Mohamed Beltagy prima di entrare nel Parlamento
egiziano, incarico che ha ricoperto dal 2005 al 2010, dunque durante l’ultima
presidenza Mubarak, era un medico. Oltre alla professione, l’attenzione per questioni
sociali l’aveva già spinto verso l’attivismo politico aderendo alla Fratellanza
Musulmana. Da deputato attento alle questioni internazionali Beltagy nel maggio
2010 era a bordo della Mavi Marmara in rotta verso Gaza. Quella missione,
organizzata dalla Confraternita turca İnsani
Yardım Vakfı e denominata Freedom
Flotilla, trasportava aiuti umanitari alla popolazione della Striscia posta
sotto assedio e conseguente embargo da Israele. La nave subì l’arrembaggio dei
reparti speciali di Tel Aviv che uccisero nove attivisti umanitari. Non è stata
l’unica violenza osservata da vicino dal medico-deputato. Nel luglio 2013 dopo
il colpo di mano militare, sostenuto anche da partiti laici, contro il
presidente Mohamed Morsi, Beltagy già defraudato dei suoi beni posti sotto
sequestro da un procuratore nominato dalle Forze Armate, vide morire Asmaa, sua
figlia diciassettenne, che partecipava al sit-in di protesta davanti alla
moschea Rabaa al-Adawiyya. La ragazza fu uccisa con colpi d’arma da fuoco che
la colpirono al petto e alle spalle. Morì come centinaia di altri giovani e
adulti, una strage passata sotto silenzio, di cui solo pochi media parlarono. Il
crimine, perpetrato con l’uso di armi leggere, mise a tacere un numero
spaventosamente alto di cairoti. La Brotherhood
denunciò la morte di duemila persone, passate per le armi nella piazza e nelle
vie circostanti, Human Rights Watch ne
ha accertato un migliaio, ma le autorità impedirono ogni sopralluogo
internazionale e usarono seppellire molti cadaveri in fosse comuni, bloccando
ogni cerimonia funebre.
Era in atto quello stato d’assedio di cui la capitale, e
il Paese intero, non si libereranno più, col passaggio del feldmaresciallo
Abdel Fattah Sisi da ministro della Difesa, qual era all’epoca della strage, a
Presidente della Repubblica. Beltagy, come altri politici islamici non potè
piangere sua figlia. Venne arrestato poco dopo dalle Forze della Sicurezza di
Giza. Rimase in prigione fino alla sentenza che nell’aprile 2015 gli inflisse
vent’anni di reclusione. In questi giorni la condanna è tramutata in pena
capitale. Coivolge lui e altri esponenti del Partito della Libertà e Giustizia, tutti detenuti. Fra i più noti Osama
Yassin, già ministro della Gioventù durante il governo Qandil, l’esecutivo che
rimase in piedi per circa un anno prima del citato golpe bianco. Lo stesso
Yassin è un medico, ma durante la rivolta del gennaio-febbraio 2011 era noto
come “capo della sicurezza” fra la gioventù islamica che partecipava agli
scontri di piazza Tahrir. Era vicino alle posizioni d’un altro leader forte
della Fratellanza Khairat al Shater, il carismatico imprenditore in predicato a
diventare presidente, che il partito mise da parte preferendogli Morsi.
Al-Shater, come altre figure di spicco della Confraternita, venne condannato a morte
nel 2015, una pena bloccata a favore dell’ergastolo. Verso gli attuali
condannati - oltre a Beltagy e Yassin, anche Essam Sultan e Asfwat Hijazi sono
stati colpiti dalla pena capitale - si potrebbe registrare la catena dei
rinvii, quella sorta di “fine pena mai” che coinvolge nomi, loro malgrado,
diventati noti, come lo specializzando all’università di Bologna Patrick Zaky. Mentre
per lui le speranze di libertà non scompaiono, e sebbene di recente qualche
detenuto sia stato rimesso in libertà, per i citati esponenti della Fratellanza,
su cui oscilla lugubremente il cappio militare, sarebbe già un obiettivo minimo
bloccarne l’esecuzione capitale.
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