 

 

Il governo di Ankara in questi mesi, inseguendo tatticamente una conclusione favorevole delle trattive, ha concesso parecchie visite allo storico detenuto nel supercarcere isolano di Imrali. C’è stato anche un incontro ufficiale che non accadeva da dodici anni, fra Erdoğan in persona e i co-presidenti del partito Dem, Sırı Süreyya Önder e Pervin Buldan, quale ulteriore testimonianza del clima favorevole in atto. Poi giorni fa l’improvviso decesso per infarto di Önder sembrava facesse slittare un percorso quasi ultimato. Ma lo stato maggiore kurdo, quello legalitario e quello tuttora bollato di terrorismo, hanno spinto per la conclusione del dibattito e per la decisione finale. Al di là di prioritarie valutazioni di strategia politica, nel mostrare i limiti dell’armatismo del Pkk dotato di sole armi leggere, è l’evoluzione tecnologica che ha reso molto meno difendibili le postazioni sulle impervie montagne di Qandil. L’uso dei droni (i Bayraktar del genero di Erdoğan) che da un decennio impazzano nei conflitti locali, la possibilità d’un controllo elettronico dall’alto e dei conseguenti assalti bellici con tali mezzi rendono la presenza guerrigliera difficoltosa se non impossibile. Pur non essendo definito in che modo i miliziani consegneranno l’arsenale c’è chi ipotizza un’intermediazione irachena e proprio nell’area di Sulaymaniyah, un centinaio di chilometri da Kirkuk, dovrebbero insediarsi i leader del Pkk in attesa di sviluppi futuri su un loro impegno politico differentemente diretto. Le masse kurde s’aspettano di riabbracciare l’ormai canuto Öcalan, sebbene finora nulla trapelato né sul suo rilascio né su quello di leader non combattenti come Demirtaş. Liberazioni sul fronte del diritto auspicabili, per quanto il prezzo chiesto in cambio potrebbe riguardare quel ritocco costituzionale cui pensa Erdoğan per un ennesimo mandato presidenziale. Per quella corsa, con o senza İmamoğlu, alla coalizione di governo nel Meclisi mancano i numeri da richiedere appunto ai Dem. Arriveranno con questo disarmo?

mercoledì 7 maggio 2025

India fra vendetta e guerra

 


L’India lancia un attacco missilistico sulle abitazioni civili nelle aree del Punjab e Kashmir pakistani e fa una trentina di morti. Secondo Islamabad la cifra è più del doppio e assume la fisionomia dell’escalation militare. Non più le scaramucce, seguite all’attentato terroristico del 22 aprile, fra reparti dei due eserciti schierati lungo gli oltre settecento chilometri di confine che separano le rispettive giurisdizioni a nord e sud del Jammu e Kashmir. E’ voglia di guerra come nel 1949, nel 1965, nel 1971. Possibile? Possibile sì, secondo più d’un osservatore critico con la spirale nazionalista di Narendra Modi, da anni impegnato a esasperare i rapporti all’interno del suo Paese coi concittadini islamici e ora col Pakistan additato quale sponsor di vari gruppi di quel fondamentalismo. L’accusa non è ideologicamente neutrale visto che il premier indiano e il suo Bharatiya Janata Party incarnano e propugnano un altro fondamentalismo, quello del peggior induismo. Il leader che propone il Bharat come potenza mondiale ha ripreso e rilanciato il suo peggiore spirito incancrenito dai germi fascisti e razzisti dell’hindutva, che fa dell’etnìa e della religione il fulcro per selezionare gli indiani puri. Era un pensiero diffuso all’avvìo del Secolo Breve, pur distante migliaia di chilometri dal coevo nazionalismo europeo che originò fascismo e nazismo ne ripercorre alcuni obiettivi, inserendoci l’elemento confessionale. L’India moderna dei padri Ghandi e Nehru che avevano tenuto a freno tale deriva ideologica, non fa più presa sulla maggioranza d’una nazione che insegue potere, denaro, supremazia e deve trovare nemici per compattare il suo sogno di primato. Così i modelli o gli interlocutori politici di Modi diventano quegli autocrati di cui un buon pezzo di mondo sente bisogno. Non importano latitudini o tendenze culturali, può piacergli l’ortodosso Putin o l’islamico (ma non vicino di casa) Erdoğan, come lo sceriffo degli affari Trump. L’essenziale è primeggiare, a fianco di chi si vedrà di volta in volta. 



Fra gli stragisti in attività Modi deve avere un debole per Netanyahu, e per l’efficienza criminale d’Israele, se ne imita la via comunicativa etichettando operazioni di guerra con epiteti a effetto. L’attacco di stanotte l’ha definito Sindoor, un simbolo femminile tutt’altro che bellico, poiché indica la condizione delle spose hindu che si colorano di vermiglio la fronte così da essere riconosciute. Il governo di Delhi l’ha utilizzato per ricordare che le turiste indiane assalite coi loro uomini a Pahalgam sono rimaste vedove perché i partner sono stati sterminati a sangue freddo dai terroristi, probabilmente jihadisti. C’è un mistero sull’attacco rivendicato dopo due giorni da un sedicente Fronte della Resistenza, che gli analisti considerano una costola dissidente della più nota organizzazione deobandi Lashkar-e Taiba, peraltro negli ultimi tempi poco attiva. Un successivo comunicato del gruppo ha smentito il primo comunicato, facendo ipotizzare giochi d’Intelligence piuttosto ricorrenti in Pakistan. Eppure al di là di supposizioni e accuse i servizi segreti indiani in due settimane d’inchiesta non sono riusciti a raccogliere prove non solo sull’identità dell’attacco jihadista ma su presunti aiuti e coperture dello Stato o dello ‘Stato profondo’ pakistano. Probabilmente a Delhi non servivano conferme, bastavano le congetture per poter sferrare l’attacco cui però fa seguito l’affermazione che non seguirà un’escalation. Eppure per tradurre in realtà la dichiarazione occorrerà attendere l’eventuale risposta delle poco arrendevoli Forze Armate pakistane. Il futuro è aperto. Per ora si sa che i nove siti colpiti, di cui quattro nel Kashmir, sono dichiarati da Islamabad obiettivi civili, e se notizie d’agenzia rivelano che fra costoro ci sono alcuni familiari del leader d’un altro gruppo jihadista, Jaish-e Mohammad, per Delhi è la conferma di come il governo guidato da Sharif tolleri la presenza terrorista sul suo suolo. 

 

La presenza di migliaia di madrase (all’apice della virata islamista del Paese se ne contavano quarantamila) che divulgano le posizioni più radicali delle teorie deobandi non è un mistero, ma proprio il ceto politico e la casta militare pakistani nel tempo hanno sostenuto una battaglia anche armata contro i gruppi del fondamentalismo. La realtà è che uno speculare fondamentalismo confessionale è in atto nella nazione indiana, prendendo spunto dalla fede hindu per sostenere xenofobia e purezza razziale contro concittadini musulmani e cristiani (che superano i trecento milioni di fedeli) e altre minoranze meno numerose. E’ questa la miccia che può far esplodere serbatoi di fanatismo collocati in templi dedicati a Shiva o in scuole coraniche. Un nuovo conflitto che infiamma un altro angolo del mondo non sarebbe auspicabile per una diplomazia internazionale debole che, al di là di leader implicati con le proprie scelte in grovigli bellici, non mostra negoziatori carismatici. In più da tempo le guide indiana e pakistana risultano silenti fra loro, e questo non è un segnale rassicurante. Una potenza regionale angustiata da non pochi problemi qual è l’Iran, cerca di sminuire l’attrito e potrebbe lavorare per una distensione, se potrà agire. Mentre le storiche alleanze di supporto, americana verso il Pakistan e russa verso l’India, hanno perso impatto e stabilità. Proprio l’arrivo alla Casa Bianca di Trump ha spinto Modi ad avvicinarlo e omaggiarlo, con conseguente narciso gradimento del numero uno statunitense che pensa a un uso anticinese di questi nuovi approcci. Pechino che cinque anni addietro aveva avuto con Delhi contrasti nella gelida terra del Ladhak, situata nel territorio kashmiro indiano nella catena occidentale himalayana, come fa spesso sta a guardare. I rinnovati equilibri internazionali lo danno vicino al Pakistan anche sul versante delle forniture belliche che gli Stati Uniti hanno ridotto a Islamabad. Ma oltre gli intrecci geostrategici è il grande business delle multinazionali armate, ampiamente guidato da aziende americane (Lockeed Martin, Boeing, Raytheon Technologies, ecc.), a sorridere dei nuovi attriti del mondo.

martedì 6 maggio 2025

Israele, contrastare il nucleare iraniano, incentivare il massacro gazawi

 


Il rinvio del quarto incontro sul nucleare iraniano, che doveva tenersi nuovamente a Roma alla fine della scorsa settimana e che è slittato in data da destinarsi, è direttamente collegato alle richieste di Netanyahu all’amico Trump. Il premier d’Israele punta a convincere il presidente americano a riprendere la via del rifiuto d’un accordo, come aveva fatto nel 2018 ritirandosi dal cosiddetto ‘Piano d’azione congiunto globale’. L’approccio da buon statista con cui il tycoon sta affrontando nella sua seconda amministrazione alcuni intrighi mondiali, autoproclamandosi ‘paciere’ sul fronte ucraino e mediatore per la questione del nucleare iraniana, vede l’alleato sionista spingere per il fallimento dell’accordo con Teheran. Bibi propone a Donald due opzioni. L’azzeramento della produzione nucleare anche per uso civile, che peraltro l’Iran non accetterà mai. L’attacco ad alcuni siti sul territorio iraniano: centrali che processano l’uranio (Arak, Isfahan), oppure lì (Fordow, Natanz) dove avviene l’arricchimento dell’uranio ormai giunto a un avanzato grado o ancora direttamente ai reattori di Bushehr e Teheran. Trump ha tamponato, per ora, le bollenti intenzioni del governo di Tel Aviv, sostenendo la bontà della richiesta lanciata dal suo uomo, Witkoff, al negoziatore iraniano Araghchi: contenimento e possibile riduzione delle sanzioni economiche a fronte d’un freno all’arricchimento dell’uranio. Un baratto momentaneo e parziale, ma pur sempre un atto di reciproca buona volontà. E’ su questa linea, pur minuta, che le delegazioni dibattono da circa un mese con la mediazione messa a disposizione dal sultano omanita che le ha finora ospitate a Mascate e nella sede consolare di Roma. Eppure il prosieguo degli incontri è saltato, e non per il botta e risposta fra i “partigiani di Dio” yemeniti che hanno bucato la Cupola di ferro della difesa dai missili d’Israele, facendo cadere un proprio ordigno a poche decine di metri di una delle torri di controllo dell’aeroporto Ben Gurion. 

 

Quest’attacco, che ha provocato allarme ma non vittime e a cui l’aviazione israeliana ha risposto nelle ore seguenti facendone invece a sua volta, avveniva domenica 4 maggio, dunque il giorno successivo alla data del tavolo romano, prevista per sabato 3, e già in precedenza cancellata. Perché la pressione di Netanyahu su Trump per la riapertura del dibattuto nucleare iraniano, è elevatissima. Paradossalmente il leader israeliano sul tema aveva trovato maggiore accoglienza in Biden, al di là delle capacità intrinseche dei negoziatori della controparte, dove l’attuale Araghchi mostra una plasticità diplomatica che l’avvicina a Zarif (mediatore dal 2013 al 2021) rispetto al successore il generale Baqeri. Del resto gli accordi si fanno in due e lo stesso navigato Zarif poco poté davanti alla chiusura unilaterale statunitense incarnata proprio dal primo Trump. Ora la questione appare diversa: l’Iran è fortemente ridimensionato nelle sue mire di potere regionale per quanto sta succedendo da due anni e mezzo nella Striscia Gaza, in Libano, per i nuovi assetti del potere siriano; per tacere dei colpi interni subiti fra attentati, uccisioni di esponenti di rango delle Guardie della Rivoluzione, e offre segnali di oggettiva debolezza dei propri apparati della sicurezza. Perciò l’opzione scelta da Trump è stata il dialogo. Certo se diventerà infruttuoso, potranno riaprirsi i desideri d’attacco diretto ai siti di lavorazione nucleare che Israele vagheggia. Sebbene, parlando di Natanz, i locali sotterranei dove si pratica l’arricchimento dell’uranio a oltre cento metri di profondità risultano irraggiungibili anche usando la superbomba statunitense Gbu-43. Ma quest’arsenale, si parla d’una ventina di ordigni dal costo di 16 milioni di dollari ognuno, è in mano all’US Army non all’Idf. Per ora l’amico Trump fa sfogare Netanyahu su Gaza con quel che ha ed è bastato per raderla al suolo. Nulla ha controbattuto Washington alla decisione di Tel Aviv di spazzare la Striscia con una mega invasione per la definitiva espulsione di quanti più palestinesi è possibile. L’idea del resort resta in piedi. Chi fra i quasi centomila minori gazawi malnutriti vivrà, lo vedrà dai futuri campi profughi.

mercoledì 30 aprile 2025

Il rito fascista del “Presente”

 


Si potrebbe domandare - il giornalismo giovane e pluralista può farlo, noi che abbiamo conosciuto il neofascismo dagli anni Sessanta agli Ottanta abbiamo qualche idiosincrasia - ai possessori di quelle braccia tese che per l’ennesimo raduno (ma i cinquant’anni di ieri erano un’occasione speciale) perché il ricordo di Sergio Ramelli debba prevedere il rito fascista del “Presente”. Perché? In attesa di risposte originarie, lanciamo considerazioni dirette. Perché i neofascisti del Terzo Millennio considerano lo studente Ramelli un camerata da onorare. Un camerata che negli anni Settanta anziché valutare con gli occhi d’una nazione risollevata dalle macerie create dal Fascismo, si metteva a rimpiangerlo. Non studiava la Storia il giovane Ramelli? Non sappiamo. Certo, s’era infilato nella militanza di chi dalla Storia non voleva imparare nulla. Colpa solo parzialmente sua, poiché il pluralismo democratico rinato con la Liberazione dal Fascismo aveva ‘sdoganato’, ben prima delle idiozie delle ‘ragioni dei ragazzi di Salò’ (ragazzi anch’essi, ma dediti alla tortura e fucilazione di partigiani e civili) i rimasugli di quel regime che rientravano nella quotidianità. Vi rientrava non tanto l’ex fascista del così son tutti o dell’opportunismo generalizzato che aveva caratterizzato il Ventennio. Vi rientravano il gerarca, il razzista, la canaglia, il carnefice. Non avrebbero avuto agibilità i Graziani, gli Almirante, i Caradonna padre e figlio, i Borghese. Ma l’Italia, ancora ferita dal nazismo e dal servilismo della Repubblica Sociale, prendeva la via dell’accettazione dei vinti, che con l’alibi del proprio sangue ne avrebbero fatto versare ancora molto negli anni a venire. Ma questo nelle sezioni del Fronte della Gioventù, manipolazione missina d’una precedente denominazione politica antifascista, non si discuteva. Anzi, l’odio e la vendetta erano i pilastri dei programmi para nostalgici delle nidiate adolescenziali missine. 

 

Se fosse un uomo l’ammetterebbe un missino della seconda ora, per i loschi giochi della politica incredibilmente salito a un'apicale carica dello Stato. Ignazio Benito Maria La Russa. Che anch’egli in un Aprile, il Dodici del Millenovecentosettantatré organizzava coi camerati un raduno proprio a Milano, pur sempre città medaglia d’oro della Resistenza. Si trattava d’una protesta contro la violenza (sic) fatta da mazzieri e guidata dal boss della rivolta di Reggio Calabria, Ciccio Franco. Di quell’adunanza paramilitare preparata, decretò la Questura, con pistole e bombe a mano, i deputati missini Servello e Petronio erano gli artefici, mentre La Russa, leader del Fronte della Gioventù, risultava il responsabile della piazza. In quella piazza, lungo varie strade del centro (viale Romagna, via Bellotti, via Kramer) si riversò il vandalismo dei partecipanti, aderenti anche a Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Fino all’epilogo: il lancio di due bombe a mano in dotazione dell’Esercito, procurate si seppe dallo stragista fascista Nico Azzi, una delle quali squarciò il petto dell’agente del Terzo reparto Celere, il ventiduenne Antonio Marino. Dopo le indagini furono arrestati e condannati gli esecutori materiali dell’omicidio, Loi e Murelli, sanbabilini iscritti al Movimento Sociale Italiano, anch’essi ventenni. I deputati Servello e Petronio vennero schermati dal Parlamento che non concesse l’autorizzazione a procedere richiesta dalla magistratura; anche la responsabilità politica di La Russa su quel fatto di sangue passava in cavalleria. Era la Milano non ancora da bere, ma da lacrimare per la violenza praticata dalla strage di Piazza Fontana in poi. In quel fervore e nelle speranze connesse si perdevano vite. E’ servito per una riflessione storica e politica del passato remoto e prossimo? Non sembra. Non lo capiva Ramelli, vittima dell’infatuazione neofascista proprio quando i neofascisti insanguinavano il Paese, non l’accettano gli odierni camerati. Per far cosa non lo dicono neppure, nella nebulosa d’un superomismo esoterico che vagheggia il nulla, artigliano solo croci celtiche e nuovi labari, insozzando il tricolore. Presenti sì, ma uomini no, proprio come scriveva Vittorini.

martedì 29 aprile 2025

Modello Gaza per il Kashmir

 


Bisognerà capire se l’isteria che sta montando attorno all’attentato di Pahalgam nel Kashmir indiano, che di sangue ne ha sparso e di tensione pure, potrà rimanere circoscritta senza ulteriori picchi o se si è davanti a un’escalation su cui l’opinione pubblica e certi estremismi organizzati, istituzionali e non, già preparano un livello di violenza ulteriore e superiore. E’ il mondo indiano, colpito e scosso, che lancia pericolosi segnali. A cominciare da quelli attuati da reparti dell’esercito di Delhi che nella zona  dell’attentato hanno aperto il fuoco e demolito abitazioni dove ci sarebbero presunti terroristi islamici o famiglie fiancheggiatrici. Prove scarse o inesistenti, ma vendetta innescata. Come quella che denunciano kashmiri musulmani espulsi in queste ore da case che proprietari di fede hindu non vogliono più affittargli. O quelli pestati per via che accompagnano esibizioni di pura intolleranza, sempre a sfondo confessionale, organizzate da gruppi politici e paramilitari indiani. Shev Sena, fra i sostenitori dell’hindutva assieme al Rashtriya Swayamsevak Sangh, le inscenano in varie località bruciando bandiere pakistane e aggredendo musulmani. Il governo di Islamabad nega ogni copertura agli attentatori fondamentalisti (Lashkar-e-Tayyiba o altri) e comunque non è disposto a subire accuse infondate e ricatti di Delhi, come quello sul blocco delle acque del bacino dell’Indo (minaccia peraltro la cui attuazione è tutta da verificare). Frattanto anche i propri orgogliosi, puntigliosi e intriganti militari si pongono in stato d’allerta puntando armi sul chilometrico confine interno fra le aree kashmire reciprocamente controllate. Mentre la stampa d’opposizione indiana lancia un’ipotesi che sui social tracima e dilaga con ogni sorta d’aggiunta. 

 

Non è, non può essere una similitudine, ma si propone un sospetto: come per l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, Israel Defence Forces s’è fatto cogliere volutamente “impreparato” anche nella vallata di Pahalgam i numerosissimi paramilitari indiani, ovunque presenti e vigilanti, sembrano aver voltato la testa altrove. Per creare il precedente dell’aggressione sanguinaria? Non ci sono certezze, ma ipotesi tante, sostiene la stampa anti Modi. Oppure il governo di Delhi, che da circa un lustro ribadisce di controllare ogni angolo dell’area attorno a Srinagar  proprio per sostenere turismo e affari a vantaggio di molti ma non dei kashmiri islamici, sta bluffando sulla sicurezza, e mobilita un’infinità di divise non in funzione antiterroristica bensì per l’ordine pubblico interno. La congettura gira su alcune testate, sui social, per ora nessun partito indiano la riprende per inchiodare Modi e il suo staff, a cominciare dal ministro dell’Interno Shah. Invece il riferimento alla vicenda di Gaza balza nella mente dei militanti più estremisti dell’hindutva che invocano un “metodo Israele” anche per il Kashmir, inteso come pratica della terra bruciata e di annientamento della presenza islamica nella regione. Certo, si tratta dello sfogo più fascista e sciovinista che la rete raccoglie e rilancia, ma è il ventre immenso di quella politica che ha trovato sponda nel partito di governo, Bharatiya Janata Party, e vuole omologare la società indiana con ogni mezzo, lecito o meno. E’ il prosieguo di quanto l’entourage di Modi coi suoi predicatori arancioni sta diffondendo da anni. Il caso più noto e infuocato riguarda il premier dell’Uttar Pradesh Yogi Adityanath, che come altri monaci siedono in Parlamento e vogliono radere al suolo qualsiasi convivenza verso minoranze non così minute come i duecentocinquanta milioni d’islamici e i sessanta milioni di cristiani indiani.

lunedì 28 aprile 2025

Kashmir, tensioni e tentazioni

 


Mentre sotterra il papa della pace, il mondo della guerra è già pronto a rinfocolare incendi. In questi giorni India e Pakistan rilanciano antichi contrasti capaci di rinfiammarsi sull’onda del fondamentalismo istituzionale. I due nient’affatto benevoli vicini, da decenni un contro l’altro armati come prolungamento orientale della trascorsa Guerra Fredda, restano con arsenali ricolmi di testate nucleari, centosettanta a testa sostenevano statistiche certamente da riaggiornare, in peggio. In base a passati conflitti, l’ultimo lontano più di mezzo secolo (1971), si dice che anche nei momenti di crisi come l’attuale i due vicini mimino lo scontro armato senza volerlo rilanciare. Sarà. E’ anche vero che le reciproche guide politiche - l’induista Modi a Delhi, l’islamico Sharif a Islamabad - all’apparenza compassati e malleabili con vari partner internazionali per commercio e cooperazione, inseguono ben altri disegni interni e regionali. Che in questa fase hanno conosciuto in alcuni territori rissosamente condivisi, qual è il Kashmir, il perfetto terreno dell’urto indiretto. I sanguinosi avvenimenti della scorsa settimana ne sono una riprova. L’assalto stragista su visitatori inermi vuol infliggere alla piattaforma turistica indiana un colpo che può fungere da freno, dopo la ripresa del settore uscito dagli stop forzati della pandemia. Nel Kashmir, cosiddetto svizzero per vallate lussureggianti e vette imbiancate, non ci sono soltanto bellezze naturali. C’è una cospicua fetta di abitanti islamici che subisce i contraccolpi della cancellazione dell’autonomia amministrativa decisa dal governo centrale di Delhi e una conseguente discriminazione nell’occupazione quotidiana schiacciata ed emarginata dall’affarismo turistico promosso e protetto dalla politica del Bharatiya Janata Party. Esaltatore dell’India induista contrapposta ai musulmani interni e d’oltre confine. 

 


Eccolo, dunque, il nocciolo del problema in un contesto che non è più la conservazione dell’identità indipendente che i padri delle rispettive patrie, il pakistano Jinnah e l’indiano Nehru, andavano predicando nell’immediato Secondo Dopoguerra. E’ qualcosa di peggiore, ricomparso nell’epoca del fallimento del laicismo politico e nel recupero d’un confessionalismo introdotto in maniera più o meno smaccata nelle Istituzioni. Il Pakistan l’aveva fatto nel decennio di dittatura del generale Zia-ul-Haq (1978-1988), favorendo l’islam più fanatico di talune madrase deobandi, nella provincia Khyber Pakhtunkhawa resta famosa la Darul Uloom Haqqania, tuttora attivissima, nella quale si sono formati capi talebani come il mullah Omar e l’attuale clan Haqqani denominato appunto da tale scuola. L’India di Narendra Modi lo sta facendo da circa un ventennio agganciandosi all’hindutva teorizzata agli inizi del Novecento dall’ideologo razzista Savarkar. Due orientamenti che strumentalizzano le fedi islamica e induista conducendole a interpretazioni fanatiche ed esclusiviste. Il richiamo citato agli arsenali bellici dei due Stati, che nascevano quando nel mondo bipolare della “pace armata” ciascuno cercava, e facilmente trovava, alleanze per il tornaconto di tutti aveva dato l’assenso e la fornitura atomica a Delhi da parte sovietica, a Islamabad da parte statunitense. Purtroppo quell’arsenale è rimasto e si è ampliato, mentre i due Paesi asiatici hanno conosciuto esplosioni demografiche e mercantili che li rendono protagonisti non solo in ambito regionale. Al di là di minacce-contro lanciate da premier megalomani (Modi) o politicamente instabili (Shahbaz Sharif), i due leader stanno usando a scopo interno i contrasti attuali. Cosicché Delhi ricorre al ricatto di bloccare il flusso delle acque dell’Indo per incrinare la produzione agricola pakistana assolutamente dipendente da quell’irrigazione; i militari di Islamabad, non da oggi i veri padroni di chi siede al governo, mirano a rafforzare la propria influenza utilizzando l’armatismo jihadista come quello dei probabili esecutori dell’attentato a Pahalgam, i miliziani di Lashkar-e-Tayyiba. Autonomi ma fino a un certo punto, perché forniture e coperture dell’Intelligence di Stato fanno sempre comodo, utili quando assaltano obiettivi indiani oppure destabilizzano il quadro politico interno, si chiami Sharif, Bhutto o Khan.

sabato 26 aprile 2025

Governo siriano, duri, puri e aggregati

 


Velleitario, presuntuoso, realista Ahmad al-Sharaa - già Abu Muhammad al-Jolani, leader del gruppo salafita Jabhat al-Nusra e poi di quello islamista Tahrir al-Sham - viene variamente etichettato da osservatori e analisti in base al “lavoro istituzionale” con cui punta a offrire alla Siria post Asad un nuovo governo. Il percorso è tutto in salita per i cento e uno problemi, le spaccature e divisioni interne ai gruppi etnico-religiosi presenti fra la popolazione scampata a tredici anni di conflitto e stragi, e le mire che potenze attigue e potenze mondiali continuano a mantenere nei confronti del territorio siriano. I passi politici annunciati da al-Sharaa parlano di: unità nazionale e convivenza civile, ricostruzione statale ed economica, e già bastano per un percorso che potrebbe durare anni. Il primo obiettivo è incappato, ad appena tre mesi dalla liberazione dal clan Asad, in un grosso intoppo. Una ribellione messa in atto nell’area abitata dagli alawiti fedeli all’ex regime - Tartus e dintorni - da gruppi armati nostalgici di Bashar. E’ finita nel sangue. Di tanti cittadini. L’attuale governo ha dichiarato duecentotrentasette vittime, l’Osservatorio siriano dei diritti umani è salito fino a duemila. La realtà è che il Paese è parzialmente controllato e non pacificato. E se un’altra comunità, quella drusa, si è anch’essa risentita col governo, usando armi da fuoco ma senza grandi spargimenti di sangue, alcune famiglie druse collocate nelle alture del Golan, dove Israele ha ulteriormente ampliato la pluri cinquantennale occupazione, si mostrano disponibili all’annessione. Tel Aviv ha lanciato l’amo pure alla comunità kurda, così da minare ulteriormente la precaria stabilità che Damasco prova a cementare, ma è rimasta spiazzata dall’avvicinamento, parziale e magari temporaneo però concreto, fra al-Sharaa e il leader delle milizie del Rojava Mazloum Abdi. L’accordo fra i due non entra nel merito del futuro di quei territori, prevede il mantenimento delle milizie delle Forze Democratiche Siriane all’interno di quelle governative, incentrate sulle truppe di Tahrir al-Sham. Durerà? E cosa dirà Washington per anni procacciatore di armi per Sfd? Nel percorso necessariamente in divenire al-Sharaa sembra tenere la barra dritta. Gli embarghi che avevano portato fame, perlomeno nei territori occidentali controllati dai ribelli jihadisti, potrebbero attenuarsi. 

 

Da parte dell’Unione Europea c’è disponibilità di revoca delle sanzioni sul fronte energetico e delle attività finanziarie se il Paese camminerà verso una democratizzazione che vuol dire elezioni libere in breve tempo, mentre Mosca che dalla fuga di Asad ha ritirato i ‘consulenti militari’ e sospeso le forniture di cereali potrebbe riproporle assieme a forniture energetiche se le basi aeree e navali fra Latakia e Tartus continueranno a ospitare le istallazioni russe. Il pragmatismo dell’ex jihadista Jolani potrebbe renderlo possibile. Ma la popolazione interna ha bisogno di case, ospedali, scuole e strade. Le petromonarchie, che di denari ne hanno a iosa e sono disponibili a prestiti, mostrano un cauto ottimismo sul nuovo corso di Damasco, anche i buoni uffici espressi dalla Turchia di Erdoğan stabilizzano la posizione personale di al-Sharaa. Certo, c’è il rovescio della medaglia lungo le centinaia di chilometri di confine diventata ‘zona cuscinetto di sicurezza’ in funzione anti Rojava e attuata già dal 2019, e come detto fra al-Sharaa e Abdi c’è stato un avvicinamento che non piacerà ad Ankara. Ma il presidente siriano di transizione sembra attuare, finché gli risulterà possibile, una linea di passi misurati e concreti, se questa andrà incontro a nodi dovrà decidere come e in quale modo scioglierli. Per garantire un andamento tranquillo al nuovo esecutivo formato da ventitré membri s’è affidato a un terzetto di fedelissimi cui, come fan tutti i leader in ogni angolo del mondo, ha consegnato i ministeri chiavi. Difesa all’ex responsabile militare di Tahrir al-Sham, Murhaf Abu Qasra; Interni al capo dell’Intelligence del governo di Idlib Anas Khattab; Esteri ad Asad al-Shaybani uno dei fondatori di Hts. I brividi che questi nomi suscitano in molti, poiché sotto gli attuali doppiopetto e cravatta permangono mimetiche un tempo messe al servizio di Qaeda, sono compensati dagli incarichi d’un poker di ministri professorali, ben lontani dal mondo jihadista. Al dicastero dell’Economia c’è Mohammad Nidal al-Shaar, già docente presso l’Università di Aleppo e già ministro economico fra il 2011 e 2012 durante il vecchio regime. Alla Giustizia Mazar Abdul Al Wais, passato dallo studio del Diritto Islamico alle prigioni di Asad poi dal 2017 membro del Consiglio Giudiziario Supremo sino alla definitiva liberazione nazionale. Alle Finanze Mohammad Yusr Barniyeh, economista del Fondo Monetario Arabo dopo trascorsi da tirocinante presso la Federal Reserve Bank newyorkese, infine al ministero del Lavoro e Affari sociali la ricercatrice e attivista Hind Kabawat fondatrice di Tastakel, organismo femminile rivolto alla non violenza per la soluzione del conflitto siriano. Anche in questo caso un perfetto mix di passato tuttora considerato terrorista dall’Occidente e non solo, e aggregazioni pluraliste con cui la nuova Siria prova a volare in un Medioriente sempre squassato e insidioso.