sabato 28 giugno 2025

Il lutto e l’orgoglio

 


Si sono stretti in decine di migliaia, certamente fiancheggiatori del regime, ma con tutta l’ehsas, l’emozione, della propria cultura e della tradizione sciita. Hanno abbracciato le bare di fratelli illustri, scienziati del programma nucleare, comandanti pasdaran  e anche cittadini comuni, stroncati dalla cosiddetta “guerra dei dodici giorni”, com’è stata definita l’aggressione aerea israelo-statunitense al territorio iraniano. La tivù nazionale ha insistito nel divulgare immagini di donne in chador nero, e anche volti giovanili rigati di lacrime e profonda commozione. Alla mestizia della celebrazione s’accompagnava la fierezza (ghroor) della cittadinanza di Teheran, capitale indifesa che ha subìto lo sfregio dei caccia d’Israele liberi di colpire dal 13 giugno caserme dei Guardiani della Rivoluzione ma pure ordinari condomìni. Dove l’esistenza scorreva, magari monotona e perfettibile ma non prostrata a chi insegue l’imposizione d’un nuovo governo preconfezionato dai missili. Così fin dai primi attacchi anche parecchi oppositori agli ayatollah hanno rinnegato quella “liberazione omicida”, mentre stamane i fan di Khamenei e dintorni ripetevano gli slogan di “Morte al sionismo e all’America” che risuonano da decenni nelle città e nelle campagne persiane. Un orgoglio sincero, partito dal basso, senza i calcoli politici come quelli, peraltro legati più al proprio destino, espressi dalla Guida Suprema il giorno precedente, quando addirittura rivendicava una vittoria del suo Paese su Tel Aviv e Washington. Tutti, anche i sostenitori, hanno avuto sotto gli occhi la fallimentare gestione della sicurezza interna, la capacità d’infiltrazione israeliana, la connivenza e la svendita della propria nazione da parte di cittadini e anche uomini d’apparato che nei mesi scorsi hanno consentito clamorosi attentati fin dentro le strutture e le aree dell’apparato pasdaran

 

Un gruppo di potere che, se vorrà resistere e continuare ad esistere, dovrà sottoporsi a epurazioni e depurazioni da quegli elementi infedeli incardinati in organi vitali. Falle, che la dicono lunga sulla debolezza del sistema vigente, unite alla crisi economica che non permette di stare al passo con le accelerazioni tecno-digitali della guerra contemporanea, incentrata su elettronica e armi sofisticatissime e costosissime, cui tante nazioni devono rinunciare per carenza di denaro. Nella comunità iraniana resta la fede, non necessariamente religiosa, intesa come fiducia in sé stessa, nell’entità di popolo dignitoso che, come accade alla stirpe più straziata del Medio Oriente - i palestinesi - risulta l’attuale vittima designata della violenta arroganza sionista e statunitense. Stamane Teheran, o un pezzo di essa, ha pianto i generali Salami e Hajizadeh, ha lacrimato per il breve leader pasdaran Bagheri e il ricercatore Tehranchi. Ha soprattutto ricordato che il gioco di guerra voluto da Netanyahu e Trump sui cieli d’uno Stato sovrano ha inanellato 627 martiri, volontari e no. Per chi li ricorda in piazza restano martiri, come Hosseini, meritano rispetto, onore e c’è chi pensa alla vendetta. Non certo i proclami di prammatica del vecchio Khamenei, ma dell’ala dura del partito combattente che, però, deve fare i conti con tutte le considerazioni prima espresse sulla guerra tecnologica, e sul tempo che scorre. Gli ultimi combattenti forgiati nell’ideologia khomeinista sono morti o invecchiati. Le nuove generazioni non sono così straccione come i basij di quarantacinque anni addietro, che offrivano il proprio corpo alle bombe e ai gas sul fronte iracheno. L’attuale apparato militare iraniano è buono per sfilate rituali o lanci di razzi anche a lunga distanza che possono bucare la “Cupola” del nemico più a portata di tiro, ma fanno poco male. Dunque, è più realistico ridisporsi a trattative, come ha annunciato il ministro deli Esteri Araghchi. Bisognerà vedere quel che dispongono i nemici. Sicuramente colpire e umiliare. E lasciar decantare la rabbia e l’impotenza. Chissà per quanto.

martedì 24 giugno 2025

Il sogno di Ciro il piccolo

 


Dove finiranno gli slogan, le grida, i desideri delle giovani di “Donna, vita e libertà” se per ‘Jin, jiyan, azadi’ è già pronto ‘Woman, life, freedom’. Non che lingue differenti non possano indicare medesimi concetti ma già le parole, che introducono nozioni e azioni, hanno un rapporto stretto con le culture, gli orientamenti, le mode. Se poi devono aver a che fare con le linee geopolitiche, gli usi e gli abusi possono galoppare. Nei giorni di concentrati attacchi militari delle aviazioni di Israele e Stati Uniti ai siti nucleari iraniani, che hanno colpito anche Teheran falciando centinaia di vite, chi non ama il regime degli ayatollah, oppositori e contestatori,  sono diventati essi stessi potenziali bersagli. Qualcuno è finito fra le vittime dei raid, è accaduto alla poetessa ventitreenne Parnia Abbasi, rimasta sotto le macerie del suo edificio bombardato nel quartiere Sattarkhan. Più d’un antagonista al regime non s’è mostrato favorevole a queste stragi, sostenendo che la guerra non introduce alcuna democrazia. Qualche voce a sostegno del cambio di regime con la forza s’è levata dalle tranquille poltrone degli studi televisivi in cui professori o intellettuali sono stati intervistati. Dall’estero. Il tono più stonato e screditato, non dalla nemesi storica, ma da quanto va sostenendo ora alla bell’età di sessantaquattro primavere è quello di Reza Ciro Pahlavi, a cui è stata approntata nientemeno che una conferenza stampa parigina. Volato in Francia probabilmente con un Air Force statunitense, visto che lui nei siti militari è di casa, non solo per aver pilotato caccia ma per aver vissuto a Langslay, dietro la cortina di protezione della Cia dall’età di diciott’anni. Quando appunto fuggì, assieme ai familiari dalla Teheran che defenestrava suo padre. Angosciosa ombra della sua esistenza quella di papà Shah, ma pure suo nume tutelare post mortem, perché ogni avere dei discendenti, a cominciare dal primogenito Ciro, proveniva dai furti d’un altro regime, quello voluto e protetto proprio dalla Cia e dall’MI6 britannico ai danni del premier Mossadeq e del popolo iraniano. 

 

Fu il golpe sostenuto dall’Occidente geopolitico e dal capitale imperialista delle “Sette sorelle” del petrolio ai danni di chi reclamava il proprio diritto di monetizzare le ricchezze statali del sottosuolo. Reza padre fu il sovrano-fantoccio che rimpiazzava uno statista, peraltro liberale, legittimamente eletto. Non è stata l’unica ferita inferta all’Iran moderno. Le altre, abissali e sanguinanti, le provocava la polizia segreta Savak, feroce torturatrice di patrioti per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Un organismo istruito, affiancato, seguito da agenti della Cia. Se Reza junior all’epoca era bambino e certi orrori di famiglia non li conosceva, dal momento dell’esilio dorato negli States e dei tanti contatti internazionali nel ruolo di Altezza Imperiale e Principe Ereditario, volendo avrebbe potuto scoprirli. E agire di conseguenza. Non sentirne l’ignominia, che ricadeva sull’operato genitoriale, ma almeno discostarsene rinunciando ad antistoriche pretese. Non è accaduto. Nella sua nullità imperiale del cosiddetto ‘Trono del Pavone’ ora finisce burattino al servizio dell’Impero della tecnologia armata che pretende di dominare il globo. Che col tempo gli ha cucito addosso la veste di difensore dei “diritti umani”, in relazione alla diaspora iraniana riparata all’estero per i legami, probabilmente poco edificanti, col regime di papà Shah. Nel soliloquio parigino Reza Ciro ha parlato di questi tragici giorni per l’Iran simili alla “caduta del Muro di Berlino”. Proprio così.  E poi ha detto: “Non cerco il potere (ergo, nessuna restaurazione monarchica) voglio aiutare la nazione, essere al servizio dei miei connazionali verso la giustizia, la stabilità, la libertà (eccola azadi, scusate freedom)”. Quindi rivolto a Khamenei: “Dimettiti, avrai un processo equo”. La disgrazia iraniana, nella tragedia mediorientale di questi mesi, s’accompagna anche a simili comparsate. E’ l’opposizione che dovrà comprendere qual è il futuro.

domenica 22 giugno 2025

Polverizzare l’Iran

 


Fordow, Natanz, Isfahantre strikes spettacolari” dichiara Trump, mentre un pezzo di mondo cui l’Europa della Nato appartiene sta applaudendo, il mondo sottomesso tace per afonìa o mancanza di comprensione della tragedia che vaga sulle proprie teste assieme a bombardieri e caccia, e gli altri grandi della Terra restano incardinati ai loro interessi. Al più come il ministro degli Esteri russo Lavrov affermano che: “Il mondo rischia di sprofondare nel caos completo”. Ma è poca cosa perché il caos è fra noi. E’ in noi. Il suo omologo iraniano Aragchi enuncia un’invocazione: “Hanno varcato la linea rossa”, paroline innocue. Non servono perché nessuno le ascolta e soprattutto mostrano tutta la fragilità del suo Paese, impotente contro le infiltrazioni delle Intelligence straniere e ancor più verso le incursioni belliche di chi impunemente pratica l’aggressione preventiva. La legge del più tecnologicamente potente davanti alla quale gli altri sono ridotti in ginocchio e finiscono cadaveri o direttamente polvere. Sui network globali va in onda il più bestiale degli imperialismi, che già nell’ultimo quarto di secolo aveva mietuto vittime, devastato ambienti, distruggendo speranze di futuro. Ora tutto si ciclopizza, si tecnicizza, a favore dei pochi che possono gettare denaro in simili devastazioni, chiamandole ormai col loro nome: attacchi distruttivi, senza il precedente pudore delle comunità sedicenti democratiche di praticare azioni di ‘polizia internazionale’. Il mondo ha sotto gli occhi, operazioni banditesche definite militari con finalità non di polizia ma di pulizia. Pulizia etnica come nei quasi due anni di fuoco e di sangue su Gaza, e pulizia politica contro avversari non graditi e per decenni bollati quali “Stati canaglia”. E’ un mondo più folle e schizofrenico di quello studiato dagli storici nel Novecento, il mondo e le epoche dei nazionalismi fascisti, nazisti, sovranisti che, non a caso, nei richiami di taluni nostalgici ricompaiono con tutta la lugubre sequela di cerimonie ideologiche. 

 

Ma quest’idea orgiastica guerrafondaia, che impone ai sedicenti governi democratici e occidentali e quest’ultimi riverberano sui cittadini, la necessità di finanziare riarmi al 5% dei Pil nazionali e oltre, convincendoli che un nemico, solo parzialmente armato, li assalirà, diventa una follìa che ripercorre quelle strade che hanno inabissato l’Occidente nel 1914 e nel 1939. “Ci sarà la pace o ci sarà una tragedia per l'Iran molto più grande di quanto abbiamo visto negli ultimi otto giorni" dichiara l’ultimo Stranamore partorito dalle urne elettorali statunitensi. Lo Stato mostruoso per le opportunità e gli abissi che prepara alla sua gente e ai popoli che vuole educare o dominare e umiliare. La recente storia ha raccontato come quel dominio mancato, in Afghanistan o in Iraq, ha solo prodotto sconquasso e desertificazione sociale, politica e umana. Non si sono fatti scrupoli i teorici e assertori dell’America First che precedevano Trump, i George W. Bush, gli Obama, fino al nonnino Biden, tutti hanno caricato bombe su oggetti volanti sempre più grandiosi e costosi, passando dai B52 che incendiavano la foresta indocinese al miliardario B2. 2,13 miliardi è il costo del bombardiere che trasporta il Massive Ordnance Penetrator con le sue quattordici tonnellate di esplosivo che stanotte hanno fatto brillare quei siti di arricchimento dell’uranio disposti sottoterra in Iran. Orgia del potere, orgia di violenza, orgia di supremazia che obbliga l’umiliato e offeso avversario a una resa senza condizioni in posizione di subalternità schiavistica. Con l’alternativa di vendette postume, simboliche, incentrate come in tempi anche recenti nel gesto assassino del kamikaze, quasi mai possibile contro le menti di questi nuovi Olocausti, ma scivolati su chi non c’entra direttamente col conflitto in corso e semplicemente vive in città trasformate in trincee. Il cacciatore di bambini, l’Erode di Gaza Netanyahu e il suo compare bombardiere Tramp, sono al sicuro. Tutti gli altri diventano bersagli.

sabato 21 giugno 2025

Khamenei pensa alla morte

 


Ottatantasei anni, alcuni vissuti pericolosamente nel conflitto con l’Iraq da cui comunque tornò vivo, pronto per ricoprire l’incarico teologico-politico ricevuto direttamente dal Ruhollah Khomeini, il padre della Rivoluzione islamica in Iran. Ali Khamenei è da trentasei anni la Guida Suprema  dalla dipartita del suo mentore. In quel ruolo il prescelto era un altro Ali, Montazeri, decisamente più anziano (era nato nel 1922, Khamenei diciassette anni dopo) ma soprattutto era un grande ayatollah. Un Marja-e taqlid che sta per “fonte di emulazione” per i fedeli e per il clero sciita stesso. Eppure negli ultimi mesi di vita di Khomenini, Montazeri iniziò a polemizzare con lui attorno a princìpi che il Rahbar considerava imprescindibili per il futuro nazionale. Centrale era il velayat-e faqit, cioè la tutela che il giurisperito offre alla Umma sciita e all’intera conduzione politica della comunità. Una funzione che affonda le radici nei dogmi religiosi di quella religione, ma che Khomeini imponeva contro il parere di altri ayatollah, fra cui appunto Montazeri. Prima di quest’ultimo strappo, la diversità di vedute con l’iniziale Guida Suprema riguardavano faccende interne ed estere. Montazeri criticò le copiose esecuzioni capitali compiute su particolari detenuti politici, quei Mujaheddin-e Khalq che nella fase di lotta per il potere (1981-82) pur avendo compiuto odiosi attentati dinamitardi rivolti ad autorità del clero e cittadini comuni, a detta di Montazeri non dovevano ricevere un simile trattamento. Suoi anche i dubbi verso l’esportazione della Rivoluzione Islamica, criticava i finanziamenti di gruppi all’estero, quelli che negli anni seguenti avrebbero rappresentato gli alleati o i proxies di Teheran. Khomeini stroncò l’ex compagno di lotte contro lo Shah e gli preferì un Hojatoleslam, un turbante di medio livello qual era appunto Khamenei, trovando l’appoggio d’una maggioranza di ayatollah nell’Assemblea degli Esperti (88 ayatollah) l’organo che dal 1982 designava la Guida. 

 

Ora, sotto le bombe d’Israele che sconquassano il Paese, è Khamenei a pensare a un delfino. Che non sarà il cinquantaseienne, suo secondogenito Mojbata, chierico come lui non d’alto rango, pur avendo seguìto i corsi d’importanti teologi: i grandi ayatollah Mesbah-Yazdi e Safi Golpaygani, ultraconservatori scomparsi fra il 2021 e 2022. Dal Gotha politico iraniano trapelano orientamenti, ma nessun nominativo, una sola certezza: non ci sarà successione fra padre e figlio. E chi, in un’ipotetica caduta del regime, pensa che i Khamenei potrebbero riparare all’estero, come hanno fatto tanti clan geopolitici, valuta l’esclusione dagli incarichi funzionale alla fuga degli epigoni di famiglia. In realtà nei desideri degli oppositori, la scomparsa di Khamenei è stata sperata (e annunciata) in più occasioni, soprattutto a seguito dell’intervento chirurgico per un tumore alla prostata che gli fu praticato anni addietro. Finora l’uomo non è morto. Anzi. Ha continuato a rappresentare un passato legato al khomeinismo, e s’è opposto al tentativo di marginalizzazione del clero dall’effettiva direzione del Paese, palesato dall’ingegnere basij Ahmadinejad. Eletto presidente nel 2005 con lo sponsor di ayatollah ultraconservatori fra cui proprio Mesbah-Yazdi, Ahmadinejad si trovò a cavalcare un orientamento del laicismo pasdaran che voleva sbarazzarsi della centralità politica degli ayatollah, facendo trasparire l’idea di emarginarli con tutto ciò che ne conseguiva attorno al sistema di organi come l’Assemblea degli Esperti e la Guida Suprema. La tendenza non prevalse, lasciando il posto all’ennesimo compromesso fra turbanti e divise,  intenzionati a spartirsi il potere politico nel Majlis ed economico con le Bonyad. Oggi gli analisti ritengono che nonostante le apparenze e la tradizione filo khomeninista, sia il partito dei militari a guidare l’Iran, pur fra contraddizioni e gravi crepe nella sicurezza, ampiamente sfruttate dal Mossad e dai loro emissari interni.  


 

venerdì 20 giugno 2025

L'intagliatore

Tutto il fascino del Piano Mattei

 


Location affascinante e artistica, villa Pamphili con vista sul Cupolone per il vertice: “The Mattei Plan for Africa and the Global  Gateway: A common effort with the African Continent”.  E’ un rilancio, dopo mesi di silenzio, da parte della premier italiana Meloni verso l’Unione Europea, più precisamente verso i vertici che contano e ne stanziano fondi. Ed ecco apparire, coi sorrisini di circostanza e gli striminziti completini rosa, la presidente della Commissione Von der Layen. Alle ladies fanno contorno delegati dell’Africa Finance Corporation, presidenti della Banca Africana, Gruppo Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, quindi  premier e ministri degli Esteri della Repubblica Democratica del Congo e della Tanzania. Insomma dopo il Maghreb il piano scivola verso i grandi Paesi equatoriali. Per fare cosa? Affari propri, mascherati da relazioni internazionali in nazioni mantenute instabili non solo dal colonialismo secolare, portoghese e belga nella prima nazione, tedesco e britannico nella seconda. Ma dal colonialismo di ritorno ben mascherato dopo le “indipendenze” del 1960, che costarono la vita a reali figure della lotta anticoloniale come Lumumba, fatto fuori dal dittatore militare di turno (Mobutu) carezzato e protetto per oltre un trentennio dagli Stati Uniti in funzione anti emancipatrice. Certo, era un altro mondo. Giorgia e Ursula non erano neppure nate, però ora che sono cresciute e si collocano ai vertici di rispettivi posti di potere si danno una mano per rilanciare quel para-colonialismo economico cui gli Stati della vecchia Europa non rinunciano. Basta osservare il cosiddetto Global Gateway, un bel dispositivo di finanziamenti (per fare rete) lanciato verso la ‘madre Africa’. Per risollevarla? Secondo i pronunciamenti sì, ma con servizi particolari e non richiesti rivolti soprattutto contro il competitor cinese. Secondo brutte logiche di mercato tutto legittimo, ovvio. Eppure la presunzione d’abbandonare pratiche neocoloniali e predatorie è tutta teorica. Le medesime cacciate dalla porta rientrano dalla finestra, e comunque i denari italiani messi a disposizione (5,5 miliardi di euro) sono pochini, così il passo furbesco della nostra premier è coinvolgere la rappresentante Ue

 


Se poi s’osserva ciò che è stato finanziato finora, ad esempio una pianificazione per biocarburanti rivolta al Kenya, il progetto è trattato dall’Eni che, dunque, s’avvantaggia dell’appalto secondo vecchie logiche, da cui il Mattei degli accordi fifty-fifty sul petrolio di settant’anni addietro, si discostava ampiamente. In apertura d’incontro a favore di microfoni e telecamere Meloni ha tenuto a sottolineare: Oggi la nostra intenzione è offrire risposte concrete alle priorità espresse sulle infrastrutture strategiche, come il caso del ‘Corridoio di Lobito’, che collegherà l’Occidente all'Oriente del continente africano. Penso a connessioni digitali sicure e moderne come il cavo ‘Blue & Raman di Sparkle’ che si proietterà verso l'Africa; penso alla promozione etica delle opportunità che provengono dall'Intelligenza Artificiale, con il centro per lo sviluppo sostenibile che è stato inaugurato a Roma stamattina. Penso anche al rilancio delle filiere agricole locali, con investimenti sulla trasformazione del caffè e sull'agricoltura sostenibile". Poi le scuse non richieste: “Non sono iniziative calate dall'alto, ma progetti concreti nati dal dialogo e dalla volontà di creare sviluppo duraturo per i nostri partner africani". Sarà così? Su certi dossier Onu i 45 milioni di cittadini tanzaniani mancano per il 60% dell’accesso all’elettricità primaria e per il 40% di acqua potabile, questa gente pensa poco a fonti d’energia rinnovabile, ma se così dovesse essere saranno felici. Basta poter accendere una lampadina e non prendere il tifo da un bicchiere. Solo che il governo italiano, foriero di diversi progetti, non tutti dotati di coperture (perciò Meloni tira la risicata giacchetta di Von der Layen) svaria e mira a sperimentali produzioni energetiche d’idrogeno verde, ma in Tunisia. Del resto sempre Africa è, e poi Saied occorre blandirlo per il contenimento dei migranti. A eseguirle Enel, Eni e Acea sicuramente non a fondo perduto. I ministri dei due Stati centrafricani condotti nell’ennesimo tour di vacanze romane, ovviamente aspettano. Qualche briciola scivolerà verso i loro Paesi, che tuttora vivono fra tristi note di mortalità infantile (118 su 1000 bambini in Tanzania) o fra inquietanti instabilità politiche, è d’un anno fa l’ultimo tentativo di golpe nel popoloso Congo (120 milioni di abitanti), devastato da Signori della guerra e bande di predoni. Il nostro ministero degli Esteri lo sa bene, avendo lasciato sul terreno l’ambasciatore Attanasio. Ma in quel sottosuolo persistono diamanti, rame, uranio e coltan, qualcosa spetterà a chi bazzica quei luoghi.  

lunedì 16 giugno 2025

Iran alzo zero

 

Ora che anche noti dissidenti agli ayatollah,  compresi quelli che non rischiano granché poiché da rifugiati all’estero (l’avvocata premio Nobel Ebadi, la scrittrice Delijani) sono al riparo dalla repressione interna e dalle bombe d’Israele, diffidano della soluzione finale attuata da Netanyahu per un cambio di regime, il prosieguo della guerra si spoglia di qualsiasi bontà verso il prossimo. Israele e il suo premier pensano a sé, alla loro grandezza, alla reiterata follìa nell’offrire morte e orrore per tutto il tempo a venire. I palestinesi che subiscono da decenni angherie e distruzioni, a Gaza e in Cisgiordania, conoscono bene quest’intento razziale e coloniale immerso nei dollari della lobby ebraica, unico pilastro del sedicente Stato d’Israele democratico, di fatto mai nato neppure all’epoca della fondazione. I suprematismi etnico (il popolo eletto), politico (il sionismo), confessionale (l’ebraismo ultraortodosso) hanno sempre accompagnato non la rivendicata esistenza, ma l’imposizione di proprie volontà a danno d’altri. E’ storia quasi secolare quella che fa d’Israele l’elemento di rottura d’un Medio Oriente già seviziato da imperi vecchi e recenti. E dal 1948 in balìa di quanto soprattutto l’Occidente para-statunitense, i suoi patti economici e militari, permettono di eseguire in un’area sempre più vasta ai governi laburisti, centristi, likudiani, nazionalisti, ultraortodossi scaturiti dalla Knesset. Quest’impostura da quattro giorni s’affaccia a quasi duemila chilometri a Levante, in territorio iraniano dove con la finta ritrosia della presidenza Trump si cerca di sotterrare quanti più nemici possibili: generali di esercito e pasdaran, scienziati e ricercatori del programma nucleare, più la gente che gli vive attorno, visto che i cosiddetti “omicidi mirati” vengono praticati con missili, droni esplosivi, autobombe che non risparmiano civili, magari neanche in sintonia col regime, come la poetessa Parnia, la pittrice Mansoureh, l’hostess Mehrnoush, spolpate, arse vive, disintegrate dagli attacchi lanciati da venerdì notte sul loro Paese.


Seminare il panico, sterminare gente, come Israele fa nella Striscia da venti mesi, come ha fatto a Beirut e nel sud del Libano nello scorso autunno e in Siria settimane fa.  Terrorizzare, definendo gli avversari terroristi. Non solo Hamas, Hezbollah, Houti e Pasdaran Israele e i suoi benpensanti sostenitori bollano come terrorista chiunque non accetti questo criminale gioco al massacro. L’alibi  dell’autodifesa - che è invece esclusivamente offesa, desiderio di morte, morte altrui e pure della propria gente trascinata in conflitti eterni da una coriacea cricca di militari, spioni, sediziosi fanatici del proprio ego - è una foglia di fico incapace di coprire una tragica realtà che si palesa al cospetto della comunità globale. Purché questa voglia vedere. Israele, nazione che non sa e non vuole vivere in pace, proietta sul mondo paranoie e frustrazioni, non solo quelle storiche che pure hanno ricoperto di lutti la progenie. Inventa continue  rivendicazioni, sempre ulteriori nemici, demoni che in realtà hanno le fattezze dei suoi presunti statisti. Una stirpe di militari, irregolari attivisti delle bombe, ripuliti e dipinti come Presidenti, Primi Ministri propensi a soggiogare e magari proporre accordi per rinnegarli a proprio vantaggio. Così è stato per i territori che hanno polverizzato la Palestina, così per il pericolo rappresentato da potenziali bombe atomiche iraniane, potrebbero essere nove, a fronte delle novanta e passa fornite all’Idf dagli Stati Uniti. Anche media mainstream ammettono che il denaro di cui l’Intelligence di Tel Aviv è dotata gli permette di fare dell’Iran un laboratorio per attentati e omicidi mirati, infiltrando, assoldando, corrompendo cittadini e finanche elementi in carriera nei circoli della sicurezza avversaria, sicuramente corpi militari, probabilmente anche Guardiani della Rivoluzione. Nei conflitti ogni stratagemma è possibile. Ma in questi giorni che potrebbero diventare settimane o mesi, in cui da Teheran chi può fugge, si fa comprare o si nasconde, e chi non può, né vuole si difende dai raid come riesce, riparando nelle cantine e nelle fermate del metro, gli stessi dissidenti agli ayatollah possono valutare il futuro che li attende insieme all’intero Paese.