Le pallottole restano sul cadavere dell’ambasciatore Karlov, un professionista navigato che Putin perde in
una fase internazionale intricata, ma non intaccano il vertice sulla Siria che
si sta tenendo a Mosca. Coinvolti Lavrov, Çavuşoğlu, Zarif, responsabili dei
dicasteri esteri di tre Paesi interessati a quella crisi che costituiscono un
triunvirato dialogante, diversamente dagli sponsor del ribellismo e jihadismo
anti Asad residenti nel Golfo. In attesa di scoprire ciò che scaturirà dai
colloqui, si muovono le indagini sull’azione terroristica che i due Paesi colpiti
reputano una provocazione votata a incrinarne i rapporti. Investigatori russi
sono giunti ad Ankara per seguire proprie piste, e sulla base del clima di
comprensione stabilito fra Erdoğan e Putin potrebbero anche collaborare coi
colleghi turchi. Intanto quest’ultimi hanno arrestato tutti i membri della famiglia
dell’attentatore freddato e silenziato da cecchini delle forze speciali. Lui
non può più gridare né parlare, i parenti sì. Ma non è detto che possano dire
molto, anche perché potrebbero essere a digiuno dei comportamenti del
poliziotto-killer. Sono tutti residenti ad Aydin: padre, madre, sorella e due
altri congiunti vengono interrogati da agenti del Mıt assieme a un vicino di
casa. Si vuole scavare nel passato recente del giovane già così addentro alla
sicurezza da fare, in un paio d’occasioni, addirittura la scorta del
presidente.
La determinazione del crimine perpetrato introduce nell’establishment turco un’ampia inquietudine per la
permeabilità dei propri apparati di sicurezza. Non solo l’attentatore ha avuto
facilità nell’introdursi nella sala (può bastare un tesserino del Ministero
dell’Interno per arrivare senza problemi alle spalle dell’obiettivo da
colpire?), ma il luogo prescelto era adiacente a tre ambasciate (statunitense,
tedesca, austriaca), alle sedi della Camera dell’Industria, dell’Agenzia di
supervisione bancaria, dell’Ufficio di un Procuratore generale e dell’Ufficio
del Commercio russo. Una zona piena di obiettivi sensibili, che comunque poco dopo
quest’attentato veniva violata pure da un uomo avvicinatosi all’ambasciata
americana con un fucile celato in un trench. Se fra i due episodi, come sembra,
non ci sono legami e se allarmi come quest’ultimo non rappresentano prodromi di
attentati, l’agguato nella Galleria d’arte moderna produce un’apprensione
estrema. Lì l’attentatore ha potuto agire indisturbato, all’interno delle sale
sembra non ci fossero poliziotti, giunti solo in seguito coi reparti speciali.
Così l’incolumità del diplomatico è risultata evanescente. Una delle
contraddizioni dell’iper militarizzata
Turchia è costituita proprio dalla fragilità della sua sicurezza, come evidenziano le esplosioni che si
susseguono da mesi. Frutto della guerra latente col fronte guerrigliero kurdo,
e quella che portano il marchio del Daesh.
Sul terreno della caduta verticale
della normalità di vita e del controllo del territorio, fin
nel cuore delle sue città simbolo, il regime di Erdoğan paga uno scotto verso
l’intera nazione. Il sostegno che sta ricevendo dai nazionalisti dell’Mhp,
utile per far approvare al Parlamento quella riforma costituzionale che lo
rende padrone incontrastato della scena politica, può sfociare nel protagonismo
della violenza che s’atomizza nei mille rivoli d’uno scontro diffuso. Ci
riferiamo all’assalto alle sedi politiche avversarie (dell’Hdp), date alle
fiamme dopo l’ennesima auto-bomba lanciata su giovani agenti, che potranno
rianimare omicidi e scontri armati fra la popolazione, come accadeva negli anni
Ottanta sotto l’azione eversiva dei Lupi grigi. Ma con l’omicio
dell’ambasciatore l’orizzonte politico si fa sempre più inquietante per la
possibile presenza organizzata e attiva di gruppi jihadisti lanciati contro
l’Islam dello Stato erdoğaniano, addirittura dentro le strutture di sicurezza.
Vedremo se l’attentatore di cui non sappiamo ancora il nome, è un lupo
solitario o se dietro di lui ci sono un’organizzazione e una regia. Qualora si
trattasse di radicalismo islamista quell’infiltrazione negli apparati
polizieschi somiglierebbe a quella praticata dai taliban in Afghanistan e
Pakistan, dove miliziani di quei clan colpiscono anche dall’interno, vestendo
una divisa. In questo caso Erdoğan, sempre più, dovrà fare in conti in casa con
un altro nemico: i combattenti jihadisti, nella versione non solo bombarola, ma
assalitrice. Il fine sarebbe sempre quello destabilizzante, cui già
contribuisce il contrasto con la componente kurda, armata e non.
Potrebbe trattarsi d’un
fondamentalismo islamico endogeno che, sull’onda della linea
seguita sul fronte siriano prima come premier poi in qualità di presidente, inizia
a vendicarsi dei suoi giri di walzer. In tal senso realizzare l’attentato alla
vigilia d’un incontro importante per quella crisi mediorientale e rivolgerlo
contro l’obiettivo russo, un contendente internazionale diventato amico, è un
segnale frutto d’un programma che può incarnare altri seguiti sanguinosi. Verso
l’opinione pubblica può risultare più rassicurante pensare che l’occhio e il
grilletto del pistolero della mostra fotografica siano di marchio gülenista, un
nemico conosciuto, che pur nel proprio credo difficilmente avrebbe gridato “Allah ü Akbar”, come in effetti accadde nel
luglio scorso nella serata del tentato golpe. Coi dubbi e le angosce che
dovranno rapportarsi allo sviluppo degli eventi, il coriaceo Erdoğan appare
però isolato, deve far quadrare comportamenti furbeschi con la forza reale d’un
progetto che il terrore può far deragliare. Non basta chiamare etnia, patria,
nazione se queste devono misurarsi quotidianamente su un logorante campo di
battaglia. Ancora una volta la politica estera può diventare il suo salvagente
o la sua disperazione: nella crisi siriana l’avvicinamento alla Russia potrà
incentivare un nascente e multiforme jihadismo interno. Mentre l’Iran rappresenta
un alleato o un incomodo, competitore nel territorio chiamato ancora Siria e
nella più vasta area regionale, anche in contrapposizione ad Ankara oltreché ai
sauditi. Continuando ad accompagnarsi a questi attori l’Atatürk islamico passerebbe
da interlocutore delle petromonarchie, coccolate dagli Usa (di cui s’attende la
gestione Trump, ufficialmente lanciata contro il terrorismo islamista bisognerà
vedere se alla maniera bushana o obamiana) a nemico giurato. E non solo
d’interessi geopolitici ed economici, ma misurandosi appunto sull’infuocato
terreno che interessa al fondamentalismo salafita.