L’elezione presidenziale numero diciotto dall’avvìo della
Repubblica Islamica Iraniana può avere, anche prima dell’apertura delle
operazioni di voto, un vincitore: l’astensionismo. Questa appare la tendenza
che reporter in loco e analisti internazionali stanno offrendo da settimane,
soprattutto dal giorno del giudizio espresso dal Consiglio dei Guardiani, il
severo selezionatore dei candidati. Dei sette ammessi: Mohsen Rezai, Saeed
Jalili, Ali Reza Zakani, Hossein Ghazizadeh, Mohsen Mehralizadeh, Abdolnasr
Hemmati, Ebrahim Raisi è quest’ultimo il candidato forte. Già provato
nell’elezione del 2017, dove ancora una volta un pezzo di popolo sostenne il
moderato Rohani, per evitare una caduta nel conservatorismo che il chierico di
Mashhad si porta dietro dall’epoca della sua formazione a Qom. Studiò con
l’ayatollah Motahhari, uno dei più importanti discepoli di Khomeini,
cofondatore del cosiddetto ‘clero combattente’ che tanta importanza ebbe
nell’orientamento teologico della Rivoluzione Iraniana. I detrattori di Raisi,
soprattutto i Mujahedin del Popolo riparati da decenni all’estero, ne
sottolineano le nefandezze delle condanne a morte inferte ai propri
commilitoni, all’epoca prigionieri politici nel Paese dopo i conflitti interni
del biennio 1979-81. Raisi insieme ad altri tre membri fu nominato dal marja Ali
Montazeri, responsabile della repressione, aveva 28 anni e si distinse per
rigore e risolutezza. Le pene capitali comminate furono migliaia, sebbene è tuttora
aperta la controversia sul numero delle vittime: duemilaottocento per
ammissione del regime, trentamila secondo gli oppositori che non erano solo
Mujahedin, ma Fedayn e aderenti al Tudeh.
Dopo la morte di Khomeini, l’emarginazione di Montazeri a favore
di Khamenei diventato Guida Suprema, sponsor clericale di Raisi divenne
l’ayatollah Yadzi (recentemente scomparso) che lo volle procuratore a Teheran. Da
quel momento sotto la potente ala dei principisti la carriera di Raisi è stata
tutta in ascesa: nel decennio 2004-2014 ha ricoperto l’incarico di vice capo
della Giustizia, divenne poi membro dell’Assemblea degli Esperti, nel 2016
Procuratore generale del Paese e dal 2019 Presidente della Corte Suprema. E’
tuttora il più accreditato a sostituire un malandato Khamenei, in più occasioni
dato per spacciato, ma coriacemente attaccato al ruolo di Guida Suprema. Un
incarico presidenziale del mullah della città più tradizionalista porrebbe qualche
problema alla distensione con gli Stati Uniti, che da tempo l’additano fra le
nove figure pubbliche iraniane responsabili di violazione di diritti umani. Ma l’altalena
della politica estera mondiale all’occorrenza volta pagina in fretta. Certo,
anche lui dovrebbe smussare posizioni di un’intransigenza fuori dal tempo, come
l’affermata, e mai smentita, segregazione sessuale femminile “la maggior parte delle donne lavora meglio
in certe condizioni” disse pubblicamente. Comunque, egli stesso di fronte a
un possibile successo, già dimezzato dalla prevista bassa affluenza, avrebbe
storto il naso sulla rigida selezione dei candidati (seicento i nominativi)
attuata dal Consiglio dei Guardiani. Un parterre striminzito e privo di reali
avversari non può che ridimensionare l’elezione stessa e il vincitore. Però
ormai è fatta. L’ala ultraconservatrice vuole riprendersi le redini ufficiali
del Paese, sebbene i settori militare ed economico li tiene ben stretti e
controllati col ‘partito dei Pasdaran’. Che alle elezioni presentano un loro uomo
potente ma non carismatico, Mohsen Rezai, mentre quattro anni fa schieravano il
sindaco di Teheran Qalibaf, ora non utilizzato. Eppure più che esporsi
direttamente con una carica visibilissima, i Pasdaran hanno impedito l’ascesa
di moderati navigati e di spessore come Larjani e di para riformisti come
Zarif.
Quest’ultimo è stato bruciato dalla rivelazione, compiuta dall’agenzia Fars, su dichiarazioni anti Soleimani, che
di per sé è una bestemmia assoluta, visto che dopo l’assassinio il generale
della Forza Al-Qods più che martire è diventato un santo (cfr. https://enricocampofreda.blogspot.com/2021/04/iran-le-verita-strappate-zarif.html).
In tal modo il cerchio s’è chiuso attorno a figure minime, con l’unica
eccezione del tecnocrate Hemmati, che è economista e professore e pure
brillante nell’eloquio. Non teme le missioni impossibili, ha guidato la Banca
Centrale, organismo esposto ai marosi dell’inflazione che da anni affligge una
nazione dove anche la spesa minuta nei
bazar sta diventando una piaga purulenta. Però la svalutazione del rial, da anni in caduta libera, non pone
in buona luce l’uomo d’apparato. Lui, e altri esponenti del regime, punteranno l’indice
sull’embargo statunitense, dichiarando peraltro una verità inconfutabile. Negli
anni della stessa presunta ‘distensione’ sul nucleare per gli accordi
raggiunti, l’embargo è stato responsabile d’una forma subdola di ostacolo
finanziario. Impediva o limitava le transazioni, da quelle delle grandi aziende
alle stesse attività minute d’un turismo brevemente rilanciato prima del gelo
creato dal Covid 19. Accanto all’inflazione anche la pandemia ha colpito duro,
per numero di vittime (il più copioso del Medio Oriente), per difficoltà di
ottenere vaccini e inocularli (le cifre ufficiali sono ferme al 5% di
popolazione) e i problemi sedimentano. Tanta gente eviterà il seggio anche per
evitare i contagi, seppure il contagio più temuto dai vertici
dell’establishment sia stato contenuto proprio con questa scelta limitata e
scontata, volta a conservare un futuro direzionandolo al passato.
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