mercoledì 30 aprile 2025

Il rito fascista del “Presente”

 


Si potrebbe domandare - il giornalismo giovane e pluralista può farlo, noi che abbiamo conosciuto il neofascismo dagli anni Sessanta agli Ottanta abbiamo qualche idiosincrasia - ai possessori di quelle braccia tese che per l’ennesimo raduno (ma i cinquant’anni di ieri erano un’occasione speciale) perché il ricordo di Sergio Ramelli debba prevedere il rito fascista del “Presente”. Perché? In attesa di risposte originarie, lanciamo considerazioni dirette. Perché i neofascisti del Terzo Millennio considerano lo studente Ramelli un camerata da onorare. Un camerata che negli anni Settanta anziché valutare con gli occhi d’una nazione risollevata dalle macerie create dal Fascismo, si metteva a rimpiangerlo. Non studiava la Storia il giovane Ramelli? Non sappiamo. Certo, s’era infilato nella militanza di chi dalla Storia non voleva imparare nulla. Colpa solo parzialmente sua, poiché il pluralismo democratico rinato con la Liberazione dal Fascismo aveva ‘sdoganato’, ben prima delle idiozie delle ‘ragioni dei ragazzi di Salò’ (ragazzi anch’essi, ma dediti alla tortura e fucilazione di partigiani e civili) i rimasugli di quel regime che rientravano nella quotidianità. Vi rientrava non tanto l’ex fascista del così son tutti o dell’opportunismo generalizzato che aveva caratterizzato il Ventennio. Vi rientravano il gerarca, il razzista, la canaglia, il carnefice. Non avrebbero avuto agibilità i Graziani, gli Almirante, i Caradonna padre e figlio, i Borghese. Ma l’Italia, ancora ferita dal nazismo e dal servilismo della Repubblica Sociale, prendeva la via dell’accettazione dei vinti, che con l’alibi del proprio sangue ne avrebbero fatto versare ancora molto negli anni a venire. Ma questo nelle sezioni del Fronte della Gioventù, manipolazione missina d’una precedente denominazione politica antifascista, non si discuteva. Anzi, l’odio e la vendetta erano i pilastri dei programmi para nostalgici delle nidiate adolescenziali missine. 

 

Se fosse un uomo l’ammetterebbe un missino della seconda ora, per i loschi giochi della politica incredibilmente salito a un'apicale carica dello Stato. Ignazio Benito Maria La Russa. Che anch’egli in un Aprile, il Dodici del Millenovecentosettantatré organizzava coi camerati un raduno proprio a Milano, pur sempre città medaglia d’oro della Resistenza. Si trattava d’una protesta contro la violenza (sic) fatta da mazzieri e guidata dal boss della rivolta di Reggio Calabria, Ciccio Franco. Di quell’adunanza paramilitare preparata, decretò la Questura, con pistole e bombe a mano, i deputati missini Servello e Petronio erano gli artefici, mentre La Russa, leader del Fronte della Gioventù, risultava il responsabile della piazza. In quella piazza, lungo varie strade del centro (viale Romagna, via Bellotti, via Kramer) si riversò il vandalismo dei partecipanti, aderenti anche a Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Fino all’epilogo: il lancio di due bombe a mano in dotazione dell’Esercito, procurate si seppe dallo stragista fascista Nico Azzi, una delle quali squarciò il petto dell’agente del Terzo reparto Celere, il ventiduenne Antonio Marino. Dopo le indagini furono arrestati e condannati gli esecutori materiali dell’omicidio, Loi e Murelli, sanbabilini iscritti al Movimento Sociale Italiano, anch’essi ventenni. I deputati Servello e Petronio vennero schermati dal Parlamento che non concesse l’autorizzazione a procedere richiesta dalla magistratura; anche la responsabilità politica di La Russa su quel fatto di sangue passava in cavalleria. Era la Milano non ancora da bere, ma da lacrimare per la violenza praticata dalla strage di Piazza Fontana in poi. In quel fervore e nelle speranze connesse si perdevano vite. E’ servito per una riflessione storica e politica del passato remoto e prossimo? Non sembra. Non lo capiva Ramelli, vittima dell’infatuazione neofascista proprio quando i neofascisti insanguinavano il Paese, non l’accettano gli odierni camerati. Per far cosa non lo dicono neppure, nella nebulosa d’un superomismo esoterico che vagheggia il nulla, artigliano solo croci celtiche e nuovi labari, insozzando il tricolore. Presenti sì, ma uomini no, proprio come scriveva Vittorini.

martedì 29 aprile 2025

Modello Gaza per il Kashmir

 


Bisognerà capire se l’isteria che sta montando attorno all’attentato di Pahalgam nel Kashmir indiano, che di sangue ne ha sparso e di tensione pure, potrà rimanere circoscritta senza ulteriori picchi o se si è davanti a un’escalation su cui l’opinione pubblica e certi estremismi organizzati, istituzionali e non, già preparano un livello di violenza ulteriore e superiore. E’ il mondo indiano, colpito e scosso, che lancia pericolosi segnali. A cominciare da quelli attuati da reparti dell’esercito di Delhi che nella zona  dell’attentato hanno aperto il fuoco e demolito abitazioni dove ci sarebbero presunti terroristi islamici o famiglie fiancheggiatrici. Prove scarse o inesistenti, ma vendetta innescata. Come quella che denunciano kashmiri musulmani espulsi in queste ore da case che proprietari di fede hindu non vogliono più affittargli. O quelli pestati per via che accompagnano esibizioni di pura intolleranza, sempre a sfondo confessionale, organizzate da gruppi politici e paramilitari indiani. Shev Sena, fra i sostenitori dell’hindutva assieme al Rashtriya Swayamsevak Sangh, le inscenano in varie località bruciando bandiere pakistane e aggredendo musulmani. Il governo di Islamabad nega ogni copertura agli attentatori fondamentalisti (Lashkar-e-Tayyiba o altri) e comunque non è disposto a subire accuse infondate e ricatti di Delhi, come quello sul blocco delle acque del bacino dell’Indo (minaccia peraltro la cui attuazione è tutta da verificare). Frattanto anche i propri orgogliosi, puntigliosi e intriganti militari si pongono in stato d’allerta puntando armi sul chilometrico confine interno fra le aree kashmire reciprocamente controllate. Mentre la stampa d’opposizione indiana lancia un’ipotesi che sui social tracima e dilaga con ogni sorta d’aggiunta. 

 

Non è, non può essere una similitudine, ma si propone un sospetto: come per l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, Israel Defence Forces s’è fatto cogliere volutamente “impreparato” anche nella vallata di Pahalgam i numerosissimi paramilitari indiani, ovunque presenti e vigilanti, sembrano aver voltato la testa altrove. Per creare il precedente dell’aggressione sanguinaria? Non ci sono certezze, ma ipotesi tante, sostiene la stampa anti Modi. Oppure il governo di Delhi, che da circa un lustro ribadisce di controllare ogni angolo dell’area attorno a Srinagar  proprio per sostenere turismo e affari a vantaggio di molti ma non dei kashmiri islamici, sta bluffando sulla sicurezza, e mobilita un’infinità di divise non in funzione antiterroristica bensì per l’ordine pubblico interno. La congettura gira su alcune testate, sui social, per ora nessun partito indiano la riprende per inchiodare Modi e il suo staff, a cominciare dal ministro dell’Interno Shah. Invece il riferimento alla vicenda di Gaza balza nella mente dei militanti più estremisti dell’hindutva che invocano un “metodo Israele” anche per il Kashmir, inteso come pratica della terra bruciata e di annientamento della presenza islamica nella regione. Certo, si tratta dello sfogo più fascista e sciovinista che la rete raccoglie e rilancia, ma è il ventre immenso di quella politica che ha trovato sponda nel partito di governo, Bharatiya Janata Party, e vuole omologare la società indiana con ogni mezzo, lecito o meno. E’ il prosieguo di quanto l’entourage di Modi coi suoi predicatori arancioni sta diffondendo da anni. Il caso più noto e infuocato riguarda il premier dell’Uttar Pradesh Yogi Adityanath, che come altri monaci siedono in Parlamento e vogliono radere al suolo qualsiasi convivenza verso minoranze non così minute come i duecentocinquanta milioni d’islamici e i sessanta milioni di cristiani indiani.

lunedì 28 aprile 2025

Kashmir, tensioni e tentazioni

 


Mentre sotterra il papa della pace, il mondo della guerra è già pronto a rinfocolare incendi. In questi giorni India e Pakistan rilanciano antichi contrasti capaci di rinfiammarsi sull’onda del fondamentalismo istituzionale. I due nient’affatto benevoli vicini, da decenni un contro l’altro armati come prolungamento orientale della trascorsa Guerra Fredda, restano con arsenali ricolmi di testate nucleari, centosettanta a testa sostenevano statistiche certamente da riaggiornare, in peggio. In base a passati conflitti, l’ultimo lontano più di mezzo secolo (1971), si dice che anche nei momenti di crisi come l’attuale i due vicini mimino lo scontro armato senza volerlo rilanciare. Sarà. E’ anche vero che le reciproche guide politiche - l’induista Modi a Delhi, l’islamico Sharif a Islamabad - all’apparenza compassati e malleabili con vari partner internazionali per commercio e cooperazione, inseguono ben altri disegni interni e regionali. Che in questa fase hanno conosciuto in alcuni territori rissosamente condivisi, qual è il Kashmir, il perfetto terreno dell’urto indiretto. I sanguinosi avvenimenti della scorsa settimana ne sono una riprova. L’assalto stragista su visitatori inermi vuol infliggere alla piattaforma turistica indiana un colpo che può fungere da freno, dopo la ripresa del settore uscito dagli stop forzati della pandemia. Nel Kashmir, cosiddetto svizzero per vallate lussureggianti e vette imbiancate, non ci sono soltanto bellezze naturali. C’è una cospicua fetta di abitanti islamici che subisce i contraccolpi della cancellazione dell’autonomia amministrativa decisa dal governo centrale di Delhi e una conseguente discriminazione nell’occupazione quotidiana schiacciata ed emarginata dall’affarismo turistico promosso e protetto dalla politica del Bharatiya Janata Party. Esaltatore dell’India induista contrapposta ai musulmani interni e d’oltre confine. 

 


Eccolo, dunque, il nocciolo del problema in un contesto che non è più la conservazione dell’identità indipendente che i padri delle rispettive patrie, il pakistano Jinnah e l’indiano Nehru, andavano predicando nell’immediato Secondo Dopoguerra. E’ qualcosa di peggiore, ricomparso nell’epoca del fallimento del laicismo politico e nel recupero d’un confessionalismo introdotto in maniera più o meno smaccata nelle Istituzioni. Il Pakistan l’aveva fatto nel decennio di dittatura del generale Zia-ul-Haq (1978-1988), favorendo l’islam più fanatico di talune madrase deobandi, nella provincia Khyber Pakhtunkhawa resta famosa la Darul Uloom Haqqania, tuttora attivissima, nella quale si sono formati capi talebani come il mullah Omar e l’attuale clan Haqqani denominato appunto da tale scuola. L’India di Narendra Modi lo sta facendo da circa un ventennio agganciandosi all’hindutva teorizzata agli inizi del Novecento dall’ideologo razzista Savarkar. Due orientamenti che strumentalizzano le fedi islamica e induista conducendole a interpretazioni fanatiche ed esclusiviste. Il richiamo citato agli arsenali bellici dei due Stati, che nascevano quando nel mondo bipolare della “pace armata” ciascuno cercava, e facilmente trovava, alleanze per il tornaconto di tutti aveva dato l’assenso e la fornitura atomica a Delhi da parte sovietica, a Islamabad da parte statunitense. Purtroppo quell’arsenale è rimasto e si è ampliato, mentre i due Paesi asiatici hanno conosciuto esplosioni demografiche e mercantili che li rendono protagonisti non solo in ambito regionale. Al di là di minacce-contro lanciate da premier megalomani (Modi) o politicamente instabili (Shahbaz Sharif), i due leader stanno usando a scopo interno i contrasti attuali. Cosicché Delhi ricorre al ricatto di bloccare il flusso delle acque dell’Indo per incrinare la produzione agricola pakistana assolutamente dipendente da quell’irrigazione; i militari di Islamabad, non da oggi i veri padroni di chi siede al governo, mirano a rafforzare la propria influenza utilizzando l’armatismo jihadista come quello dei probabili esecutori dell’attentato a Pahalgam, i miliziani di Lashkar-e-Tayyiba. Autonomi ma fino a un certo punto, perché forniture e coperture dell’Intelligence di Stato fanno sempre comodo, utili quando assaltano obiettivi indiani oppure destabilizzano il quadro politico interno, si chiami Sharif, Bhutto o Khan.

sabato 26 aprile 2025

Governo siriano, duri, puri e aggregati

 


Velleitario, presuntuoso, realista Ahmad al-Sharaa - già Abu Muhammad al-Jolani, leader del gruppo salafita Jabhat al-Nusra e poi di quello islamista Tahrir al-Sham - viene variamente etichettato da osservatori e analisti in base al “lavoro istituzionale” con cui punta a offrire alla Siria post Asad un nuovo governo. Il percorso è tutto in salita per i cento e uno problemi, le spaccature e divisioni interne ai gruppi etnico-religiosi presenti fra la popolazione scampata a tredici anni di conflitto e stragi, e le mire che potenze attigue e potenze mondiali continuano a mantenere nei confronti del territorio siriano. I passi politici annunciati da al-Sharaa parlano di: unità nazionale e convivenza civile, ricostruzione statale ed economica, e già bastano per un percorso che potrebbe durare anni. Il primo obiettivo è incappato, ad appena tre mesi dalla liberazione dal clan Asad, in un grosso intoppo. Una ribellione messa in atto nell’area abitata dagli alawiti fedeli all’ex regime - Tartus e dintorni - da gruppi armati nostalgici di Bashar. E’ finita nel sangue. Di tanti cittadini. L’attuale governo ha dichiarato duecentotrentasette vittime, l’Osservatorio siriano dei diritti umani è salito fino a duemila. La realtà è che il Paese è parzialmente controllato e non pacificato. E se un’altra comunità, quella drusa, si è anch’essa risentita col governo, usando armi da fuoco ma senza grandi spargimenti di sangue, alcune famiglie druse collocate nelle alture del Golan, dove Israele ha ulteriormente ampliato la pluri cinquantennale occupazione, si mostrano disponibili all’annessione. Tel Aviv ha lanciato l’amo pure alla comunità kurda, così da minare ulteriormente la precaria stabilità che Damasco prova a cementare, ma è rimasta spiazzata dall’avvicinamento, parziale e magari temporaneo però concreto, fra al-Sharaa e il leader delle milizie del Rojava Mazloum Abdi. L’accordo fra i due non entra nel merito del futuro di quei territori, prevede il mantenimento delle milizie delle Forze Democratiche Siriane all’interno di quelle governative, incentrate sulle truppe di Tahrir al-Sham. Durerà? E cosa dirà Washington per anni procacciatore di armi per Sfd? Nel percorso necessariamente in divenire al-Sharaa sembra tenere la barra dritta. Gli embarghi che avevano portato fame, perlomeno nei territori occidentali controllati dai ribelli jihadisti, potrebbero attenuarsi. 

 

Da parte dell’Unione Europea c’è disponibilità di revoca delle sanzioni sul fronte energetico e delle attività finanziarie se il Paese camminerà verso una democratizzazione che vuol dire elezioni libere in breve tempo, mentre Mosca che dalla fuga di Asad ha ritirato i ‘consulenti militari’ e sospeso le forniture di cereali potrebbe riproporle assieme a forniture energetiche se le basi aeree e navali fra Latakia e Tartus continueranno a ospitare le istallazioni russe. Il pragmatismo dell’ex jihadista Jolani potrebbe renderlo possibile. Ma la popolazione interna ha bisogno di case, ospedali, scuole e strade. Le petromonarchie, che di denari ne hanno a iosa e sono disponibili a prestiti, mostrano un cauto ottimismo sul nuovo corso di Damasco, anche i buoni uffici espressi dalla Turchia di Erdoğan stabilizzano la posizione personale di al-Sharaa. Certo, c’è il rovescio della medaglia lungo le centinaia di chilometri di confine diventata ‘zona cuscinetto di sicurezza’ in funzione anti Rojava e attuata già dal 2019, e come detto fra al-Sharaa e Abdi c’è stato un avvicinamento che non piacerà ad Ankara. Ma il presidente siriano di transizione sembra attuare, finché gli risulterà possibile, una linea di passi misurati e concreti, se questa andrà incontro a nodi dovrà decidere come e in quale modo scioglierli. Per garantire un andamento tranquillo al nuovo esecutivo formato da ventitré membri s’è affidato a un terzetto di fedelissimi cui, come fan tutti i leader in ogni angolo del mondo, ha consegnato i ministeri chiavi. Difesa all’ex responsabile militare di Tahrir al-Sham, Murhaf Abu Qasra; Interni al capo dell’Intelligence del governo di Idlib Anas Khattab; Esteri ad Asad al-Shaybani uno dei fondatori di Hts. I brividi che questi nomi suscitano in molti, poiché sotto gli attuali doppiopetto e cravatta permangono mimetiche un tempo messe al servizio di Qaeda, sono compensati dagli incarichi d’un poker di ministri professorali, ben lontani dal mondo jihadista. Al dicastero dell’Economia c’è Mohammad Nidal al-Shaar, già docente presso l’Università di Aleppo e già ministro economico fra il 2011 e 2012 durante il vecchio regime. Alla Giustizia Mazar Abdul Al Wais, passato dallo studio del Diritto Islamico alle prigioni di Asad poi dal 2017 membro del Consiglio Giudiziario Supremo sino alla definitiva liberazione nazionale. Alle Finanze Mohammad Yusr Barniyeh, economista del Fondo Monetario Arabo dopo trascorsi da tirocinante presso la Federal Reserve Bank newyorkese, infine al ministero del Lavoro e Affari sociali la ricercatrice e attivista Hind Kabawat fondatrice di Tastakel, organismo femminile rivolto alla non violenza per la soluzione del conflitto siriano. Anche in questo caso un perfetto mix di passato tuttora considerato terrorista dall’Occidente e non solo, e aggregazioni pluraliste con cui la nuova Siria prova a volare in un Medioriente sempre squassato e insidioso.

mercoledì 23 aprile 2025

Kashmir, strage in valle

 


Assalto mortale nel divertimentificio voluto da Narendra Modi in Kashmir, regione contesa fra India e Pakistan. Secondo testimonianze rilasciate dai superstiti a polizia e media, un commando di tre persone è disceso da un’altura attaccando un nutrito gruppo di turisti che attraversava una vallata erbosa. “Io stavo facendo uno spuntino assieme a mio marito, è sopraggiunto un uomo e gli ha sparato a bruciapelo” è una delle dichiarazioni raccolte dalle forze antiterrorismo accorse sul posto per quello che il primo ministro dello Stato federale ha definito “il peggiore attentato contro i civili nella zona, un abominio degno d’ogni disprezzo”. Sul terreno sono rimaste ventotto vittime, molti sono turisti indiani, si parla anche un israeliano e un italiano. Finora la Farnesina non ha confermato questa presenza. Il ministro dell’Interno di New Delhi Shah s’è precipitato a Srinagar, capoluogo della travagliata regione, e lo stesso Modi in viaggio in Arabia Saudita è rientrato nella capitale. Le agenzie turistiche propongono da tempo visite sotto le catene montuose di quella che viene definita la ‘Svizzera indiana’, peccato che l’area sia tutt’altro che un’oasi tranquilla. Per le rivendicazioni amministrative del confinante Pakistan e per le incursioni armate di gruppi oltranzisti riuniti nell’autoproclamato 'Fronte della Resistenza' che si scaglia contro la presunta sostituzione etnica incentivata da Delhi, tramite uno pseudo turismo. Questo ha di recente raggiunto punte di tre milioni e mezzo di visitatori annui. Gli oppositori sostengono che una fetta di costoro resta stanziale nei luoghi; nell’ultimo biennio gli amministratori hanno rilasciato 83.742 certificati di domicilio a finti turisti. La situazione interna è precipitata dall’agosto 2019, quando il premier Modi ha revocato alcuni articoli di legge che decretavano l’autonomia di questo Stato, con conseguente blocco delle comunicazioni e arresti di migliaia di kashmiri che protestavano contro l’indebita ingerenza dell’esecutivo fautore dell’attuale governance gradita al partito di maggioranza, Bhratiya Janata Party

 

Anche organizzazioni come Amnesty International si sono interessate alle forzature che destabilizzano il Kashmir dall’interno con contrapposizioni fra la cittadinanza divisa su base politica e confessionale, contraddittoria realtà registrata peraltro in diversi Stati federali indiani e incentivata dalla linea razzista dell’hindutva adottata dal partito di maggioranza. Nel Kashmir, definito "la zona più militarizzata del mondo" per la presenza eccessiva di forze paramilitari indiane, continuano a concentrarsi pure le mire rivendicative del governo pakistano che fa leva su un doppio binario ufficiale e ufficioso. Quest’ultimo è incentrato sul gioco inquietante della sua Intelligence,  artefice da decenni di doppiogiochismi d’ogni sorta. Uno dei gruppi armati aderenti alla resistenza kashmira è l’Esercito del bene (Lashkar-e-Tayyiba) noto per operazioni sanguinosissime compiute anche contro cittadini pakistani e musulmani, nonostante il proprio credo islamico. Formato prevalentemente da nativi del Jammu e Kashmir, praticanti un sunnismo ultraortodosso, sin dagli anni Ottanta il suo scopo è controllare e condizionare l’andamento politico-amministrativo in quell’area anche a dispetto del governo di Islamabad, figurarsi di quello di Delhi. LeT ha ricevuto attenzioni, finanziamenti e “assistenza tecnica” dell’Inter-Service Intelligence che estende la sua lunga mano di potere su qualsiasi entità possa risultarle utile. Intanto, almeno per ora, il flusso turistico verso il Kashmir subirà un prevedibile rallentamento, mentre le manovre di ripopolamento e contrasto al medesimo difficilmente scemeranno. Angosciosamente fra i colori del ‘tour svizzero’ a ridosso dell’Himalaya, non sta mancando il rosso sangue.

martedì 22 aprile 2025

La macchia di papa Francesco

 


Avremmo dovuto vederci ancora, ma purtroppo non è stato possibile” dice la novantaquattrenne scrittrice e poetessa e giornalista ungherese Edith Bruck che da tempo ha fatto dell’Italia il luogo dove vivere e la lingua, non solo letteraria, con cui parlare. Il personaggio del mancato reincontro è papa Francesco e l’intervistatrice, che su La Repubblica ne raccoglie pensieri e lacrime per la scomparsa avvenuta nel Lunedì pasquale, l’interroga sul filo dell’abbraccio di quattro anni or sono definito dalla Bruck di “zucchero filato”.  Sicuramente non solo come metafora del candido abito talare del suo ospite. I ricordi di quei dialoghi si rincorrono vivissimi e ribadiscono un papa quasi laico, poco propenso a imporre preghiere, che la Bruck bambina angosciata nel lager di Auschwitz, quindi adulta e scampata allo sterminio nazista ma non al perpetuo dolore della Shoah, non praticava e non attua. Di quel colloquio privato rimane alla scrittrice lo stupore della delicatezza con cui Francesco non imponesse l’idea di Dio (“Dio è una ricerca continua, va cercato e non sappiamo dov’è”) questo lei rammenta d’aver sentito. E ancora rievoca la richiesta di perdono papale per il millennio di persecuzioni e conversioni forzate imposte dalla Chiesa cattolica agli ebrei, e dell’antisemitismo che ne consegue tuttora. La giornalista l’incalza: Ancor oggi? “Francesco no, la Chiesa sì. Anche se io penso, e sono stata l’unica a dirlo, che abbia sbagliato quando ha parlato di un genocidio a Gaza”. “Bisogna capire che il genocidio è un’altra cosa: significa mettersi a tavolino medici, scienziati, e dire: con i capelli riempiamo le fodere, col grasso facciamo il sapone. Paragonare qualsiasi tragedia alla Shoah significa appiattire, diminuire, banalizzare una storia che non ha eguali”. Ecco. Anche per le menti più lucide dell’ebraismo, l’unico genocidio è quello subìto dalla sua gente. Millenni di Storia che raccontano altri terribili Olocausti non sono contemplabili né paragonabili al proprio. L’unico. Il solo che si erge e primeggia sulle sofferenze di chiunque altro. Figurarsi se un popolo che l’ha subìto sulla viva carne possa meditare sulle attuali nefandezze d’un governo che lo rappresenta. Impossibile, è un’eresia. E’ quell’antisemitismo che anche Edith Bruck richiama per non voler vedere l’ennesimo genocidio, stavolta perpetrato a Gaza. Per la scrittrice papa Francesco può riposare in pace, ma non ha fatto abbastanza per l’antisemitismo.

sabato 19 aprile 2025

Nucleare iraniano: viaggio turistico a Roma

 


E’ passata per Roma, conseguenza dei buoni uffici creati dallo scambio d’inizio anno fra Mohammad Abedini e Cecilia Sala rispettivamente arrestati a Milano e Teheran, la seconda tappa dei colloqui sul nucleare che un Trump pacificatore ha sdoganato con un precedente incontro in Oman. E’ il nuovo approccio sulla questione del presidente-tycoon che nel 2018 aveva bloccato il Joint Comprehensive Plan of Action sottoscritto nel 2015 dai presidenti Obama e Rohani. Non contento il Trump aggressore a inizio 2020 faceva assassinare Qassem Soleimani, puntando a umiliare l’apparato iraniano della forza che non potè ribattere se non con minacce formali. Altri tempi. In questa fase il super Donald che vuol far cessare la guerra in Ucraina, ma non quella di Gaza, “convince” Netanyahu a non bombardare i luoghi dove sorgono le centrali nucleari iraniane, soprattutto non concedendo all’alleato i mexi ordigni di profondità che andrebbero a stanare i laboratori di arricchimento dell’uranio che nei pur conosciuti siti stazionano sottoterra. Insomma per Washington non è il momento delle bombe sul suolo iraniano, si preferiscono i tavoli di trattativa. Questa è ripartita dal citato JCPA con l’aggiunta che il tempo e i cinque anni di rottura di colloqui e accordi hanno prodotto nel pur problematizzato Paese mediorientale un accrescimento delle quantità di uranio che, secondo l’Agenzia internazionale preposta, attualmente s’aggira sui 300 chilogrammi. Un quantitativo capace di rendere vicino di mesi il traguardo per l’arma atomica. Ne hanno discusso a Roma l’inviato speciale statunitense Witkoff e il ministro degli Esteri di Teheran Aragchi stazionando, però, in stanze separate nella sede dell’ambasciata dell’Oman nella zona della Camilluccia. Dal non lontano quartier generale della Farnesina il ministro Tajani s’è prestato a un’accoglienza istituzionale, mentre il ministro dell’Oman Albusaidi faceva la spola fra le stanze nell’ambasciata così da mettere a confronto le posizioni dei due. Stranezze diplomatiche capaci di evidenziare l’oggettiva difficoltà d’intendimento. Infatti la missione imposta da Trump al suo uomo in faccia alla pacificazione consiste nel chiedere agli iraniani di cessare ogni arricchimento, anche quello per uso civile. Di contro la Guida Suprema Khamenei fa dire al proprio ministro che di smantellamento delle centrifughe non se ne parla e non si scende al di sotto di quanto patteggiato dieci anni or sono. A meno che gli Stati Uniti non predispongano un cospicuo ritiro delle sanzioni applicate, partendo da quelle sulla vendita del petrolio. Per ora un braccino di ferro che necessiterà sicuramente di ulteriori avvicinamenti (per il terzo round sabato prossimo si torna in Oman) anche perché una realistica trattativa supererà sicuramente i due mesi con cui Trump afferma di dover decidere il futuro. Intanto l’alleato israeliano le bombe può proseguire a sganciarle sugli inermi civili palestinesi, gli iraniani possono attendere.  

giovedì 17 aprile 2025

Hezbollah realismo politico e rischi del disarmo

 


Non soltanto la riorganizzazione della Striscia di Gaza - intesa come ecatombe, cenerizzazione, snaturamento, svuotamento e deportazione della sua gente più o meno sopravvissuta - nei piani dell’inestirpabile alleanza israelo-statunitense c’è altro. I malefìci di Tel Aviv e Washington proseguono sul Libano, e dopo l’avvìo distruttivo degli oltre 1600 attacchi dal cielo e da terra di Israel Defence Forces con un migliaio morti e l’azzeramento del vertice politico-militare del Partito di Dio, l’azione diplomatica cerca sponda su figure istituzionali libanesi come il neo presidente Aoun. Lui è Joseph, niente a che vedere con l’omonimo e ormai ultranovantenne Michel che ha guidato il Paese dei cedri dal 2016 al 2022, se non nel fatto di vestire la divisa col grado di generale. Due militari dunque, entrambe maroniti come vuole la distribuzione delle cariche su base confessionale, ma mentre Michel nasceva da umile famiglia nel quartiere simbolo della comunità sciita, quell’Haret Hreik pluribombardato nel settembre scorso dai caccia israeliani, e forse per questo e soprattutto per malleabilità politica aperto e inclusivo verso Hezbollah, l’attuale presidente pur avendo radici in un altro sud a maggioranza sciita che guarda verso Israele, ha visione e coperture politiche differenti. La sua elezione, nel gennaio di quest’anno, ha avuto il sostegno della tradizione maronita, dalle Forze Libanesi al Partito Kataeb legate ai cupi trascorsi della guerra civile interna, spesso al servizio proprio di Israele. Comunque anche i drusi di Jumblatt gli hanno offerto sponda e voti. Così, piegati militarmente dai ripetuti assalti di Tsahal, i resti di Hezbollah hanno dovuto subire l’attuale quadro istituzionale fortemente voluto dai piani predisposti da Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita, tutto col gradimento estremo nella Knesset. Ora nel dibattito internazionale in corso c’è all’ordine del giorno un antico pallino della destra libanese: la smobilitazione delle milizie di Hezbollah. Che avevano avuto ragione d’esistere e rafforzarsi un ventennio or sono a partire dalla difesa del suolo patrio dagli assalti d’Israele, vista l’inconsistenza e indeterminazione di quell’esercito in cui l’attuale presidente vanta un tratto della propria carriera. E che erano diventate la spina nel fianco settentrionale dello Stato sionista per la pressione sui villaggi di confine a suon di lanci missilistici. Hezbollah, sostenuto dal partito dei Pasdaran iraniani, è la motivazione chiave con cui il governo Netanyahu ha ampliato il fronte ed è tornato a colpire e invadere il Libano.

 

Non solo tartassando la rete dei militanti sciiti, feriti e uccisi con attentati spettacolari, pensiamo all’esplosione contemporanea di beeper e walkie talkie nelle loro mani, ma infiltrandola tecnologicamente, umiliandola organizzativamente, danneggiandola militarmente fino a renderla quasi impotente. L’impatto della sua passata forza, evidenziato nel conflitto del 2006 e messo a disposizione della difesa nazionale, è svanito in poche settimane mentre finivano triturati dalle esplosioni i maggiori esponenti, compreso “l’inattaccabile” Nasrallah. Uno smacco pesantissimo che dovrebbe essere letto con occhio preoccupato dalla società libanese visto che Israele  prosegue la pressione su quel territorio e la memoria della popolazione non va solo a quanto accadde nel 1978 e 1982, ma a quanto Israele mostra in Cisgiordania e sulle alture del Golan. L’agenzia Reuters ha rivelato che un alto funzionario di Hezbollah si mostra disponibile a trattare con Aoun la questione delle armi solo se Israele si ritira completamente  e interrompe gli attacchi sul Paese. L’Idf è tuttora posizionato in cinque punti strategici vicino al confine meridionale libanese e si sarebbe dovuto ritirare già da due mesi, ma anche le milizie sciite dovevano deporre le armi e questo non è accaduto. Fra smentite e discorsi a mezza bocca chi è vicino al Partito di Dio fa sapere che sarebbe disponibile a un dialogo nazionale e allo sviluppo d’una strategia di difesa, non al disarmo. Dal momento dell’insediamento Aoun s’è impegnato a garantire che lo Stato libanese diventi l'unico garante bellico: "La decisione di limitare il possesso di armi allo Stato è stata presa. Sarà attuata col dialogo, non con la forza”. Fra le ipotesi in circolazione c’è quella di un’integrazione nell’esercito di Beirut dei combattenti di Hezbollah. Bisognerà vedere cosa pensa Teheran, sebbene un’ipotesi favorevole al disarmo esiste e viaggia attorno ai colloqui sul nucleare ripresi fra la delegazione statunitense e iraniana in Oman, e che sabato avrà come ulteriore sede l’Italia. Fra gli analisti c’è chi pensa che conservatori e riformisti nel Paese degli ayatollah assillato dalla morsa economica dell’embargo convergano tutti sull’opportunità riapertasi coi dialoghi, che proprio la prima amministrazione Trump aveva troncato. I negoziatori parleranno delle percentuali d’arricchimento dell’uranio ma pure degli assetti geopolitici mediorientali. E per il Libano la situazione è sicuramente più malleabile rispetto a Gaza.

giovedì 10 aprile 2025

Turchia fra codice penale e codice politico


L’articolo 299 del codice penale turco, che riguarda “insulti al presidente della Repubblica”, è lo scoglio contro il quale s’infrangono le reali o presunte trasgressioni di attivisti, politici, giornalisti e semplici cittadini. Un richiamo pretestuoso all’articolo da parte della magistratura può diventare l’alibi utilizzato da chi ne beneficia per incarcerare per almeno tre anni chi solleva non insulti ma critiche, motivate e politiche che dovrebbero essere previste dal confronto democratico. Eppure il pericolo rappresentato dal tentato golpe del luglio 2016 ha sedimentato questa violazione rendendola non grave, bensì gravissima e accoppiata all’articolo 301, che punisce l’offesa alla “turchicità” dello Stato e delle Istituzioni con pene doppie (da sei anni in su), può costituire la pietra tombale per l’attività politica dell’eventuale condannato. Ovviamente c’è di peggio: il reato di terrorismo, che colpisce la sicurezza e la tutela nazionali, può condurre al carcere a vita. Il noto leader e fondatore del Partito Kurdo dei Lavoratori (Pkk) Abdullah Öcalan è danneggiato da tale accusa e recluso da ventisei anni.  Un’altra figura di primo piano della politica in Turchia, il co-presidente dell’ex Partito Democratico dei Popoli (Hdp ora Dem) Selahattin Demirtaş, è incarcerato da circa un decennio per presunto fiancheggiamento del Pkk, mentre l’ex sindaco di Istanbul di sponda repubblicana Ekrem Imamoğlu ha scampato quest’accusa, ma è detenuto in attesa di giudizio per reati di corruzione. A nulla è servito il plebiscito con quindici milioni di consensi col quale l’antico partito kemalista Chp l’ha incoronato candidato alle presidenziali del 2028, elezioni che il capo dei repubblicani Özel vorrebbe anticipare. E nulla sembra smuovere una protesta a sostegno del sindaco che nella metropoli sul Bosforo ha toccato punte di oltre uno o due milioni di manifestanti per strada. Anzi gli scontri che ne sono seguiti e hanno portato in carcere circa duemila persone, per quanto molte rilasciate, sono additati dal governo dell’Akp e dallo stesso Erdoğan come un pericoloso turbamento della sicurezza interna. 

 


All’assalto ai manifestanti a suon d’idranti, spray urticanti, lacrimogeni e successive denunce per procurate violenze su centocinquanta poliziotti, si aggiunge la reclusione per trecento contestatori e centotrentanove rischiano accuse per diversi anni di detenzione. Fra costoro sono finiti i giornalisti Bulent Kilic, Kurtulus Ari, Yasin Akgul, Zeynep Kuray, Gokhan Kam, Ali Onur Tosun, Hayri Tunc intenti a seguire per vari media i sit-in e i presidi creati nei giardini di Saraçhane accanto all’edificio che ospita il Municipio. I cronisti avrebbero violato una legge che “vieta la partecipazione a proteste non autorizzate”, sebbene fossero lì non come partecipanti alle manifestazioni ma per garantire al Paese e ai cittadini l’informazione. L’opposizione, stretta attorno al Chp, sostiene categorica che la mobilitazione proseguirà, ricevendo aiuto anche dal movimento degli studenti universitari che, soprattutto a Istanbul, aveva già espresso insofferenza e dissenso quattro anni or sono, in uno degli atenei affacciati sul Bosforo denominato Boğaziçi. Allora si protestava contro un rettore imposto con nomina governativa, che umiliava la tradizione di scelta della guida accademica fra il corpo docente, e chi fra i nuovi allievi oggi parteggia per la protesta pro Imamoğlu lo fa a favore del medesimo principio di libero arbitrio. Certo, quello che per l’elettorato repubblicano vuol essere l’attacco al cielo dello strapotere erdoğaniano non ha finora visto, e rischia di non vedere né in piazza né altrove, l’intera opposizione politica. Il riferimento è al partito filo kurdo Dem che stamane ha avuto un cordiale incontro col presidente da parte dei rappresentanti Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan. Non accadeva da tredici anni. Tema: una Turchia libera dal terrorismo. E’ un passo che segue il dialogo avviato nello scorso autunno dal maggiore alleato dell’Akp, Bahçeli leader del Partito Nazionalista, che promette la liberazione di Öcalan in cambio dell’azzeramento della lotta armata kurda. Il percorso è lungo e tortuoso, anche perché la frangia militarista del Pkk non è convinta della bontà dell’accordo, ma personalmente Erdoğan tiene parecchio a una  pacificazione dal valore doppio: sicurezza come obiettivo raggiunto da sbandierare nell’urna presidenziale dove, se i Dem sosterranno col voto parlamentare un ulteriore ritocco costituzionale, potrebbe partecipare per l’ennesima volta.

giovedì 3 aprile 2025

Israel Destruction and Occupation Forces

 


L’ecatombe a Gaza, con tanto di rioccupazione di terra per togliere la Terra a chi seppellisce i suoi morti, rinnovati bombardamenti israeliani sulla base siriana di Tiyas ‘giustificati’ dalla presenza turca in quella struttura aerea militare. Le agenzie internazionali informano come Ankara e Damasco stiano patteggiando una difesa aerea dallo scorso mese di dicembre, a seguito della fuga dal potere di Asad. Dallo stesso periodo Israel Defence Forces ha allungato il chilometraggio con cui occupa da decenni le alture del Golan e iniziato a martellare dal cielo la base denominata T4, quella su cui Erdoğan e al-Shaara stanno concordando d’istallare un sistema di copertura aerea. "Un sistema tipo Hisar sarà schierato al T4 per fornire difesa aerea" aveva annunciato da mesi il portavoce del premier siriano in pectore. In quell’impianto Ankara prevede di utilizzare droni di sorveglianza e armati, compresi quelli con capacità di attacco esteso; a Israele non sta bene e punta a boicottare il piano col fuoco. Il braccio di ferro non fa che aumentare la tensione, l’ennesimo attacco di stanotte – il bombardamento d’una struttura di ricerca scientifica a Barzeh, così riferisce l’agenzia siriana Sana – più uno nella periferia di Hama creano una condizione di conflitto strisciante. Tel Aviv, invece, sostiene di stare a colpire solo depositi militari. Da oltre una settimana le operazioni belliche dell’Idf sono state molteplici, non solo raid aerei. Nella provincia di Daraa l’aggressione s’è sviluppata via terra e conferma la volontà del governo israeliano di ampliare l’area d’occupazione verso il sud-est siriano. La precarietà della gestione amministrativa attuata dal gruppo ribelle Hayat Tahrir al-Shaam che prova a ‘normalizzare’ del Paese, paga ancor più lo scotto sul fronte bellico contro un avversario altamente tecnologicizzato. Per questo l’ex miliziano ora ‘statista’ al-Shaara spera in una rapida attuazione del monitoraggio dei droni forniti dalla Turchia che potrebbero dissuadere Israele dalle reiterate incursioni dal cielo. Certo, non solo la fornitura armata ma la presenza di ‘consiglieri turchi’ a favore di Damasco viene considerata da Israele una minaccia diretta alla propria nazione, che sta anche lamentandosi con l’alleato statunitense della proposta della Casa Bianca di ridimensionare o cancellare del tutto le sanzioni introdotte all’epoca dell’acquisizione turca del sistema missilistico S-400. Rinunciando alle rampe russe, da smontare e immagazzinare, Ankara verrebbe blandita con forniture made in Usa, legate però alla versione Patriot Pac-3, missili versatili ma meno rapidi dei concorrenti. Trump comunque strizza l’occhio a Erdoğan, in un rimescolamento dei pacchetti d’offerta proporrebbe anche di aprire le porte a forniture di F-35, sospesi al momento dell’idillio fra i presidenti russo e turco. Il turbinìo mercantile trumpiano è a getto continuo, con e senza dazi. Netanyahu è ridotto a spettatore, sebbene prosegua a ricevere da Oltreoceano il benestare di stragista su Gaza per l’ideuzza del resort da far seguire alla deportazione gazawi. A cui può aggiungersi l’assenso sul ‘Levante siriano’ da annettere manu militari  come accade da quasi un sessantennio per il Golan.


 

mercoledì 2 aprile 2025

Afghanistan, tanto fondamentalismo scarsa sanità

 


Senza dottori, senza personale sanitario, strutture e spesso senza cure. Accade nell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dove la popolazione subisce i doppi effetti della presa di potere talebano dall’estate 2021 e dell’embargo internazionale al regime. Anno dopo anno i vertici del potere interno hanno limitato e poi impedito il lavoro femminile negli ospedali e nei centri sanitati che sono drasticamente diminuiti per il graduale taglio di fondi operato dai Paesi occidentali che applicano sanzioni al governo fondamentalista. Di fatto le province afghane negli ultimi quattro anni registrano un dimezzamento di quest’impianti, passati da tremila a millecinquecento.  Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca gli aiuti statunitensi all’estero, non solo verso l’Afghanistan, sono stati bloccati e la popolazione dell’Emirato ha perso altre 206 unità sanitarie. Tali restrizioni, unite al considerevole numero di medici che aveva abbandonato il Paese già con la salita al potere dei taliban, costringe le madri a spostamenti su distanze sempre maggiori per curare e sottoporre a profilassi varie, come l’antipolio, neonati e figli minori. Viaggi resi difficoltosi non solo dalle carenze di vie e mezzi di trasporto, ma dalle imposizioni sostenute dal Gotha dei turbanti stretto attorno alla Guida Suprema Akhundzada. Suo l’obbligo della presenza del mahram (un parente maschio) durante spostamenti significativi delle donne, fattore non sempre di facile soluzione che va a discapito della finalità del movimento e blocca volutamente  il mondo  femminile in casa e nei luoghi d’origine. I rigidi princìpi della Shari’a con cui i ‘duri e puri’ del movimento talebano  negano da tempo l’occupazione femminile in uffici, scuole, centri sanitari oltre a inibire un diritto - limitato ma parzialmente fruibile coi governi sostenuti dall’occupazione Nato - crea oggettive carenze nelle attività di assistenza indispensabili alle figure più deboli: malati, bambini, anziani. Nell’ultimo studio proposto dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (l’organismo che la linea trumpiana perseguita e vuole smantellare)  proprio le donne afghane in generale, dunque non solo le anziane, risultano le più penalizzate. I dati del 2023 calcolavano che su 15 milioni di donne residenti solo 4 milioni hanno potuto ricevere assistenza. Così il genere femminile lamenta un calo dell’aspettativa di vita, costellata peraltro di malattie. Statistiche sempre del 2023 stilate dall’Organizzazione mondiale per la sanità mostrano per le donne un calo medio di due anni, da 63,2 a 61. Le carenze sanitarie si potrebbero essere abbattute sullo stesso Akhundzada, sempre schivo nell’apparire pubblicamente, ma da troppo tempo in disparte. Un’infezione al Covid 19 nel periodo più acuto della pandemia lo dava malato e si è avanzata l’ipotesi d’un suo decesso tenuto comunque celato per non destabilizzare il gruppo di comando stretto attorno a due altri duri: i ministri dell’Interno Sirajuddin Haqqani e quello della Difesa Mohammad Yaqoob. Ciascuno ha alle spalle clan potentissimi, gli Haqqani vicini alle madrase deobandi pakistane, mentre Yaqoob, figlio maggiore del defunto mullah Omar, imparentato al ceppo pashtun dei Ghilji gruppo di potere radicatissimo nelle province di Kandahar e Zabol. Al di là della storia che li fa temibili guerrieri, la dinastia Hotak dei Ghilji è di strada e di casa a Quetta, la città pakistana dove si riunisce la più importante Shura talebana. E’ lì che prese avvìo il movimento degli studenti-combattenti svezzati da Omar. Sunniti di scuola hanafita, sono fra gli islamici più dogmatici e intransigenti e, al di là delle diatribe interne con cui s’è detto che Omar non morì per infezione ma per una fronda organizzata da Mansoor, a sua volta ucciso da un drone statunitense, chi prende in mano la guida talebana assume posizioni oltranziste per tradizione. S’era ipotizzata una direzione più morbida con Abdul Baradar, detenuto per otto anni in Pakistan e liberato su richiesta statunitense proprio durante il primo mandato di Trump, ma dopo un incarico da vice primo ministro, il suo astro nel nuovo Emirato s’è offuscato. Comandano i fondamentalisti.