Se il numero dei guerriglieri del Partito dei
lavoratori kurdi uccisi sino a metà dicembre da esercito e polizia ammonta a
448, come afferma una nota del comando militare turco, chi sono le restanti
duemilaseicento vittime della repressione che da mesi s’abbate sulle province
del sud-est? E’ il popolo kurdo. Civili d’ogni età, di cui parliamo da
settimane, assassinati durante i raid con l’alibi dell’azione antiterrorista
oppure rapiti, condotti a decine di chilometri dal proprio villaggio e freddati
in luoghi appartati o direttamente nei campi. Le storie tragiche si susseguono.
In diversi casi, purtroppo, si somigliano e quando questo accade, per gran
parte dei media non fanno più notizia, come la scomparsa dei migranti in mare.
Chi tiene il macabro conteggio di morte? Certamente le strutture preposte al
sostegno della causa kurda più che alla registrazione di decessi, cui comunque
la burocrazia turca deve assolvere. Seppure quando la politica (anche quella
Istituzionale) vuole, può confondere le acque o palesemente barare, parlando
come fanno da mesi le massime autorità di lotta al terrorismo, concetto che
giustifica ogni sopruso e pulizia etnica. Serve ricordare i recenti omicidi di
Murat Ekinci e Murat Egül, quarantasei anni in due, di Rozerin Çudur, solo
diciassette? Serve eccome.
Però pochi media lo fanno. Così per la fine di
Ahmet Zırığ, deceduto, forse dissanguato, sicuramente per ferite non curate.
Ferite procurate da proiettili, per le quali sarebbe bastata un’operazione che
non è mai avvenuta. Perché il corpo è rimasto a terra, sebbene i vicini di casa
- nella località martirizzata di Cizre - richiedessero l’arrivo di un’ambulanza
e si offrissero di condurre il ferito all’ospedale. Non l’hanno potuto fare, i
soldati turchi lo impedivano. Immagini che transitano grazie alla tecnologia
del web mostrano cadaveri, sparsi in terra, nella neve o sotto il sole d’una
meteorologia cangiante. Non muta, invece, la crudeltà con cui l’apparato turco
si rapporta a una comunità colpita con reiterata ferocia. E se da una parte un
annuncio invita i familiari delle vittime a richiedere il corpo entro tre
giorni dal decesso, altrimenti verrà eseguita una tumulazione d’ufficio,
dall’altra si sono già verificati casi di mancato riconoscimento delle vittime
e l’impossibilità di predisporre i funerali perché la persona è scomparsa e non
si sa dove sia finita. In altre circostanze le esequie sono impedite dalle
operazioni militari in corso, dalle sparatorie, dagli assalti alle abitazioni
private che durano giorni e provocano nuove uccisioni.
E’ accaduto che i parenti richiedano il cadavere
del congiunto e l’autorità glielo neghi, tenendo immotivatamente le spoglie in
celle frigorifere. S’è visto nella municipalità di Şırnack. Comportamenti
ottusi che sembrano non rispondere neppure a logiche dell’amministrazione
statale, ma a un disegno volto a umiliare una popolazione e incrementare
un’inciviltà degna della peggior guerra. Taluni analisti turchi, non
necessariamente favorevoli al governo di Ankara, sostengono che tanta foga
repressiva sia una conseguenza della nuova tattica di guerriglia adottata dal
Pkk. Questo dopo la tregua ha ripreso a combattere, non solo sui monti ma nei
villaggi e nelle città, usando accanto agli attacchi a sorpresa (nei quali sono
morti oltre duecento militari) lo scontro nei centri urbani. Un conflitto sostenuto
tramite il movimentismo pro kurdo. Tale scontro è particolarmente temuto dal
governo turco e sarebbe uno dei motivi per cui la repressione è tanto feroce. C’è,
comunque, l’altra faccia di questa teoria: la volontà di stroncare quel poco di
autonomia che i territori del sudest si sono guadagnati coi propri sindaci
straeletti dalla gente. E, in base alla polarizzazione ricercata ossessivamente
da Erdoğan, scavare un solco profondo fra la maggioranza turca e la minoranza
kurda, contrapposizione aggirata dal progetto politico dell’Hdp.
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