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mercoledì 30 maggio 2018

Afghanistan: fuoco sul presente, buio sul futuro


E’ la volta del ministero dell’Interno, colpito stamane a Kabul da un’azione articolata: la deflagrazione di due autobomba vicino alla nuova, presidiatissima, sede che sorge a un paio di chilometri ovest dall’aeroporto internazionale, anch’esso controllatissimo. Dopo l’esplosione, che ha sicuramente ferito alcuni militari di guardia (fonti ufficiali non hanno precisato il numero, ma sono attese anche vittime) gruppi di miliziani hanno tentato di penetrare nell’edificio. Sembra che siano stati respinti, però le notizie restano tuttora approssimative. Il portavoce del ministro ha solo confermato l’attentato senza aggiungere particolari. Il ruolo era stato occupato da alcuni mesi da Wais Ahmad Barmak, 47 anni, e già responsabile di un dicastero che s’occupa di affari umanitari e “disastri”, uno spaccato ben chiaro di ciò che produce nel Paese la politica interna e quella straniera. Nel governo di Unità nazionale Barmak aveva ricevuto per un breve periodo da Ghani l’incarico di raccordo col Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo dell’Agricoltura.

Nelle spartizioni fra fazioni su cui si regge (si fa per dire) la diarchia Ghani-Abdullah, Barmak ha rimpiazzato come capo dell’Interno un pashtun della storica tribù Barakzai, radicato ed eletto a Kandahar: Nur ul-Haq Ulumi. La cui carriera politica, seguita a una precedente militare, si era negli ultimi tempi accasata con Abdullah. Ma chiunque ricopra quel compito si ritrova sotto gli attacchi dell’insorgenza bicolore, talebana e del Daesh afghano. Proprio il premier, in un recente discorso alla nazione, aveva sottolineato l’intento esclusivamente sanguinario dell’infinita catena di attentati, rinnovando ai talebani l’invito alla pacificazione che il presidente ha lanciato da un anno. Certo, per interrompere la catena di morte ha coptato Gulbuddin Hekmatyar, fondamentalista definito “macellaio di Kabul”, con un passato tuut’altro che immacolato. Non è servito. Talebani e vecchi e nuovi qaedisti si fanno beffa di tali proposte, non hanno aperto nessun tavolo di trattativa e proseguono sulla propria linea che punta a riprendere il potere con le armi.

Ipotesi finora irrealizzata, forse irrealizzabile, mentre l’Isis afghano pensa solo a creare caos e paura seminando morte, se non paralizzando le maggiori città, limitando di molto i movimenti quotidiani delle persone, visto che ogni passo risulta a rischio vita. Nel proprio populismo i talebani diffondono ripetuti avvertimenti alla popolazione di tenersi lontana dai centri di potere, che saranno appunto bersagliati. Dicono sia la sprezzante risposta all’offerta d’un governo servo dell’occupazione Nato. Discorsi che, comunque, trovano udienza fra la gente comune. I talib dissidenti col marchio Isis, che invece senza alcun preavviso seminano bombe davanti agli uffici elettorali, lì dove i futuri votanti devono recarsi per la registrazione, sono fuori da qualsiasi prospettiva di gestione ammistrativa, anche solo ipotetica. Al di là di sogni di Califfato, di cui non vociferano più né Al Baghdadi né altri, offrono testimonianza di sé, d’una presenza territoriale, del terrore programmato e diffuso per impedire ogni passo. Si dice siano molto foraggiati da chi trae vantaggi dall’instabilità afghana, dunque da Islamabad o Teheran o Washington e l’Occidente perché tutto resti bloccato, distrutto, fumante. Come da quarant’anni a questa parte.

martedì 29 maggio 2018

Elezioni turche, il peso dell’economia


Fra gli avversari che Erdoğan annovera per le doppie consultazioni del 24 giugno, non a caso ampiamente anticipate per evitare scenari più sgradevoli, ce n’è uno difficile da battere: la crisi. Uno spettro che da dieci anni s’aggira con alti e bassi in giro per il mondo, ma che fa più paura in un Paese che tempo addietro pareva immune dalle strettoie che soffocavano economie vicine e lontane. Crescita del Pil a doppia cifra, un po’ come la Cina, la Turchia attirava capitali stranieri e ampliava investimenti interni rivolti a trasporti, con strade e ferrovie e le grandiose opere di cui Istanbul è stata proscenio (linea metro sotto in Bosforo, raddoppio dello stesso canale, ulteriori ponti di collegamento fra sponda occidentale e orientale). Quindi strutture per istruzione e assistenza sanitaria, misure ben accolte da ogni ceto sociale che hanno rafforzato la centralità politica e il seguito elettorale dell’Akp. Ma alcuni segnali già apparsi nel programma economico del partito di governo durante il 2006 si riaffacciarono nel 2013: deficit permanente sulla bilancia dei pagamenti con un bilancio nazionale fortemente dipendente dagli investimenti esteri. Le bolle speculative sul fronte immobiliare che avevano lasciato il segno in tanti Paesi, hanno colpito anche l’orizzonte finanziario turco, la vendita, e svendita, a privati di tanti tesori statali, ben oltre il piano già attuato da liberisti della prim’ora, Demirel e soprattutto Özal.

E il mantenimento, nonostante il balzo in avanti, di talune tare rappresentate da: un tasso di disoccupazione interna (10% fisso) con picchi verso le giovani generazioni e le donne, e dai deficit della bilancia commerciale (importazioni maggiori delle esportazioni, sebbene quest’ultime fossero in gran crescita) e di quella dei pagamenti. Gli economisti sottolineavano come la crescita fosse sostenuta dalla quantità dei consumi, saliti vertiginosamente per nuovi modelli di vita, ma un nazione che spende più di quanto incassa finisce per dover fare i conti con una svalutazione monetaria e la conseguente inflazione. Gli investimenti stranieri hanno per anni tenuto in piedi questo processo, perché scommettevano su una popolazione giovane e desiderosa di competere. Si fidavano d’un modello politico non conflittuale all’interno e all’estero. Era la fase in cui Erdoğan e Gülen andavano a braccetto, demolivano dall’interno l’impianto statale kemalista; il ministro degli Esteri e poi premier Davutoğlu applicava le teorie egemoniche senza creare problemi coi vicini; Erdoğan in persona aveva compiuto il passo della ricerca di pacificazione coi kurdi, combattenti e non. Con la crisi globale del 2008 la lira turca perse il 15% del valore, però governo e Banca centrale operarono misure di salvaguardia rispettivamente diminuendo le imposte e abbassando i tassi d’interesse del 10%. La moneta continuò a circolare, ripresero gli investimenti, sebbene prevalentemente edilizi, dove società come la Toki, che presiedeva gli alloggi pubblici, oppure promotori immobiliari quali Ağaoğlu, lanciavano investimenti a tuttotondo. Il deficit nella bilancia dei pagamenti salì esponenzialmente.

E’ da lì che la svalutazione della lira, che ha angosciato i sonni di tanti turchi nei mesi  scorsi, prendeva un abbrivio lungo (20% nel 2011, 60% fra il 2013 e 2015). Eventi politici hanno ampiamente condizionato il processo in atto: il conflitto sociale di Gezi Park, lo scontro con la Confraternita Hizmet, il ritorno della conflittualità con la comunità kurda, l’azzeramento della sicurezza con la presenza degli attentati terroristici e il tentato golpe. A cui l’uomo-regime ha risposto con la ricetta di repressione e polarizzazione: o con me o contro di me. Una linea molto più che decisionista con cui s’è sbarazzato di antichi sodali e consiglieri (Gülen, Gül, Davutoğlu), s’è spinto in avventure di guerra e competizione globale fra Siria, scontro e confronto con Putin, musi duri (peraltro ricambiati) con l’Unione Europea e gli Usa. Sul piano politico ne è uscito finora vincente, ha incassato un sistema presidenzialista che lo rende più potente di quanto fu Atatürk, ha stretto un patto di convenienza coi nazionalisti che gli garantisce la metà dell’elettorato. Ma la gente, sostenitori compresi, non vivono di simpatie. Erano con Erdoğan perché ne ricevevano migliorie di vita, ma perdere il lavoro o il benessere acquisiti può diventare motivo di rottura del consenso. Ora una zavorra di salvataggio alla nazione, ai cittadini e al presidente stesso è giunta dalla Banca centrale che ha risollevato i tassi d’interesse per contrastare lo sfavorevolissimo rapporto fra dollaro e lira locale. Una boccata d’ossigeno che gli esperti giudicano parziale e limitata nel tempo. Questo non giocherebbe a favore della finanza interna, un voto più lontano sarebbe stato certamente più incerto.

lunedì 28 maggio 2018

Giro d’Italia, il buco nero dell’informazione


Tutti a parlar di buche, che in una Roma addomesticata dai peggiori politicanti millantatori di cambiamento e propositori di affarismo, ha visto il chiacchierato Froome primeggiare; i corridori frenare e trasformarsi in cicloturisti per non rischiare, uno squarcio via l’altro, l’osso del collo; il pubblico far finta di godersi uno spettacolo che non è stato tale perché una tappa ciclistica non è la scampagnata che ha in mente l’attuale sindaco dell’ignavia seduto in Campidoglio. Dicono, a ragione, gli organizzatori che il fondo degli 11 spettacolari chilometri, su cui la carovana a due ruota avrebbe dovuto girare dieci volte, doveva essere asfaltato da mesi. Virginia Raggi e il suo personalissimo staff hanno applicato il programma che i romani conoscono ormai da un biennio: il nulla condito, nel caso delle strade, da qualche sputo di cemento e pezzatura di catrame seminati qua e là. Oggi i lettori trovano tanti noti colleghi di testate mainstream, sportive e non, a parlar giustamente delle buche delle vie romane che hanno rallentato i pedalatori professionisti e dei buchi nei piani di politici inadeguati non solo per una buona amministrazione, ma semplicemente per un’ordinaria lista delle urgenze che sui sette colli sono diventate alture insormontabili. Però i media e i loro operatori in questo Giro che doppia il centenario, ed è stato portato nelle prime battute a Gerusalemme, hanno evidenziato il proprio stratosferico buco al compito che gli compete. Un buco nero nel quale s’è persa o viene omessa la finalità primaria del ruolo: informare raccontando quel che accade.
Così nel rievocare le gloriose storie delle due ruote in rosa, visto che si partiva dalla Città Santa non c’è stata alcuna contestualizzazione su chi (Israele) con l’occupazione militare nel 1967 ha violato tale santità, anche della propria religione. Qualcuno obietterà che non c’entra nulla, invece c’entra eccome. Dipende dal senso che si vuol dare alla cronaca. Nell’inquadrare soldati coi mitra spianati s’è detto delle ragioni di sicurezza, tralasciando l’insicurezza e la morte che negli stessi giorni i commilitoni di quei militari spargevano in un altro angolo della Palestina lacerata e umiliata con la creazione dello Stato di Israele. A Gaza morivano più di cento cittadini che manifestavano ricordando il diritto al ritorno sulle proprie terre, mentre i finanziatori del Giro sbarcato nella Palestina storica più i suiveurs che lo stavano narrando, ricordavano il giusto Bartali, salvatore di ebrei perseguitati, ma non spendevano una parola per rammentare ciò che accadeva attorno alle strade riempite dal ticchettìo armonico di cambi e catene. Nel mondo disarmonico di un’informazione non dedita ai fatti, ma schiacciata sugli interessi di editori più politici che imprenditori e di direttori e cronisti asserviti alle due tipologie citate, non c’è spazio neppure per brandelli di racconto per offrire un servizio al lettore, figurarsi per un percorso di verità. Il settorialismo sotterra la cronaca, così chi doveva descrivere le tappe nei Territori occupati parlava esclusivamente di scatti e tempi, senza soffermarsi neppure un attimo sui luoghi e il contorno.
Del resto se già in partenza mancava, e non pensiamo involontariamente, la riflessione del motivo per cui il Giro dovesse sostenere il piano d’Israele di condire con un simile evento internazionale  la celebrazione del 70° anniversario della sua nascita come entità statale, non ci meravigliamo, ma lo denunciamo, che tanti colleghi abbiano taciuto la presenza lungo il percorso della Corsa Rosa rientrata nella penisola, di dimostranti pro palestinesi. Rumorosi con slogan, visibili con bandiere coloratissime, seppure compressi da manipoli di poliziotti in borghese e tenuti lontani dai traguardi dove si concentrano telecamere e obiettivi. Spiace che troppe camere e flash e taccuini si siano disinteressati d’una presenza, ovviamente politica, che parlava di Palestina e dei diritti calpestati di questo popolo. La contestazione della linea criminale spacciata da Israele come autodifesa diventa una conseguenza dei discorsi di tali attivisti. E costoro, possono piacere o no, erano presenti a bordo strada. In gruppi talvolta sparuti, tal altra più numerosi, dicevano la loro, ma sono stati ignorati da un’informazione che non vuole informare e punta a presentare una realtà di comodo, secondo princìpi ben lontani dalla deontologia. Nel termine, rivendicato da chi svolge questo mestiere, il discorso è unito al dovere cui si è tenuti a rispondere. Per coscienza, per morale o semplicemente per coerenza col ruolo prescelto. Un ruolo principalmente di servizio, ancor più se pubblico. Poi, nella neutralità assoluta che non esiste, ogni operatore dell’informazione ha opinioni proprie e magari può esprimerle a commento. Quel che diventa insostenibile è celare la realtà. Tutto ciò nel giornalismo diventato propaganda è un comportamento purtroppo diffuso. E’ quel cancro che trascina in un abissale buco nero non solo l’informazione, ma la stessa esistenza professionale.  

mercoledì 23 maggio 2018

Turchia, kurdi e le elezioni autoritarie


A un mese dalle elezioni politiche e presidenziali turche l’opposizione kurda è mobilitata a divulgare i tre terribili anni di repressione che hanno colpito suoi attivisti e la popolazione e a riorganizzare il partito (Hdp) per la resistenza elettorale, soprattutto nel sud-est del Paese. Domani il ‘Tribunale permanente dei popoli sulla Turchia e i Kurdi’, che a metà marzo scorso ha ascoltato testimoni provenienti da Cizre, Dıyarbakır, Nusaybin, Simak, emetterà un verdetto sulle violenze perpetrate in quei luoghi fra l’autunno e l’inverno 2015-2016. Lo stillicidio di attacchi di reparti speciali dell’esercito e dell’Intelligence turchi che hanno prodotto vittime e ferimenti di civili, nonché una spaventosa ondata di arresti, sono considerati dagli organismi che hanno promosso l’iniziativa crimini di guerra. (cfr.  https://enricocampofreda.blogspot.it/2015/09/cizre-lassedio-il-sequestro-la-morte.html  e  https://enricocampofreda.blogspot.it/2015/09/cizre-cessato-lo-stato-dassedio-non-la.html). Un ex giudice della Corte di Cassazione francese -  Philippe Texier - presiede il tribunale in cui sono presenti sette membri provenienti da Francia, Italia, Germania, Portogallo, Irlanda. L’iniziativa è più opinionistico-mediatica che giuridica. I compagni di partito di Demirtaş, su cui tre giorni fa una Corte di Ankara, ha respinto l’ennesima richiesta d’una scarcerazione visto che l’Alta Corte Elettorale ha ammesso la sua candidatura per le politiche del 24 giugno, stanno approntando le candidature anche in funzione delle assenze forzate (causa appunto carcerazione) del corpo rappresentativo di vertice e intermedio del partito.
L’Hdp continua a proporre fra le sue fila rappresentanti della sinistra turca e kurda. Ad Hakkari assieme al co-presidente Öztürk Ağri c’è Leyla Güven, anch’essa attualmente detenuta. A Dıyarbakır corre l’ex presidente dell’ordine dei medici Selçuk Mızraklı, l’avvocato turco-ameno Garo Paylan, più i membri del Congresso della Società Democratica Saliha Aydeniz e Musa Farisoğlulları. Altro detenuto in lista è İdris Baluken, si presenta nel distretto di Batman. Nonostante il terrore diffuso dal biennio degli attentati, alcuni a firma Isis (cfr. https://enricocampofreda.blogspot.it/2015/10/lodore-del-sangue-sulle-elezioni-turche.html), altri misteriosi e in odore di Servizi, come l’assassinio dell’avvocato dei diritti Elçi in pieno centro di Dıyarbakır (cfr. https://enricocampofreda.blogspot.it/2015/11/i-misteri-dellomicidio-elci.html) l’opposizione democratica cerca di tenere aperti sia propri canali di presenza sul territorio e nelle istituzioni, sia di tessere relazioni con altre forze politiche. Gli ondivaghi repubblicani di Kılıçdaroğlu, nell’estate scorsa mobilitati nella marcia di protesta contro la repressione erdoğaniana, proseguono a guardare se stessi e un passato che appare disperso. Con esso i valori democratici a cui si richiamano, senza però riuscire a tessere alleanze in un panorama politico sempre più autoritario. 

giovedì 17 maggio 2018

L’assedio di Farah e l’angoscia afghana


L’assalto talebano nella città afghana di Farah, sul confine occidentale verso l’Iran, è l’ennesima prova di forza territoriale che le milizie talib ortodosse compiono contro governi centrale e locale. Rientra nelle cosiddette “offensive di primavera” che i turbanti compiono annualmente sin dal periodo in cui la presenza militare dell’Enduring Freedom era copiosa e diffusa in quattro quadranti d’intervento. All’epoca Farah era presidiata proprio dalle truppe italiane. Ora non più. L’attacco, partito a inizio settimana, ha visto la partecipazione di duemila assalitori che inizialmente hanno avuto la meglio sulle truppe dell’esercito afghano lì dislocate, il governatore ha per l’ennesima volta chiesto rinforzi a Kabul, ma invano. I talib hanno occupato i suoi uffici e solo a quel punto si sono mosse delle forze speciali aviotrasportate dalla capitale. L’azione non si può definire una sorpresa poiché da tempo la città rientra fra i luoghi sensibili per simili  operazioni che fungono anche da propaganda politico-militare. In più da circa due anni è in corso una competizione a distanza fra i talebani di Akundzaza della Shura di Quetta e i dissidenti che hanno creato il network dell’Isis afghano, forti soprattutto del supporto del gruppo denominato Islamic State Khorasan Province.
Quest’ultimi hanno lanciato una sequela sanguinosissima di attentati, etno-confessionalmente rivolti contro la componente hazara di religione sciita, ma che spesso colpiscono passanti e chi ha la sfortuna di trovarsi nei luoghi prescelti per le stragi. Ultimamente nel mirino sono finiti gli uffici elettorali, già in servizio per predisporre le consultazioni previste in ottobre che vedrebbero mutare il sistema d’identificazione degli elettori tramite carte d’identità elettroniche. Una riforma voluta dal premier Abdullah, ufficialmente per evitare brogli. C’è da ricordare che sia lui sia Ghani s’accusarono reciprocamente di frode in occasione delle consultazioni presidenziali 2014. Le rispettive fazioni tajika e pashtun giunsero a girare armate per via minacciando lo scontro. Fu il tutore americano, nella persona del Segretario di Stato Kerry, a proporre la soluzione della diarchia, accontentando entrambi gli interessi di parte e soprattutto quelli della Casa Bianca che ha avuto a disposizione l’ennesimo esecutivo fantoccio. Jihadisti di varie sigle attaccano questo sistema, ricevendo il consenso di una parte della popolazione che nella gestione corrotta di governi complici dell’occupazione occidentale non trovano un’alternativa alle proprie sciagure. Ovviamente non gliela fornisce neppure la logica sanguinaria dell’Isis e dei talib che si fa gioco delle vite dei civili alla stregua della linea Nato dei cosiddetti “danni collaterali”.
E’ questa strettoia ripetuta da anni che priva il Paese e la maggioranza oppressa della popolazione di alternative concrete, visto che l’unica opzione da decenni è stare coi signori della guerra: quelli etnici oppure religiosi o venduti all’imperialismo. Che spesso lanciano ipotesi di avvicinamento viste e riviste negli ultimi mesi col fondamentalista Hekmatyar riaccolto a Kabul con tutti gli onori per aiutare Ghani in un ipotetico patto coi talebani da inserire nel governo. Tutto con la supervisione della Cia del Mike Pompeo trumpiano di ferro. Peraltro il copione non è nuovo, perché passi simili li fecero il presidente Karzai avvicinando gli uomini del mullah Omar tramite l’allora direttore dell’Intelligence statunitense Panetta in combutta con Obama. E fu comunque un fallimento. L’orizzonte non cambia nella terra dell’Hindu Kush. Tre anni fa un assedio talebano alla città di Kunduz durò da settembre a ottobre. Per stanare i turbanti che respingevano ogni tentativo di liberazione dell’Afghan National Forces e pure dei marines furono necessari bombardamenti a tappeto dell’aviazione. Che tanto per non farsi mancare nulla bombardarono l’ospedale di Medecins sans frontières ammazzando anche ricoverati e personale sanitario. Da ieri, comunicano le agenzie, Farah è liberata. Tanti afghani si chiedono da cosa e quanto sia ampio il fronte dei nemici della vera libertà e dell’autodeterminazione.
 

martedì 15 maggio 2018

Gaza, dietro il massacro



Dietro il massacro che vede in un solo giorno assassinare uno per uno sessanta palestinesi fra i quattordici e i quarant’anni ci sono la cronaca e la storia. E una ciclopica ingiustizia che non tramonta. L’attualità parla delle provocazioni d’un provocatore che l’America oscurantista ha eletto come presidente: un danno per il mondo, non l’unico, ma consistente. In sinergia con un altro politico, Netanyahu, che ha fatto delle storture del proprio Paese l’arma per esaltare l’ostruzionismo d’ogni ragione e l’esasperazione d’un egocentrismo fobico, viene rilanciata l’ennesima umiliazione alla comunità palestinese da settant’anni straniera e schiava in patria. Ha voglia il popolo ebraico a ricordare le proprie schiavitù e diaspore millenarie, che ovviamente sono esistite, ma non sono correlate al presente. Quello recentissimo di giorni vede i festeggiamenti dei settant’anni della nascita della nazione israeliana a danno di una palestinese. Scippata nel 1948, occupata anche nelle ultime enclavi com’era appunto Gerusalemme fino al giugno 1967, raggirata nel 1992 con e dopo gli accordi di Oslo. Cos’hanno visto gli occhi di Ezz el-din Musa Mohamed Alsamaak dischiusi nell’anno della misteriosa dipartita di Arafat e criminalmente serrati ieri dal proiettile d’un cecchino?

Hanno visto Gaza, il luogo in cui è brevemente vissuto, sottoposta a molteplici operazioni militari, dai nomi fantasiosi e dagli effetti in troppi casi efferati, soprattutto ‘Piombo fuso’ e ‘Margine di protezione’ che hanno prodotto rispettivamente 1350 e 2310 vittime, al 70% civili. In quei due momenti il più giovane dei morti di ieri aveva quattro e dieci anni, probabilmente non tirava neppure pietre. Però poteva osservare la morte, sentirne l’angoscia, ascoltare racconti e lamenti. Questo è accaduto a lui e a centinaia di migliaia di coetanei che vivono in quei quarantadue chilometri serrati su se stessi, privati anche di generi di necessità e periodicamente sottoposti a quelle che Israel Defence Forces definisce azioni difensive. La più anziana vittima di ieri Mahmoud Abdulmoti Abdal, che di anni ne aveva 39, di Gaza ha conosciuto ulteriori pene:  l’occupazione di terra da parte di Tsahal terminata quando lui aveva più o meno l’età di Ezz el-din Musa, e proseguita non solo con le guerre lampo che ricordavamo ma col controllo di aria e acqua, cioè spazio aereo e marino, e anche dell’acqua potabile razionata e mancante per la perfida distruzione di tubature e fogne durante le frequenti incursioni aeree. Nella quotidianità di Gaza i due Mohamed hanno conosciuto mancanze di viveri e divieti non solo d’uscita, ma d’accesso per stranieri. Tutto sottoposto al volere di Israele.

C’era e c’è un motivo per stare fra polvere, fumi e gas a farsi sparare. E non è il desiderio di martirio. Ciò che non vogliono vedere né riferire molti commentatori che indirettamente fanno il verso agli untori del massacro. Quelle personalità riunite a celebrare la nuova sede di un’ambasciata riconosciuta, guarda caso, da due Paesi che intraprendono la via xenofoba e razzista, Ungheria e Repubblica Ceca, con l’aggiunta delle attuali premiership di Austria e Romania. Il motivo è coercizione alla quale è sottoposta quella gente. I politologi s’impegnano a evidenziare le contraddizioni e le forzature imposte ai gazawi dall’amministrazione di Hamas, problematiche esistenti, in certi casi frutto di contrasti interni con la componente dell’Autorità palestinese che non brilla per trasparenza e correttezza. Eppure agli occhi di chi va a morire per Gaza e per il diritto al ritorno dei milioni di profughi palestinesi, costretti da decenni all’esilio forzato, non esiste imposizione. La scelta di essere su quel confine, rappresenta una scelta di vita. Il richiamo di chi non ha altri strumenti per continuare a proporre una questione che si vuol aggirare oppure soffocare col sangue. E che invece continua a vivere, nonostante i mortiferi festeggiamenti israeliani. 

lunedì 14 maggio 2018

Jerusalem day, Nakba della diplomazia


Il giorno di Gerusalemme ha il ghigno del militare israeliano sul volto dell’anziana velata che magari racconta quel che il giovane in divisa non sa né vuol sapere, mentre sullo sfondo dell’istantanea una coppia (forse di turisti) osserva con fare curioso e divertito. L’ennesima prova di forza voluta da Netanyahu e fiancheggiata da Trump esalta lo strapotere coloniale di Israele. Quello falsamente legale dell’esercito che da oltre cinquant’anni occupa la città eterna, ponendo alle etnie e ai culti non ebraici il giogo della propria supremazia. E quello palesemente illegale di migliaia di coloni gioiosi che in questi giorni portano per via la soffocante protervia d’un razzismo difeso con le armi. La prova di forza sottolinea la viltà della diplomazia mondiale che su altre piazze e per altre tematiche fa e disfa,  giungendo sino a conflitti combattuti o minacciati, in genere per interesse  e  tornaconto di potere economico e geostrategico. Certo anche per la terra di Palestina, usurpata e scippata, le guerre e le trattative non sono mancate. Molte si trascinano tuttora, in maniera assolutamente impari, visto lo stillicidio di vittime subìto periodicamente dai palestinesi, quando protestano e quando semplicemente lavorano o provano a farlo fra mille difficoltà. Che poi sono le quotidiane ingiustizie con cui il sistema sionista, che ha totalmente virato verso il razzismo dell’apartheid, intossica l’esistenza di chi resiste a vivere su quella terra.

Tutto accade nella diffusa indifferenza di quegli orgasmi della comunità internazionale, dimostratisi sempre più inefficaci verso le imposizioni di chi, come Israele, fa della violenza camuffata da difesa un pilastro della sua esistenza. E per ogni obiezione insinua l’accusa di antisemitismo, orientandola fuori luogo verso chi afferma ben altro. La gente di Palestina da settant’anni non ha più patria e terra e la difesa di questi princìpi, che Israele rivendica per sé e per centinaia di migliaia di ebrei riuniti in quei luoghi, viene negata alle famiglie arabe che ne furono e continuano a essere cacciate. Gli accordi di Oslo che prevedevano la nascita della cosiddetta Cisgiordania come nazione palestinese si sono trasformati da trappola in beffa per come e quanto sono raggirati dalla pratica dell’insediamento dei coloni imposto con la forza di Tsahal. La stessa convivenza conservata nella Gerusalemme-Al Quds è demonizzata. Eppure, come sostengono degli attivisti palestinesi intervistati dall’emittente Al Jazeera, e in queste ore in agitazione per l’apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, non è neppure quest’ultimo evento l’aspetto più dannoso per la loro causa. “Quel che ci danneggia – dicono – è l’israelificazione della società, l’azzeramento della nostra presenza con l’abbattimento di case, l’espulsione della nostra gente, i raid dei coloni davanti la Moschea di Al-Aqsa”.

La dimostrazione di esistenze vigilate e imposte anche fuori da zone assurte a esempio di vita incarcerata, com’è la Striscia di Gaza, c’è in questi momenti nel quartiere arabo di Al Quds, dove i residenti sono impossibilitati a uscire perché l’esercito d’Israele non ammette altra voce che quella degli abitanti ebraici e dei coloni giunti dai Territori Occupati per festeggiare il settantennio del proprio Stato. I palestinesi promettono comunque d’essere in strada nel pomeriggio, quando ci sarà la cerimoni d’inaugurazione dell’ambasciata Usa, anche a costo di subire arresti e violenze. Sarà un risvolto probabile per le elevatissime misure di sicurezza approntate dai reparti speciali a protezione degli ospiti di lusso: la delegazione guidata dalla figlia del presidente Ivanka e dal marito Kushner.  il rampante rampollo d’un clan potentissimo della lobby ebraica d’Oltreoceano. Esempio lampante di come nel passo del presidente americano c’entrino legami e affari privatissimi. Le proteste, la repressione e il solito sanguinario epilogo sono in atto da stamane nella travagliata Striscia che da settimane vede mobilitata e colpita la locale comunità. I morti registrati finora sono diciotto, quasi duecento i feriti, quasi tutti colpiti dai cecchini. Una sequenza che si ripete e ha come unico sbocco la scelta di finire crivellati senza che nulla accada. Un destino diventato più che tragico, ottusamente funereo, ma che ci rende tutti inesorabilmente colpevoli.

mercoledì 9 maggio 2018

Nucleare iraniano e il bullismo geopolitico


Quanto sia politica l’uscita bulla sul nucleare iraniano del presidente statunitense Trump sta nei commenti di tutti gli analisti pro e contro l’attuale inquilino della Casa Bianca. Che nel suo determinismo, pur segnato da mosse a sorpresa come quella che a breve lo porrà di fronte al nemico giurato di qualche mese addietro, l’omologo nordcoreano Kim, ha comunque una sua costanza: esasperare i confronti. Perché, affermano consiglieri e commentatori, “fare i duri paga”. Occorre valutare con quali duri. Ovviamente la geopolitica si serve oltre che di mosse a sorpresa, di molteplici tattiche, bluff compresi, sebbene scoprirsi finti duri può diventare un boomerang addirittura peggiore della più morbida diplomazia. Comunque nel contrasto a ogni costo di cui Trump si fa convinto interprete, c’è molto passato ideologico e strategico dell’America muscolare non solo repubblicana e tardo reganiana, ma della stessa componente democratica poiché anch’essa, quarant’anni addietro ‘carteriana’, mal digeriva la Rivoluzione islamica di Teheran e lo schiaffo dei 444 giorni d’occupazione della sua ambasciata. E tale ‘passato che non passa’ è presente nei risvolti che saranno l’immediata conseguenza dello strappo trumpiano nel Paese degli ayatollah, e lì assume le voci dei basij vecchi e nuovi.
Costoro, assieme al potente Partito dei pasdaran che con Ahmadinejad pensavano addirittura di fare a meno della tutela del clero, riprendono il centro della scena politica in questa fase offensiva del simbolo dell’Occidente. A ben poco serve la malleabilità di Francia, Gran Bretagna e Germania, gli altri pezzi occidentali dei 5+1 Paesi che avevano firmato il famoso accordo nel 2015, che si rendono disponibili a confermare il patto, lasciando isolata un’America che in fondo vuole star sola. L’andamento dei due anni trascorsi, pur consentendo a Teheran una ripresa nella produzione energetica ha comunque mostrato estreme difficoltà nell’agevolare la presenza di capitali stranieri, passo indispensabile per diversificare l’economia nazionale. All’Iran moderno sta stretta la tipologia di Stato redditiere incentrato prevalentemente nell’attività estrattiva e la cancellazione dell’embargo e dei veti finanziari internazionali doveva servire proprio a questo. Ma il potere del sorridente Obama non è stato pari alle presunte buone intenzioni, e l’arrivo di Trump ha esplicitato quello che di fatto i potentati della finanza mondiale intendono praticare con e oltre la sfera politica. Così in terra iraniana di dollari se ne son visti pochi e gli stessi canali di differenziazione economica tramite un vero boom turistico non sopperiscono ad altre carenze. E soffrono pure.
La promessa normalizzazione con cui Rohani ha lanciato due campagne elettorali, vincendole per conto della parte meno oltranzista del Paese, è una grande incompiuta se si guarda a ovest. E non certo per volontà del conservatorismo iraniano. Però l’intreccio che lega ideologia, economia e geostrategie continua ad avere nell’infuocato Medioriente occidentale in cui gli Usa ci stanno sempre meno, mentre ci stanno gli attuali suoi alleati più fedeli: Israele e Arabia Saudita, una piega significativa trasformatasi in piaga. Ai due amici di Washington le azioni, gli interessi, gli appetiti iraniani sui prosceni siriano, yemenita, libanese non vanno giù. Perché nutrono interessi e appetiti propri. Cosa che non giustifica taluni scempi che purtroppo ricadono sulle popolazioni civili, ma li spiega. Perciò l’arricchimento dell’uranio diventa l’ennesimo pretesto per regolare altre questioni, sebbene gli sviluppi di certe mosse presumono esasperazioni reali e fittizie. Nel rimescolamento degli equilibri nell’area accanto ai diretti interessati a un’egemonia regionale ci sono due grandi, firmatari dell’accordo stesso: Russia e Cina. La prima è già diventata alleato tattico e militare di Teheran sui fronti delle crisi siro-irachena e yemenita, la seconda può ampliare i punti d’incontro  economico con gli ayatollah. E il peso che avranno nelle scelte politiche iraniane il Partito dei pasdaran, le sue bonyad  e la nuova leva dei chierici conservatori sarà notevole.

martedì 8 maggio 2018

Elor, la felicità del boia


Sorride, tenuto stretto dalla madre, Elor Azaria, l’assassino di Abdul Fatah al-Sharif. E’ fuori anche con due giorni d’anticipo per poter partecipare al matrimonio di suo fratello. Sarebbe uscito dalla prigione militare israeliana di Tzrifim giovedì 10 maggio. Con nove mesi scontati rispetto a una sentenza di diciotto, condanna per omicidio colposo, inferiore a qualsiasi pena normalmente inflitta a giovani palestinesi che lanciano pietre. Ma  l’omicidio di cui è responsabile il soldato Elor è tutt’altro che colposo. Nel marzo 2016 aveva ferito a Hebron due palestinesi che avevano aggredito con un coltello un militare in servizio nella città occupata. Uno dei due, al-Sharif, era disteso a terra centrato da un proiettile sparato dal sergente Azaria. Questi, dopo una decina di minuti dal ferimento, s’è avvicinato all’uomo giacente a terra e gli ha sparato un colpo alla testa. Un’esecuzione in piena regola secondo la famiglia dell’assassinato, che ha sostenuto la tesi davanti alla Corte israeliana. Anche talune associazioni umanitarie si sono interessate del caso, sostenendo che l’azione compiuta da un militare in servizio rispondeva a un “omicidio a sangue freddo” e la condanna non poteva ridursi all'omicidio "colposo" sancito dai giudici. La sentenza, come e forse più di altre, fa i conti con l’offensiva antipalestinese condotta dal governo Netanyahu su più fronti: politico, giuridico, diplomatico, mediatico. Un governo che su qualsivoglia terreno esaspera la profondissima sperequazione esistente fra le due etnìe, con ogni aggravante addebitata ai “terroristi palestinesi” e ogni giustificazione rivolta ai cittadini israeliani, in divisa e non. La difesa del sergente ha sostenuto la teoria dello sparo in testa al ferito, giustificandola col timore che il palestinese (inerte) vestisse una cintura esplosiva di possibile attivazione. Ipotesi dimostratasi falsa, e volta a schermare la gravità dell’omicidio. Alla notizia della scarcerazione di Azaria il premier sionista e un suo ministro si sono felicitati per la fine della reclusione e la liberazione del soldato. Libero e disponibile a un  prossimo assassinio.

lunedì 7 maggio 2018

Rohani, tempo di diplomazia muscolare


Avrebbe atteso un altro paio di settimane, così da far coincidere l’esplicito discorso alla nazione col primo anno di rielezione alla carica presidenziale. Ma per un Rohani più nella veste d’implacabile Guida Suprema che di affabile diplomatico grava la data del 12 maggio, il giorno in cui l’omologo statunitense Trump dirà se svincolare il suo Paese dall’accordo sul nucleare siglato nel 2015 da Obama. Attorno a questo passo che può rinfocolare le tensioni fra i due contendenti d’un quarantennio pesano interessi economici, politici, geostrategici interni e internazionali. Non una questione da poco. Ed entrambi i presidenti che di problemi ne hanno parecchi, sul piano degli intrighi personali il miliardario americano, sul fronte socio-politico l’ayatollah che dal 2013 si regge sul compromesso fra riformisti e moderati, si giocano una fetta del proprio successo futuro. L’ufficialità con cui Rohani ha lanciato il messaggio alla nazione e i termini con cui l’ha posto: “Se lasciano l’accordo gli Stati Uniti se ne pentiranno come non mai nella storia” dice molto di più sul piano geopolitico di quanto la delicatissima vicenda dica sul fronte economico. E quest’ultimo è in condizioni gravissime, perché nel periodo dell’embargo l’Iran ha subìto un pesante tracollo finanziario per la scarsità di commerci con l’Occidente. Gli stessi ritardi nelle transazioni registratisi nell’ultimo biennio, nonostante l’accordo firmato, è uno dei temi toccati da Rohani durante il  cammino elettorale.  

Il presidente uscente ha giocato la sua rielezione contro i conservatori che un anno fa sostenevano i candidati Qalibaf e Raisi. A fine campagna i tradizionalisti avevano fatto convergere i voti su un unico candidato (l’ayatollah Raisi) per evitare di disperderli in più rivoli e favorire Rohani, come nel 2013. Ma non ce l’avevano fatta. La gioventù in cerca di nuove opportunità di lavoro e di speranze avevano sostenuto una seconda volta “l’uomo della svolta”. Ma la svolta non porta frutti e situazione interna è magmatica. Le proteste di piazza di fine 2017, e le nuove fiammate d’un mese fa, mostrano un panorama ingarbugliato e una tensione interna elevata. Fra chi usa la piazza per contestare l’attuale establishment s’è ventilata una regìa del malcontento d’inverno proprio da parte del tradizionalismo che ha una roccaforte nella città santa di Meshhad. S’è parlato anche di un’azione autonoma dei sostenitori dell’ex presidente Ahmadinejad (non a caso in quelle settimane posto agli arresti domiciliari preventivi). S’è detto che certe proteste cittadine scaturiscono da stimoli innescati magari da questi motivi e altri intenti politici e di fazione, però il malcontento serpeggia. E tale malcontento è correlato a due questioni: le mancate entrate di un’economia ancora ingessata dal sistema finanziario mondiale del quale gli Usa detengono molti fili, e le enormi uscite dovute alle guerre logoranti e dispendiose cui l’Iran partecipa. Apertamente in Siria e Yemen, in maniera strisciante in altri focolai mediorientali.

Quest’ultimo è un punto dolente, ma può diventare un elemento di forza della gestione Rohani. Poiché col richiamo delle armi il partito dei Pasdaran, ultimamente più vicino ai tradizionalisti che all’attuale presidente compromesso coi riformisti, si sente tutelato dalla politica del clero come lo fu solo ai tempi del Ruhollah Khomeini che lo creò. L’altro nume del partito combattente, Mahmud Ahmadinejad, riuscì solo a spaccare il Paese, fra l’altro prima delle vicende corruttive che l'oscurarono quasi quanto le rivolte dell’Onda verde. Per qualsiasi presidente della Repubblica Islamica iraniana avere dalla propria parte i pasdaran, significa possedere l’arma delle armi, contro cui solo piazze rivoluzionarie e non meramente protestatarie possono averla vinta. Nel caso dell’accordo sul nucleare che Trump, col solo sostegno di Israele e dell’Arabia Saudita in versione Bin Salman, vuole stracciare, Rohani può spiazzare i propri detrattori interni agitando lo spettro del “Satana statunitense”. In tal modo trova il consenso d’un popolo che alle divisioni interne antepone la sicurezza nazionale. In aggiunta, e sempre sull’accordo nucleare può ricorrere agli altri cinque del cosiddetto blocco 5+1. Due sono giganti amici (Russia e Cina), delle altre tre potenze occidentali (Gran Bretagna, Francia, Germania) bisognerà comprendere le propensioni filo americane. Ma di quell’America estremista trumpiana, verso cui finora solo Macron sembra apprezzare le follìe. E poi l’alzata di scudi di Rohani, aggregatrice all’interno, ha la certezza di trovare sempre la comprensione putiniana sullo scacchiere mediorientale. Una partita d’interessi reciproci che prosegue la corsa. 

giovedì 3 maggio 2018

Elezioni turche, democrazia sempre più in bilico


Quanto incida la preoccupazione e quanto, invece, la speranza sull’election day turca, voluta da Erdoğan col notevole ausilio del ‘lupo grigio’ Bahçeli, è un dilemma che si risolverà con lo spoglio elettorale post 24 giugno. La Turchia polarizzata arriva a questa scadenza, imposta con una legge votata a metà marzo scorso, che cementa l’alleanza di comodo fra islamisti dell’Akp e nazionalisti del Mhp. Legge che introduce emendamenti a quattro precedenti normative e che ha anticipato di diciassette mesi le consultazioni previste per novembre 2019. L’opposizione teme che quanto stia accadendo nel Paese dopo il tentativo di golpe del luglio 2016 (stato d’emergenza, arresti ed epurazioni nei settori statali di sicurezza, amministrazione, istruzione, giustizia più la feroce persecuzione della stampa libera) possa essere ulteriormente suggellato da forme istituzionalizzate di autoritarismo. Il passo della legge in questione inquieta ulteriormente perché va a minare elementi primari della consultazione democratica: imparzialità, indipendenza, trasparenza. Secondo la voce del Partito democratico dei popoli questi cambiamenti: “Oltre a distruggere il pluralismo, ostacoleranno un’equa rappresentanza di idee diverse e di segmenti della popolazione. Potrebbero rendere il voto quasi impossibile in alcune regioni per via dei regolamenti tecnici che lo renderanno difficile. Polizia armata o altre forze di sicurezza possono essere impiegate per mettere gli elettori sotto pressione, e regole come quella di considerare valide le schede non chiuse manipoleranno i risultati elettorali e porteranno a varie pratiche illegali che potrebbero danneggiare la fiducia degli elettori”.   

Paure sono espresse anche sul fronte del maggior partito d’opposizione (Chp) che nella consultazione del novembre 2015 aveva ottenuto oltre 12 milioni di voti ed eletto 113 deputati, mentre l’Hdp coi suoi 59 onorevoli  riusciva a confermare l’exploit del giugno precedente, pur perdendo una ventina di eletti. Nei mesi successivi, complice la stretta repressiva in atto, molti di questi parlamentari sono finiti in galera, a cominciare dai due co-presidenti del partito, Demirtaş e Yüksekdağ, accusati direttamente di terrorismo. Ora, sempre il partito filo kurdo, contesta talune innovazioni vantaggiose per il governo. L’articolo 1 dell’accordo elettorale introduce la possibilità per il cittadino di registrarsi in più seggi, un’opzione che elimina quel controllo diretto basato sulla presenza in un unico seggio. Con l’articolo 2 i governatori (quelli nominati dallo Stato per sostituire i sindaci kurdi, ne sono stati finora rimpiazzati 94) possono decidere di accorpare le urne e formare liste di votanti misti. Tali spostamenti possono incidere sull’accesso al voto di molti cittadini, ad esempio in zone montuose come quelle del sud-est dove il sostegno all’Hdp è considerevole. Sempre questo partito contesta l’accorpamento del voto politico a quello presidenziale perché, a suo dire, confligge col principio della separazione dei poteri. Nell’articolo 8 è prevista la possibilità che chiunque possa convocare le forze dell’ordine nel seggio, finora poteva farlo solo il presidente del seggio stesso. In tal modo chi vorrà ostacolare i rappresentanti di lista sgraditi oppure la presenza di osservatori internazionali troverà appigli nella norma. E non è finita. Ora i presidenti di seggio verranno scelti solo fra i pubblici ufficiali, dunque fra il personale selezionato dal governo che, dopo le purghe politiche degli ultimi due anni, promuove solo cittadini fedeli.

Assolutamente scandalosa – sostengono all’Hdp – è la scelta di considerare valide le schede non sigillate. Il rischio di manomissione e brogli è palese, eppure i legislatori di maggioranza (Akp-Mhp) non s’imbarazzano e avallano un articolo in profondo conflitto con una precedente legge (lg. 298, art. 98). Scandalo su scandalo si giunge all’articolo 20, creato su misura per gli alleati nazionalisti grazie ai quali il Partito della Giustizia e Sviluppo ha trovato sponda nell’anticipare il raddoppio alla presidenza di Erdoğan e fargli celebrare il centenario della Turchia moderna diventata sua proprietà. L’articolo in questione offre ai partiti che si alleano l’opportunità di eleggere propri rappresentanti sulla base del superamento della soglia di sbarramento posta al 10%. La situazione riguarda direttamente il gruppo nazionalista, tre anni addietro attestato sull’11,90% ma oggi in odore di flessione, a causa della scissione della deputata Akşener che ha accusato il vecchio presidente di sostegno sperticato al personalismo di Erdoğan. Il gruppo formato dalla dissidente ruberà sicuramente consensi a Bahçeli che comunque, con quest’articolo, si garantisce una sopravvivenza politica e fa sopravvivere il blocco governativo dell’Akp. Nonostante il quadro decisamente sfavorevole le opposizioni turca e kurda sperano e cercano un sostegno. Finora non è mai stato reciproco, potrebbe diventarlo nella fase d’attacco estremo alla democrazia, anche quella formale. Quella sostanziale vive da anni giorni nerissimi.