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venerdì 18 giugno 2021

Ahmadinejad ai microfoni Rai, riflessioni a ritroso

Fa un certo effetto ascoltare Maḥamūd Ahmadinejad, due volte presidente iraniano, poi caduto in disgrazia più che per i brogli elettorali del giugno 2009, per dissidi col suo sponsor Khamenei nel corso della seconda contestata amministrazione. Fa effetto vederlo davanti alle telecamere della Rai, che a seconda dei casi accoglie o emargina personaggi. Quando l’uomo era ai vertici della nazione, e avrebbe avuto senso intervistarlo, seppure sostenesse posizioni di aperta conflittualità con l’Occidente, non godeva dell’attenzione del più potente media italiano. Ora l’inviata Rai va a cercarlo e ne registra svariate perplessità. La chiacchierata pur breve è controcorrente e, comunque, interessante. Ahmadinejad era caduto in disgrazia nel corso del suo mandato per il doppio peccato di aver brigato contro un certo clero, sostenendo le velleità dei laici del partito Pasdaran - cui anche le organizzazioni Basij, da cui lui proviene, si schieravano - e aver sostenuto il movimento religioso Hojatiye. Il primo attrito col tempo s’è attenuato, i laici Guardiani della Rivoluzione, occupando attraverso bonyad direttamente controllate un bel pezzo dell’economia (sebbene questa continui a soffrire per l’embargo occidentale) non contrastano più, come stava accadendo nei primi anni del Millennio, figure del clero per il ruolo presidenziale. Fra i due gruppi di potere vige un compromesso, perciò come negli anni Novanta i contrasti sono ricondotti alle posizioni socio-politiche riformiste e conservatrici. I moderati dopo aver perso il padre nobile Rafsanjani, scomparso nel 2017, hanno avuto negli otto anni di presidenza Rohani uno scarso impatto nelle evoluzioni interne, nonostante le aspettative degli accordi sul nucleare. 

 

L’altro peccatuccio di Ahmadinejad, affermare le teorie mistiche Hojatiye, è venuto meno non solo per la scomparsa sei mesi or sono del grande sostenitore di questa corrente, l’ayatollah Yazdi, che fu suo padrino politico, e negli ultimi anni ha lanciato Ebrahim Raisi. A smentire che nello stesso clero conservatore tutto sia inamidato, c’è stata l’accettazione da dell’ayatollah Khamenei d’un nuovo pupillo di Yazdi, sia per la carica presidenziale, sia di futura Guida Suprema. Insomma Raisi diventerà nuovo leader iraniano per decisione presa dagli apparati più che dalle urne, desertificate prima che dal timore dei contagi Covid che comunque corrono, dalla diffusa disillusione verso ogni linea attualmente presente dentro e fuori il Majles. E l’ineffabile Ahmadinejad, che quattro anni addietro provava a ricandidarsi ma venne stoppato da Khamenei e dal Consiglio dei Guardiani? Stavolta non solo è rimasto fermo per qualsivoglia passo politico, ma ha snobbato le urne. Sotto i riflettori Rai annunciava il suo disimpegno elettorale, come fosse uno dei tanti ragazzi intercettati da inviati stranieri e cronisti locali che riportavano il comune sentire della cittadinanza: astensione. Eppure l’ex basij s’è tolto qualche sassolino dalla scarpa, che un tempo da studente lanciava sull’effige del presidente Carter, durante la famosa occupazione dei 444 giorni dell’ambasciata Usa. Nel tragico 2009, beh non si dovevano arrestare tutti quei manifestanti né tantomeno i suoi diretti antagonisti, Mussavi e Karrubi, dice oggi. Magari il presidente-basij era consapevole degli ‘aiuti’ ricevuti col voto, ma la gestione della repressione era roba d’altri e lui fu una semplice pedina. Come quando venne scelto per il ruolo di duro, dopo gli otto anni di libere speranze impresse da Khatami. 


 

 

giovedì 17 giugno 2021

Hazara: genocidio, autodifesa, conflitto etnico

Che gli hazara afghani siano l’etnìa più colpita dal fondamentalismo islamico è da anni sotto gli occhi di chiunque segua e voglia capire dove sta andando il Paese del ‘Grande Gioco’ imperialista e dei mille e uno Signori della Guerra. A tal punto che negli ultimi tempi un buon numero di questi rifugiati in diversi angoli del mondo sta facendo rete e lancia un richiamo inequivocabile: è in atto un genocidio verso l’etnìa che in territorio afghano conta circa nove milioni di abitanti. Se si va indietro di alcuni secoli i testi storici parlano di una maggioranza di questa gente che vive concentrata in un’area nota come l’Hazarajat, a cavallo fra gli attuali Iran e Afghanistan. Se si cercano le origini, storici e antropologi dibattono contrastandosi. Una teoria fa degli hazara i discendenti dei mongoli di Gengis Khan, un’altra li identifica come popolo autoctono di origine uiguro-turca insediato nella regione di Bamiyan, quella dei famosi Buddha distrutti dai talebani prima della loro uscita da Kabul nel 2001. Mentre uno studio recente fra gruppi di hazara presenti in Pakistan riporta i loro cromosomi alla stirpe del famoso condottiero mongolo. Dna permettendo, lo spirito collettivo dell’attuale comunità è in gran parte rivolto ad altri mestieri più che all’arte della guerra, di cui invece subisce i colpi nelle situazioni più varie. Nei giorni scorsi un’ennesima strage ha investito una decina di lavoratori impegnati come sminatori con l’Ong britannica Halo Trust. La quale afferma di voler a ogni costo mantenere l’impegno di bonifica nell’area di Baghlan, ma occorrerà vedere se potrà farlo, poiché per l’ennesima volta l’attentato evidenzia l’impotenza dell’esercito locale sul fronte della sicurezza. 

 

Autori del raid assassino i miliziani dell’Isis Khorasan, attuali sterminatori del ceppo sciita, gli stessi che hanno freddato studentesse e studenti presso le scuole di Kabul, in diverse circostanze colpite con agguati sanguinosissimi. E poi autobomba nel quartiere di Dasht-e Barchi della capitale e kamikaze nelle moschee sciite. Una persecuzione a tutti gli effetti che secondo il tam tam messo in atto dai cittadini riparati all’estero (Canada, Australia, Ragno Unito, Svezia) è un tutt’uno col genocidio avviato a fine Ottocento dal leader pashtun Abdul Rahman, le cui stragi dimezzarono l’etnìa. Fra gli attuali hazara ‘spaesati’ una fetta ancor più consistente vive in Pakistan, paradossalmente proprio a Quetta, la patria dei talebani ortodossi, e nell’Iran orientale, nell’area della città santa di Mashhad, che almeno sul versante religioso dovrebbe proteggerli in quanto devoti alla fede sciita. Proprio questo credo, che il sunnismo intransigente addita come infedele, ridiventa l’alibi per i cruenti e reiterati spargimenti di sangue perpetuati. L’incognita che l’Afghanistan sta attraversando in questi mesi è focalizzata su quale governo s’insedierà dopo il ritiro delle truppe Nato, i contrasti fra il fallimentare esecutivo Ghani e i taliban sono così palesi che due anni di mediazioni non hanno avvicinato i due fronti d’un millimetro. L’incubo che attanaglia la popolazione è quello di ritrovarsi schiacciata fra la prova di forza, e di guerra, dell’Afghan National Forces Army e le milizie talebane. Una situazione peraltro conosciuta e pagata col sangue da anni. Dunque, non cambierà nulla? Per chi crepa per strada, no. E da quanto s’è visto negli ultimi tempi il conflitto sarebbe di facile appannaggio per i turbanti. Più intricata, seppure anche questa già vista, sarebbe una conflittualità ridivisa per etnìe. Simile, seppur non identica a quella che afflisse il Paese a inizi anni Novanta. Allora a scontrarsi erano Warlords che dietro avevano gruppi etnici e truppe di riferimento: leader pashtun contro tajiki, uzbeki, hazara. 

 

Proprio un odierno hazara, Ghani Alipur, noto come il ‘comandante spada’ ha strutturato gruppi di autodifesa nella provincia di Wardak e, con minore efficacia, nella zona ovest di Kabul, che ha continuato a essere tempestata da attentati. Un comportamento pragmatico riesce a vender cara la pelle davanti a nemici che si scontrano in campo aperto, ma poco o nulla può verso le bombe celate in automezzi, Ied e cinture esplosive. D’altro canto armarsi in un luogo di guerra infinita come l’Afghanistan, non appare un controsenso e la logica di Alipur sembra essere quella della difesa attiva. Ma la scelta propende per quello scontro fra bande che fu dei Signori della guerra, mentre una parte della società civile idealizza un Afghanistan che possa uscire dal vicolo cieco delle contrapposizioni etnico-religiose. Probabilmente questa è un’utopia, visto che ogni gruppo socio-politico, anche chi ha fallito seguendo il modello imposto dagli occidentali, ha chiaro come per sopravvivere occorra mostrare i muscoli, seguendo un mix di difesa-offesa. Soluzioni collaborative e pacificate all’orizzonte non se ne vedono, poiché ogni fazione ripropone visioni antiche oppure rilancia nuove supremazie a danno d’altri. E’ anche vero che certa geopolitica sparsa dappertutto, dunque non solo in Medio Oriente, fa della deterrenza una tattica utile a non far precipitare situazioni delicatissime. Al di là di ritrovarsi compressi fra i due vicini intriganti e ingombranti - Iran e Pakistan - che attuano ogni genere d’ingerenza sul fantasma statale afghano, gli hazara pensano a due percorsi: la via della solidarietà internazionale per evitare il genocidio, propugnata dagli elementi della diaspora; la difesa con ogni mezzo, praticata dai locali, d’una vita negata da nemici faziosi e dall’impossibilità di avere una comunità afghana interetnica e interreligiosa.


mercoledì 16 giugno 2021

Presidenziali in Iran, astensione e conservazione

L’elezione presidenziale numero diciotto dall’avvìo della Repubblica Islamica Iraniana può avere, anche prima dell’apertura delle operazioni di voto, un vincitore: l’astensionismo. Questa appare la tendenza che reporter in loco e analisti internazionali stanno offrendo da settimane, soprattutto dal giorno del giudizio espresso dal Consiglio dei Guardiani, il severo selezionatore dei candidati. Dei sette ammessi: Mohsen Rezai, Saeed Jalili, Ali Reza Zakani, Hossein Ghazizadeh, Mohsen Mehralizadeh, Abdolnasr Hemmati, Ebrahim Raisi è quest’ultimo il candidato forte. Già provato nell’elezione del 2017, dove ancora una volta un pezzo di popolo sostenne il moderato Rohani, per evitare una caduta nel conservatorismo che il chierico di Mashhad si porta dietro dall’epoca della sua formazione a Qom. Studiò con l’ayatollah Motahhari, uno dei più importanti discepoli di Khomeini, cofondatore del cosiddetto ‘clero combattente’ che tanta importanza ebbe nell’orientamento teologico della Rivoluzione Iraniana. I detrattori di Raisi, soprattutto i Mujahedin del Popolo riparati da decenni all’estero, ne sottolineano le nefandezze delle condanne a morte inferte ai propri commilitoni, all’epoca prigionieri politici nel Paese dopo i conflitti interni del biennio 1979-81. Raisi insieme ad altri tre membri fu nominato dal marja Ali Montazeri, responsabile della repressione, aveva 28 anni e si distinse per rigore e risolutezza. Le pene capitali comminate furono migliaia, sebbene è tuttora aperta la controversia sul numero delle vittime: duemilaottocento per ammissione del regime, trentamila secondo gli oppositori che non erano solo Mujahedin, ma Fedayn e aderenti al Tudeh. 

 

Dopo la morte di Khomeini, l’emarginazione di Montazeri a favore di Khamenei diventato Guida Suprema, sponsor clericale di Raisi divenne l’ayatollah Yadzi (recentemente scomparso) che lo volle procuratore a Teheran. Da quel momento sotto la potente ala dei principisti la carriera di Raisi è stata tutta in ascesa: nel decennio 2004-2014 ha ricoperto l’incarico di vice capo della Giustizia, divenne poi membro dell’Assemblea degli Esperti, nel 2016 Procuratore generale del Paese e dal 2019 Presidente della Corte Suprema. E’ tuttora il più accreditato a sostituire un malandato Khamenei, in più occasioni dato per spacciato, ma coriacemente attaccato al ruolo di Guida Suprema. Un incarico presidenziale del mullah della città più tradizionalista porrebbe qualche problema alla distensione con gli Stati Uniti, che da tempo l’additano fra le nove figure pubbliche iraniane responsabili  di violazione di diritti umani. Ma l’altalena della politica estera mondiale all’occorrenza volta pagina in fretta. Certo, anche lui dovrebbe smussare posizioni di un’intransigenza fuori dal tempo, come l’affermata, e mai smentita, segregazione sessuale femminile “la maggior parte delle donne lavora meglio in certe condizioni” disse pubblicamente. Comunque, egli stesso di fronte a un possibile successo, già dimezzato dalla prevista bassa affluenza, avrebbe storto il naso sulla rigida selezione dei candidati (seicento i nominativi) attuata dal Consiglio dei Guardiani. Un parterre striminzito e privo di reali avversari non può che ridimensionare l’elezione stessa e il vincitore. Però ormai è fatta. L’ala ultraconservatrice vuole riprendersi le redini ufficiali del Paese, sebbene i settori militare ed economico li tiene ben stretti e controllati col ‘partito dei Pasdaran’. Che alle elezioni presentano un loro uomo potente ma non carismatico, Mohsen Rezai, mentre quattro anni fa schieravano il sindaco di Teheran Qalibaf, ora non utilizzato. Eppure più che esporsi direttamente con una carica visibilissima, i Pasdaran hanno impedito l’ascesa di moderati navigati e di spessore come Larjani e di para riformisti come Zarif. 

 

Quest’ultimo è stato bruciato dalla rivelazione, compiuta dall’agenzia Fars, su dichiarazioni anti Soleimani, che di per sé è una bestemmia assoluta, visto che dopo l’assassinio il generale della Forza Al-Qods più che martire è diventato un santo (cfr. https://enricocampofreda.blogspot.com/2021/04/iran-le-verita-strappate-zarif.html). In tal modo il cerchio s’è chiuso attorno a figure minime, con l’unica eccezione del tecnocrate Hemmati, che è economista e professore e pure brillante nell’eloquio. Non teme le missioni impossibili, ha guidato la Banca Centrale, organismo esposto ai marosi dell’inflazione che da anni affligge una nazione  dove anche la spesa minuta nei bazar sta diventando una piaga purulenta. Però la svalutazione del rial, da anni in caduta libera, non pone in buona luce l’uomo d’apparato. Lui, e altri esponenti del regime, punteranno l’indice sull’embargo statunitense, dichiarando peraltro una verità inconfutabile. Negli anni della stessa presunta ‘distensione’ sul nucleare per gli accordi raggiunti, l’embargo è stato responsabile d’una forma subdola di ostacolo finanziario. Impediva o limitava le transazioni, da quelle delle grandi aziende alle stesse attività minute d’un turismo brevemente rilanciato prima del gelo creato dal Covid 19. Accanto all’inflazione anche la pandemia ha colpito duro, per numero di vittime (il più copioso del Medio Oriente), per difficoltà di ottenere vaccini e inocularli (le cifre ufficiali sono ferme al 5% di popolazione) e i problemi sedimentano. Tanta gente eviterà il seggio anche per evitare i contagi, seppure il contagio più temuto dai vertici dell’establishment sia stato contenuto proprio con questa scelta limitata e scontata, volta a conservare un futuro  direzionandolo al passato.

martedì 15 giugno 2021

Egitto, Fratelli Musulmani dalla prigione alla forca

Mohamed Beltagy prima di entrare nel Parlamento egiziano, incarico che ha ricoperto dal 2005 al 2010, dunque durante l’ultima presidenza Mubarak, era un medico. Oltre alla professione, l’attenzione per questioni sociali l’aveva già spinto verso l’attivismo politico aderendo alla Fratellanza Musulmana. Da deputato attento alle questioni internazionali Beltagy nel maggio 2010 era a bordo della Mavi Marmara in rotta verso Gaza. Quella missione, organizzata dalla Confraternita turca İnsani Yardım Vakfı e denominata Freedom Flotilla, trasportava aiuti umanitari alla popolazione della Striscia posta sotto assedio e conseguente embargo da Israele. La nave subì l’arrembaggio dei reparti speciali di Tel Aviv che uccisero nove attivisti umanitari. Non è stata l’unica violenza osservata da vicino dal medico-deputato. Nel luglio 2013 dopo il colpo di mano militare, sostenuto anche da partiti laici, contro il presidente Mohamed Morsi, Beltagy già defraudato dei suoi beni posti sotto sequestro da un procuratore nominato dalle Forze Armate, vide morire Asmaa, sua figlia diciassettenne, che partecipava al sit-in di protesta davanti alla moschea Rabaa al-Adawiyya. La ragazza fu uccisa con colpi d’arma da fuoco che la colpirono al petto e alle spalle. Morì come centinaia di altri giovani e adulti, una strage passata sotto silenzio, di cui solo pochi media parlarono. Il crimine, perpetrato con l’uso di armi leggere, mise a tacere un numero spaventosamente alto di cairoti. La Brotherhood denunciò la morte di duemila persone, passate per le armi nella piazza e nelle vie circostanti, Human Rights Watch ne ha accertato un migliaio, ma le autorità impedirono ogni sopralluogo internazionale e usarono seppellire molti cadaveri in fosse comuni, bloccando ogni cerimonia funebre. 

 

Era in atto quello stato d’assedio di cui la capitale, e il Paese intero, non si libereranno più, col passaggio del feldmaresciallo Abdel Fattah Sisi da ministro della Difesa, qual era all’epoca della strage, a Presidente della Repubblica. Beltagy, come altri politici islamici non potè piangere sua figlia. Venne arrestato poco dopo dalle Forze della Sicurezza di Giza. Rimase in prigione fino alla sentenza che nell’aprile 2015 gli inflisse vent’anni di reclusione. In questi giorni la condanna è tramutata in pena capitale. Coivolge lui e altri esponenti del Partito della Libertà e Giustizia, tutti detenuti. Fra i più noti Osama Yassin, già ministro della Gioventù durante il governo Qandil, l’esecutivo che rimase in piedi per circa un anno prima del citato golpe bianco. Lo stesso Yassin è un medico, ma durante la rivolta del gennaio-febbraio 2011 era noto come “capo della sicurezza” fra la gioventù islamica che partecipava agli scontri di piazza Tahrir. Era vicino alle posizioni d’un altro leader forte della Fratellanza Khairat al Shater, il carismatico imprenditore in predicato a diventare presidente, che il partito mise da parte preferendogli Morsi. Al-Shater, come altre figure di spicco della Confraternita, venne condannato a morte nel 2015, una pena bloccata a favore dell’ergastolo. Verso gli attuali condannati - oltre a Beltagy e Yassin, anche Essam Sultan e Asfwat Hijazi sono stati colpiti dalla pena capitale - si potrebbe registrare la catena dei rinvii, quella sorta di “fine pena mai” che coinvolge nomi, loro malgrado, diventati noti, come lo specializzando all’università di Bologna Patrick Zaky. Mentre per lui le speranze di libertà non scompaiono, e sebbene di recente qualche detenuto sia stato rimesso in libertà, per i citati esponenti della Fratellanza, su cui oscilla lugubremente il cappio militare, sarebbe già un obiettivo minimo bloccarne l’esecuzione capitale.

domenica 13 giugno 2021

Modi, il populista bollywoodiano

Se il populismo negli ultimi anni è stato, ed è, una frenesia aggregante capace di mettere radici in differenti sistemi della geopolitica mondiale, è anche vero che il peso specifico che caratterizza alcuni degli interpreti più in voga si relaziona a diverse variabili. Insomma il carisma, presunto o recitato, non basta. Donald Trump ha accoppiato spunti eversivi e la potenza dell’impero americano, il suo giro di giostra durato un quadriennio è parso lunghissimo e forse non avrà altre chance. Una meteora? Lui probabilmente sì, non il modello in sé. Altrove dei pesi massimi, laici o parareligiosi, che paiono immarcescibili, Putin ed Erdoğan, da un ventennio orientano a piacimento il rispettivo panorama politico interno. Ci riescono grazie all’indubbia capacità di gestirlo e farlo condizionare da scelte internazionali, anche quelle particolarmente rischiose segnate, accanto agli affari, da intrecci, intrighi, conflitti diretti e per procura. Populisti di cabotaggio inferiore, limitati nell’influenza internazionale come il brasiliano Bolsonaro, e i soggetti piccoli-piccoli alla Viktor Orbán, chiuso sulla sua popolazione, oppure che vivono quel ruolo nella presunzione di poter agguantare incarichi nazionali di primo piano (Salvini e Meloni), fanno parlare di sé solo nei prosceni interni. Ma il populista pop per eccellenza, Narendra Modi, non viene valutato in tutta la sua deflagrante pericolosità. Eppure la ricaduta delle sue azioni sul Paese prossimo a toccare il top demografico mondiale, pur di fronte alla disperante situazione di morte per la pandemia del Covid, risulta inquietante. Dalla sfera legislativa (le norme sull’apartheid verso gli immigrati islamici in Kashmir e le recenti decisioni scagliate contro gli agricoltori) con conseguenti ricadute securitarie e sociali, i tagli ai già  scarsissimi fondi per sanità e istruzione, l’uso fondamentalista della religione hindu che va a braccetto col razzismo nazionalista delle formazioni dell’hindutva che fanno dell’esclusivismo e dell’intolleranza il proprio credo e la propria esistenza. La corrispondenza fra il partito di maggioranza e i picchiatori del Rashtriya Swayamsevak Sangh ha trovato nel populista Modi un facilitatore sin dall’epoca in cui l’uomo guidava lo Stato del Gujrat.

 

Sebbene la violenza sembra lontana mille miglia dall’immagine rassicurante, quasi ieratica, che le sue pose da guru con tanto di filosofica barba propongono e diffondono. La macchina di propaganda di cui gode poggia sui maggiori media nazionali, che ovviamente anche chi l’ha preceduto ha utilizzato a proprio vantaggio come il contestato clan Ghandi. Però gli attuali comunicatori d’apparato non contengono un servilismo che sfiora una ridicola illogicità e trattano gli ascoltatori da infantili creduloni cui si può dire di tutto. Gli ultimi due mesi - quelli delle migliaia di vittime quotidiane di Sars CoV2, delle pire spontanee che cercavano di impedire ulteriori malattie con la putrefazione dei cadaveri, della carenza cronica di posti letto, bombole d’ossigeno, vaccini - vengono tamponati da slogan: “il premier non è apparso perché troppo impegnato”, “non ha parlato perché lavorava, lavorava e lavorava”. A confronto il tanto ridicolizzato regime di Kim appare un sistema aperto al confronto. Comunque ultimamente Modi ha riparlato e ha promesso di far vaccinare 900 milioni di adulti indiani, nonostante tutto ciò che s’era saputo della crisi del Serum Institute di Pune, i contratti stipulati per forniture estere, la fuga del suo manager (cfr.  https://enricocampofreda.blogspot.com/2021/05/covid-19-e-disastro-indiano.html). Nell’India odierna basta credere: a Brahma, Shiva, Baba Ramdev e naturalmente a Modi. E soprattutto non essere informati non tanto sulla quantità dei contagi, totalmente fuori controllo nelle forme iniziali e nelle varianti che si producono, compreso il terribile “fungo nero” che gli scienziati non sanno ancora se correlato alla pandemia, ma anche sul numero delle vittime, assolutamente sottostimato, su dove e come vaccinarsi. Non c’è bisogno di chiosare, perché questo accade anche altrove, che l’appartenenza a ceti benestanti è una discreta garanzia di tutela anche sanitaria, ma proprio gli strati diseredati che credono e votano il premier-guru non focalizzano i modi e la sostanza del raggiro. Seguono fedelmente un capo che ama le adunate oceaniche meticolosamente coreografate con danze e musiche che paiono uscire dagli Sudios di Bollywood, che seleziona le interviste, evita i contraddittori con avversari politici e giornalisti incalzanti. Finora gli è andata bene, il popolo continua a guardarlo con occhi incantati, chi gli si oppone conosce la galera, certe regioni vivono da mesi in stato d'assedio. E' un film destinato a durare?

venerdì 11 giugno 2021

Bharatiya Janata Party, spaccature sulla rivolta contadina

Il Punjab, uno fra gli Stati indiani che ha dato impulso e manifestanti alla gigantesca protesta contadina contro la legge voluta dal partito di governo, non offre nessun contributo allo sblocco d’una situazione congelata. Del resto sono direttamente il premier Modi e il suo ministro dell’Agricoltura Narendra Singh Tomar a difendere a spada tratta le normative che gli agricoltori contestano. Le contestano perché ne mette a repentaglio un’attività autonoma a vantaggio delle multinazionali del settore. Ma ultimamente alcune crepe si sono create nel raggruppamento arancione punjabi. Taluni attivisti, che nei mesi scorsi avevano solidarizzato col ceto rurale, hanno chiesto al centro del partito di fare retromarcia. Lo spettro è la perdita di consensi nelle elezioni del prossimo anno. Non contenti degli avvertimenti, questi esponenti sono tornati per via fra gli agricoltori, che rinnovano il tam tam contestatore nonostante i tentativi di nuovo isolamento che la drammatica situazione sanitaria indiana imporrebbe. Il condizionale è d’obbligo, visto che su molte tematiche l’Esecutivo non riesce a contenere esuberanze e desideri di ampi strati della popolazione, esasperati per vari motivi. “E’ meglio che il governo riveda le leggi” dicono alcuni militanti locali del Bjp. E aggiungono che lo spettro delle violente rivolte regionali d’un quarantennio e un trentennio addietro s’aggira in un ambiente sempre pronto a infiammarsi. Composto da una popolazione non così numerosa - trenta milioni d’abitanti - ma tutti impegnati nell’agricoltura per la straordinaria fertilità di quelle terre poste fra cinque fiumi, questo è il significato del nome dello Stato. Frumento e altri cereali con cotone e alberi da frutta costituiscono un patrimonio non indifferente per l’India contadina. Scontentarne la gente, tutta hindu ed elettrice del Bharatiya Janata Pary, non è un atteggiamento ragionevole,  sostengono i riottosi del Bjp.  

 

Veterani di questo raggruppamento nel Punjab che, in qualche caso, hanno rivestito incarichi pubblici nazionali, si mostrano fortemente critici sulla rigidità ideologico-legislativa degli attuali vertici e temono una disastrosa ricaduta socio-politica per Modi. Definito carismatico e capace di rendere possibili cose impossibili, ma su questo tema potrebbe pagare uno scotto altissimo, peraltro già apparso in recenti scadenze alle urne; scontentare i contadini è un errore per la copiosa categoria, per il Paese e pure per il partito. Più chiaro di così? Insomma, i vertici nazionali non possono rilanciare la litanìa che questa legge rappresenta una garanzia sociale, quando gli interessati affermano il contrario. Non si convince con le buone intenzioni chi s’è già fatto i conti in tasca e sostiene che non riuscirà a sfamare i figli. E le famiglie degli agricoltori sono assai numerose… Fra l’altro la cocciutaggine dei consiglieri di Modi e lui medesimo, sta mettendo in crisi alleanze locali, con cui il Bjp amministra vari Stati. All’inverso cresce la solidarietà verso gli agricoltori, altre categorie sono colpite dalla determinatezza fin qui dimostrata e tramite i propri rappresentanti d’associazione promettono aiuti d’ogni sorta. Se una parte della stampa indiana sta dando voce alle dichiarazioni ufficiali del leader Bjp del Punjab, tal Ashwani Sharma, significa che dai palazzi di Delhi si cerca di recuperare una situazione interna che può detonare. Dice Sharma: “Alcuni colleghi offrono punti di vista personali che non hanno alcun peso. Il premier è impegnato a garantire sussidi alla gente dei campi, mentre c’è chi cerca di denigrarne l’operato. Chiedo a tutta la popolazione: cosa ha fatto per anni il Partito del Congresso per i contadini? Perché non ha adottato una moratoria sui loro debiti anche davanti a gesti estremi come il suicidio attuato da alcuni?”. Nell’India aggredita dal Covid la lotta rurale ricompare e spacca il partito del premier.

martedì 8 giugno 2021

Herat, giù le bandiere della guerra

L’ammainabandiera dell’occupazione si svolge a Camp Arena, la base Nato di Herat, casa dei militari italiani, e per vent’anni di diversi giornalisti nostrani ‘incorporati’. Il parà che oggi saluta la mesta discesa degli stendardi (tricolore, stelle e strisce, e l’inventato simbolo del Resolute Support) che tre generazioni di cittadini afghani - dunque non solo i taliban - hanno considerato bandiere di guerra, da domani all’11 settembre prossimo volerà via assieme ai commilitoni. Trascinandosi apparecchiature di difesa e offesa, quelle armi che hanno sempre rappresentato la smaccata contraddizione di missioni cosiddette di pace. I primi cento in divisa giunsero dalle caserme nostrane dal dicembre 2001, due mesi dall’avvio dell’operazione Enduring Freedom. L’ottobre successivo i reparti furono rafforzati con centinaia di specialisti alpini, parà, bersaglieri, carabinieri per l’Isaf Mission, e dal 2014 per il citato Resolute Support. Cinquantamila nostri militari si sono alternati negli anni, con una punta massima di quasi cinquemila effettivi, sempre e comunque diretti dal comando statunitense. E cinquantatré bare di ritorno, più quella d'un suicida. Una missione di servizio più che alla Nato alla politica estera americana, che con George W. Bush decise l’invasione dell’Afghanistan. La mantenne durante i due mandati di Barack Obama, raggiungendo il massimo delle truppe sul campo: 140.000 uomini. Proseguì con Donald Trump, seppure con l’intenzione di sganciarsi da un pasticciaccio geopolitico che ha prodotto esclusivamente danni. Non solo per la disfatta del sedicente progetto di democratizzazione del Paese, una gigantesca balla venduta a un’opinione pubblica che si è voluta, e si vuole, tenere disinformata sulla reale situazione interna. I fatti hanno svelato la corruzione dei politici promossi dall’Occidente - prima Hamid Karzai, quindi Ashraf Ghani -; i loro rapporti coi vecchi Signori della guerra, reintrodotti nelle Istituzioni e nei governi; il sostegno a un fondamentalismo non inferiore a quello dei talebani che si volevano combattere. 

 

Balle sulla diffusione di servizi scolastici, tuttora impossibili per ampi strati di ragazze e ragazzi che vivono in province perennemente in guerra. E sull’implemento della giustizia civile e penale (a lungo nostri parlamentari si sono vantati di questo), mentre la giustizia era ed è impedita da magistrati conniventi con boss locali, con guerrafondai, coi talebani stessi. Fino all’ulteriore gigantesca bugia della riorganizzazione d’un esercito nazionale che, pur inquadrando fino a 350.000 uomini, ne ha continuato a perdere migliaia per la mancanza totale di prospettive socio-politiche d’uno Stato inesistente. Ai denari gettati al vento: 2.200 miliardi di dollari da parte statunitense, dieci miliardi sul versante italiano, s’aggiungono le inquietanti percentuali sulle condizioni di vita: un tasso di povertà al 55% (nel 2001 era del 33%), su quello di disoccupazione (circa il 10% della media mondiale inalterato anch’esso, come la condizione dei diritti civili). Mentre la produzione dell’oppio in diciott’anni è più che raddoppiata.  Cifre ufficiali dell’Unama dichiarano duecentocinquantamila vittime, ma altre voci provenienti da ambienti contigui ricordano come i numeri passano essere sottostimati, alla stregua di quelli dei grandi massacri interetnici della guerra fra i warlords nel quadriennio 1992-96. Ottantamila morti dichiarati, secondo associazioni afghane per la giustizia come il Saajs l’ecatombe fu più ampia. La fredda contabilità che dal 2017 a oggi, in una fase di attenuazione del conflitto, ha visto aumentare stragi e vittime civili. C’è poi la penosa questione dei questuanti d’uno stato di protezione: cinquecento fra interpreti, tuttofare e propri familiari, al servizio dei reparti militari italiani chiedono d’essere portati via perché temono rappresaglie talebane. I turbanti dicono che se costoro si pentiranno d’un passato compromesso dalla prossimità con le truppe d’occupazione non gli sarà torto un capello. Nessuno si fida e la richiesta si fa pressante. Oltre ai profughi Roma dovrà attendere anche l’arrivo dei “collaborazionisti”.