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domenica 11 dicembre 2016

L’Egitto del terrore ruba la scena a Sisi

Dopo mille giorni di repressione cieca e due anni e mezzo di regime-Sisi l’Egitto delle bombe appare come un’intoccabile realtà. Stamane è tornato a colpire facendo brillare una dozzina di chili di tritolo nell’area dell’antica cattedrale copta di San Marco, zona Al Abasya. La deflagrazione ha massacrato corpi di donne e bambini (venticinque sono finora le vittime) che assistevano a una funzione religiosa nell’attigua chiesa di San Pietro e Paolo. Chi colloca gli ordigni? Certamente dei nemici del generale-presidente: jihadisti della prim’ora che dal golpe bianco del luglio 2013 hanno iniziato a muoversi principalmente nelle aree desertiche del Sinai, dove colpiscono duramente i militari (centinaia sono i soldati uccisi) e seminano terrore e morte nei centri urbani. Gli attentati al quartier generale della polizia al Cairo e successivamente a Mansoura furono i primi ad apparire fra novembre e dicembre 2013. Da allora agguati e stragi non si sono fermate. Nel Sinai, difficilmente controllabile, i salafiti votati al jihadismo, sono logisticamente aiutati da carovanieri e trafficanti di varie famiglie beduine, che però i generali non hanno fatto arrestare in massa come gli oppositori anche perché quei mercanti non fanno politica. Tutt’al più praticano affari coi combattenti di Ansar Al Maqdis, vicina un tempo a Qaeda e dal 2014 all’Isis con la sigla di Wilayat Sinai. Ma nelle caotiche vie della capitale, dove le centinaia d’illegalità mercantili e di vita fanno prosperare gli informatori del mukhabarat come l’Abdallah del caso Regeni, egualmente i miliziani delle bombe agiscono indisturbati e non ci meraviglieremo se, fra un’omertà e l’altra della burocrazia e degli apparati, venissero alla luce infiltrazioni o connivenze.

Certo, la chiusura degli spazi pubblici della politica ha sicuramente condotto giovani attivisti dell’Islam della Fratellanza anche verso posizioni terroristiche; taluni addirittura a intrecciare rapporti coi salafiti, ben poco amati per il loro sprezzante settarismo. Ma la realtà che ha messo a nudo l’incapacità del regime di stroncare questo fenomeno, torchiando esclusivamente le organizzazioni palesi della politica, impedendo loro di riunirsi e addirittura esprimersi, sta diventando un boomerang per la lobby militare che sorregge Sisi. L’odio degli egiziani amanti dell’ordine, dell’affarismo d’ogni sponda, meglio se occidentale, che comprende alcuni tycoon della stessa copiosa minoranza copta, inizia a disdegnare la presunta protezione presidenziale. Anzi dice apertamente, come hanno fatto stamane numerosi fedeli della chiesa cristiana d’Egitto, che il piano Sisi è fallito. Non solo nei riguardi della propria incolumità, ma verso l’intera nazione. Dai giorni dello scandaloso omicidio Regeni, Sisi, Ghaffar, Shoukry e altri potentati non dormono sonni tranquilli. Non certo per l’azione compiuta da politici come l’ex ministro degli esteri Gentiloni, oggi incaricato di formare un nuovo governo italiano. Indegnamente diciamo noi, vista la nullità delle sue azioni in quell’affaire che sfiora la connivenza. Sisi dovrà temere l’Egitto che l’aveva sostenuto per arginare l’avanzata degli islamisti e che ora paventa di crepare in una deflagrazione o di finire colpito a morte nelle sparatorie se non anti proteste, magari anti guerriglia. Sparatorie che uccidono più civili che miliziani. Tutto ciò tacendo quanto d’irrisolto economia e finanza palesano da oltre un anno. Promesse non mantenute, per le quali un presidente, comunque votato, come Mursi venne messo alla berlina dopo undici mesi. Sì, l’aria per Sisi diventa pesante.

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