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martedì 29 maggio 2018

Elezioni turche, il peso dell’economia


Fra gli avversari che Erdoğan annovera per le doppie consultazioni del 24 giugno, non a caso ampiamente anticipate per evitare scenari più sgradevoli, ce n’è uno difficile da battere: la crisi. Uno spettro che da dieci anni s’aggira con alti e bassi in giro per il mondo, ma che fa più paura in un Paese che tempo addietro pareva immune dalle strettoie che soffocavano economie vicine e lontane. Crescita del Pil a doppia cifra, un po’ come la Cina, la Turchia attirava capitali stranieri e ampliava investimenti interni rivolti a trasporti, con strade e ferrovie e le grandiose opere di cui Istanbul è stata proscenio (linea metro sotto in Bosforo, raddoppio dello stesso canale, ulteriori ponti di collegamento fra sponda occidentale e orientale). Quindi strutture per istruzione e assistenza sanitaria, misure ben accolte da ogni ceto sociale che hanno rafforzato la centralità politica e il seguito elettorale dell’Akp. Ma alcuni segnali già apparsi nel programma economico del partito di governo durante il 2006 si riaffacciarono nel 2013: deficit permanente sulla bilancia dei pagamenti con un bilancio nazionale fortemente dipendente dagli investimenti esteri. Le bolle speculative sul fronte immobiliare che avevano lasciato il segno in tanti Paesi, hanno colpito anche l’orizzonte finanziario turco, la vendita, e svendita, a privati di tanti tesori statali, ben oltre il piano già attuato da liberisti della prim’ora, Demirel e soprattutto Özal.

E il mantenimento, nonostante il balzo in avanti, di talune tare rappresentate da: un tasso di disoccupazione interna (10% fisso) con picchi verso le giovani generazioni e le donne, e dai deficit della bilancia commerciale (importazioni maggiori delle esportazioni, sebbene quest’ultime fossero in gran crescita) e di quella dei pagamenti. Gli economisti sottolineavano come la crescita fosse sostenuta dalla quantità dei consumi, saliti vertiginosamente per nuovi modelli di vita, ma un nazione che spende più di quanto incassa finisce per dover fare i conti con una svalutazione monetaria e la conseguente inflazione. Gli investimenti stranieri hanno per anni tenuto in piedi questo processo, perché scommettevano su una popolazione giovane e desiderosa di competere. Si fidavano d’un modello politico non conflittuale all’interno e all’estero. Era la fase in cui Erdoğan e Gülen andavano a braccetto, demolivano dall’interno l’impianto statale kemalista; il ministro degli Esteri e poi premier Davutoğlu applicava le teorie egemoniche senza creare problemi coi vicini; Erdoğan in persona aveva compiuto il passo della ricerca di pacificazione coi kurdi, combattenti e non. Con la crisi globale del 2008 la lira turca perse il 15% del valore, però governo e Banca centrale operarono misure di salvaguardia rispettivamente diminuendo le imposte e abbassando i tassi d’interesse del 10%. La moneta continuò a circolare, ripresero gli investimenti, sebbene prevalentemente edilizi, dove società come la Toki, che presiedeva gli alloggi pubblici, oppure promotori immobiliari quali Ağaoğlu, lanciavano investimenti a tuttotondo. Il deficit nella bilancia dei pagamenti salì esponenzialmente.

E’ da lì che la svalutazione della lira, che ha angosciato i sonni di tanti turchi nei mesi  scorsi, prendeva un abbrivio lungo (20% nel 2011, 60% fra il 2013 e 2015). Eventi politici hanno ampiamente condizionato il processo in atto: il conflitto sociale di Gezi Park, lo scontro con la Confraternita Hizmet, il ritorno della conflittualità con la comunità kurda, l’azzeramento della sicurezza con la presenza degli attentati terroristici e il tentato golpe. A cui l’uomo-regime ha risposto con la ricetta di repressione e polarizzazione: o con me o contro di me. Una linea molto più che decisionista con cui s’è sbarazzato di antichi sodali e consiglieri (Gülen, Gül, Davutoğlu), s’è spinto in avventure di guerra e competizione globale fra Siria, scontro e confronto con Putin, musi duri (peraltro ricambiati) con l’Unione Europea e gli Usa. Sul piano politico ne è uscito finora vincente, ha incassato un sistema presidenzialista che lo rende più potente di quanto fu Atatürk, ha stretto un patto di convenienza coi nazionalisti che gli garantisce la metà dell’elettorato. Ma la gente, sostenitori compresi, non vivono di simpatie. Erano con Erdoğan perché ne ricevevano migliorie di vita, ma perdere il lavoro o il benessere acquisiti può diventare motivo di rottura del consenso. Ora una zavorra di salvataggio alla nazione, ai cittadini e al presidente stesso è giunta dalla Banca centrale che ha risollevato i tassi d’interesse per contrastare lo sfavorevolissimo rapporto fra dollaro e lira locale. Una boccata d’ossigeno che gli esperti giudicano parziale e limitata nel tempo. Questo non giocherebbe a favore della finanza interna, un voto più lontano sarebbe stato certamente più incerto.

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