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giovedì 22 dicembre 2016

I misteri del delitto Karlov

Dopo le prime sessanta ore d’indagine trapelano diverse cose sulla vita e la morte di Mevlüt Mert Altintaş, il poliziotto che ha freddato ad Ankara l’ambasciatore russo Andrey Karlov. Dei circa due minuti che precedono la scarica assassina nella Galleria d’arte contemporanea gira un filmato dove il giovane è appostato alle spalle del diplomatico. Appare nervoso, si tocca sotto la giacca, quasi ad assicurarsi che l’arma sia a posto, si prepara psicologicamente all’azione. Agenti di sicurezza avrebbero sicuramente notato un comportamento inconsueto e sarebbero intervenuti. A sparatoria iniziata, e assassinio compiuto, durante i proclami lanciati su Aleppo martire, su scopo, costituzione e orgoglio della battaglia jihadista e sulla grandezza di Allah, il quotidiano Hürriyet riporta che due agenti della polizia stradale, entrati nei locali, abbiano intimato all’uomo di arrendersi. Erano le ore 19:27. Non è accaduto nulla. Il killer continuava a motivare il gesto predicendo la sua fine, che non è avvenuta immediatamente. Quando un reparto speciale è intervenuto scoccavano le 19:32. Colpi reciproci e Altintaş dopo un paio di minuti è a terra ferito a una gamba. Ma la sparatoria prosegue, lui riesce a sostituire il caricatore dell’arma, viene colpito una prima volta al collo, poi ripetutamente al petto, fino a spirare. Il referto medico afferma a causa della ferita al collo. Sono le ore 19:40.
Forse la squadra speciale ha provato a neutralizzarlo, senza ucciderlo. Certo che da vivo sarebbe stato più utile per le indagini. Questa descrizione della sparatoria confligge con la tesi di chi afferma che l’eliminazione del killer puntava a prevenire ulteriori lutti, potendosi trattare d’un kamikaze. Però l’abbigliamento non lasciava trasparire gonfiori o cinture esplosive, valutazioni che pur nella concitazione occhi e menti esperte possono compiere. Eppure chi è intervenuto appartiene all’eccellenza della sicurezza. Il tema della sicurezza infiltrata dai fethüllaçi è al centro delle spiegazioni turche, sia quelle politiche fornite dal governo e dallo stesso presidente, sia le investigative a opera del Mıt. Il versante russo, che sta indagando autonomamente con 18 super investigatori giunti da Mosca, è assai più cauto. Un loro portavoce sostiene che parleranno quando avranno il conforto di prove; le congetture servono a poco. Per i turchi le prove ci sono tutte. Sono state trovate nell’abitazione del poliziotto, a Söke, nella provincia di Aydin. Testi gülenisti che si raccordano alla sua formazione passata, avvenuta in una delle scuole del movimento Hizmet. Però bisogna ricordare che fino a un paio d’anni addietro di quelle scuole in tutta l’Anatolia ce n’erano migliaia, istituti che hanno istruito milioni di bambini e ragazzi turchi, non tutti necessariamente appartenenti a famiglie pro Fethullah.
Infatti la magistratura si sta muovendo con maggiore cautela. Dopo aver interrogato i familiari stretti di Altintaş (padre, madre, sorella, cognato, zii) li ha rilasciati perché li ritiene estranei all’azione delittuosa. In verità lo zio Hasan Furuncu, aveva lavorato proprio in una scuola del network Hizmet a Kusadaşi, elemento al vaglio degli inquirenti che potrebbe diventare un’accusa. Una certezza è che il poliziotto non abbia agito da solo e che nell’Accademia reclute di Izmir, da lui frequentata, s’annidi una struttura di affiliati al gruppo Fetö, sfuggita a precedenti retate e in grado di tramare ancora contro Erdoğan e la nazione. Per questo sono stati arrestati e sono tuttora interrogati sei colleghi di Altintaş, anche loro non colpiti dalle epurazioni dei mesi scorsi. L’Intelligence turca fa trapelare la notizia che il killer nel 2015 avrebbe partecipato a incontri di gruppi di quel movimento ora giudicato eversivo. Si potrebbe domandare perché non sia finito nelle copiose retate avvenute dopo il tentato golpe. C’è poi il mistero del suo congedo richiesto per il 15 luglio (giorno del colpo di mano), che lo esentava da ogni servizio dalle 7:45 del mattino. Qualora venisse confermata l’adesione di Altintaş al “movimento terrorista” l’assenza potrebbe risultare un alibi oppure un’aggravante, poiché l’allontanamento per l’intera giornata (e nottata) puntava ad alleggerirne i sospetti. Resta, comunque, inspiegata la sua permanenza nel nucleo delle scorte private del presidente.

E poi se i golpisti, com’è stato ricostruito, volevano rapire Erdoğan e  assassinarlo, perché un piano simile non è scattato anche successivamente,  potendo disporre di infiltrati così prossimi al sultano com’era Altintaş? Altre indiscrezioni riportate dai media (l’emittente Al Jazeera) sostengono che Ankara e Mosca saprebbero che dietro l’omicidio del diplomatico c’è lo zampino dell’imam esule, con tanto di sostegno passivo della Cia o di un diretto coinvolgimento statunitense. L’amministrazione Usa marginalizzata, e autoesclusa, dalle ultime vicende della crisi siriana cercherebbe in tal modo di mettere zizzania alla neo collaborazione fra le leadership russa e turca. Voci cui ha risposto piccato il portavoce del Segretario di Stato uscente Kerry, secondo il quale “il riferimento pur teorico di un’implicazione americana nella vicenda criminosa è un’affermazione ridicola e falsa”. Più pragmaticamente gli 007 russi sono sguinzagliati alla ricerca di prove. Uno strumento importante può risultare la disamina del telefono mobile ritrovato dai cecchini turchi sul cadavere del killer. Per decriptarne i codici di sicurezza le due strutture investigative potrebbero unire le forze e avviare una collaborazione. Questa servirebbe a chiarire un’altra voce inquietante: la ricezione da parte dell’attentatore di informazioni provenienti dall’interno dell’ambasciata russa. Una talpa potrebbe aver fornito puntualizzazione sulla presenza del diplomatico alla mostra fotografica. In primo momento Altintaş aveva affittato una camera presso la Galleria d’Arte il 16 e 17 dicembre, l’aveva lasciata il 18 trasferendosi in un hotel attiguo. Casualità o migliori notizie per attuare l’agguato?

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