E’ nel gesto del capitano del
Galatasaray Inan, che si porta al centro del campo un giovane poliziotto e
l’abbraccia, l’anticorpo che il governo turco cerca di iniettare fra i
concittadini. Usa il collante del popolarissimo sport, una squadra simbolo
dell’élite della città da cui partì il sogno di potere erdoganiano, utilizza
certamente l’ambiente ufficiale del club che pure vide la tifoseria segnare un
patto di ferro con le altre formazioni cittadine: l’anarchica e popolare Beşiktaş
e quella considerata “straniera” del Fenerbahçe (per il seguito che ha fra la
comunità greca). Tutt’e tre le calde curve della stella del Bosforo riunite a
sostegno della battaglia di Gezi park contro la foga repressiva di Erdoğan. Accadeva tre anni fa,
sembra trascorso un secolo. Ma ora che il giocattolo dorato del pallone è stato
sfiorato dalla morte, colpendo i custodi d’una sicurezza di cui la Turchia è
priva, il lutto nazionale coagula il Paese. Gli stessi fan giallorossi della
squadra del Gala, partecipano al video promosso dal ministero dell’Interno a difesa
dei suoi ragazzi caduti. Altri ne sono morti in queste ore, le vittime
diventano 44.
Mentre investigatori e
magistrati non si pronunciano ufficialmente e i commentatori ribadiscono la
matrice della dissidenza guerrigliera kurda nell’attentato di sabato sera
(attribuito ai cosiddetti Falconi della libertà), il governo coglie l’ennesima
occasione per colpire la componente politica, e chissà per quanto ancora legale,
della comunità kurda: il Partito democratico dei popoli. Nelle sue sedi di
Mersin, Adana, Manisa oltreché Istanbul e Ankara, gli agenti sono andati a pescare
membri, quadri e simpatizzanti. Altre
centoventi persone sono state arrestate e, non potendo essere accusate dell’attentato,
sono tutti incriminati a titolo ideologico per aver sostenuto il Pkk.
Imputazione già usata in centinaia di casi, che mette ai ferri chi richiama la
comune matrice etnica d’appartenenza che possono avere i kurdi. In questo lo
Stato turco ormai prende la via breve: accorpa chiunque, chi combatte sui monti
e chi siede in Parlamento dopo una democratica elezione, cercando di soffocarne
azione e pensiero. E’ quanto è accaduto ultimamente anche a Selahattin Demirtaş,
leader del partito accusato d’essere il volto legalitario del Pkk di Öcalan.
Una posizione accentuata
dall’estate 2015, quando esercito turco e combattenti kurdi hanno ripreso una
guerra strisciante riversata pesantemente nel sud-est con occupazione, stati
d’assedio, massacri di civili. E anche in altre zone del Paese dove si ripetono
assalti mirati a ufficiali e soldati, più il genere di attentati come quello
nei pressi della Vodafone Arena di Istanbul. Ben oltre lo scontro di carattere
militare, il governo rivolge i suoi strali contro ogni opposizione,
concentrandosi su quella ritenuta politicamente pericolosa per i piani
parlamentari di Erdoğan. Seppure la proposta di revisione costituzionale, che
sta trasformando la Turchia in una repubblica presidenziale, è ormai messa al
sicuro grazie al sostegno del partito nazionalista, il Capo di Stato non perde
occasione per polverizzare la rappresentatività costruita a piccoli ma
significativi passi dall’opposizione kurda. Lacerare quella rete, lasciare il
territorio dove la comunità vive senza i sindaci che ha eletto, privarla dei
parlamentari che votano norme o s’oppongono a esse, ha l’intento di togliere
voce e guida a un movimento che in questi anni s’è posto in prima fila per
ostacolare il passo autoritario che fa della Turchia un mondo a dimensione d’un
solo uomo. Assetato di potere.
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