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mercoledì 13 gennaio 2016

Turchia, il trionfo della morte

In quel trionfo della morte che è diventata la Turchia odierna, dove anche un luogo della Storia come Sultanahmet resta deserto, non solo per l’ennesima strage del Daesh ma per il divieto assoluto partito direttamente dal presidente Erdoğan di far circolare chiunque non vesta una divisa, in un Paese diviso in due: sudditi e terroristi (quest’ultimi distinti in kamikaze reali e bombaroli presunti) tutto diventa difficile. Ancora soltanto tre anni fa cento e uno erano le opportunità che lo Stato Turco si dava, pur dovendo fare i conti con la vanagloria del nuovo Atatürk che ha fatto di tutto per far sognare la patria e intossicarla, insieme al suo partito, alla gente che lo sostiene e ancora lo vota e anche a se stesso. L’attuale spettralità del luogo incantato sul Bosforo, dove Nabil Fadli ha fatto vibrare una cintura esplosiva che pareva un arsenale, è dovuta a ovvie ragioni di sicurezza. Ma la stampa locale rimasta ancora libera, diversamente da 32 colleghi giacenti in prigione, e occupata di fronte a circa ottocento dismissioni dal lavoro spesso forzate, parla di oscuramento delle immagini e soffocamento delle voci. Dopo le prime rapide zoomate su cupole e minareti guardati a vista dagli agenti, nessuna telecamera è stata ammessa in loco.
E’ la smania di blocco e controllo dell’informazione che il rabbioso presidente agita da tempo nelle vicende interne, mentre cerca microfoni e vetrine sul fronte internazionale. Su entrambi i terreni trova ostacoli, in casa per la criminalizzazione praticata verso chiunque s’azzardi a criticare il suo progetto autoritario, mentre gli errori e l’ambiguità di politica estera diventano boomerang, come mostra la pericolosa prossimità verso un jihadismo di confine tollerato e in taluni casi aiutato. Nella baraorda che ormai ne caratterizza le gesta sono seguite mosse non di armi fornite (tutti ricordano lo scoop di Cumhurriyet sulle munizioni fatte transitare verso la Siria nelle casse di medicinali) bensì usate: contro un caccia russo e ultimamente anche contro i miliziani dell’Isis. Un passo che ha irritato l’altro megalomane che infiamma il Medio Oriente, Al Baghdadi, capace di vomitare esplosivo su uno dei maggiori business turchi: il turismo. La via è simile alla tattica della ‘terra bruciata’ praticata nei resort del Mar Rosso, sebbene a Istanbul schizzi esponenzialmente, visti i milioni di turisti che transitano solamente nella Moschea Blu e che da oggi potrebbero disertare quella e le altre bellezze anatoliche. Dopo Parigi e Tunisi questa guerra si combatte ovunque; in Occidente e Oriente, ogni perla del passato può diventare un bersaglio, Palmira insegna.
Non è Erdoğan lo statista capace di sciogliere nodi intricati. Lui ne crea, sempre di più complicati e scorsoi. Se le esplosioni di Diyarbakır (4 morti a giugno), Şuruc (33 vittime a luglio), Ankara (103 martirizzati a ottobre) potevano esalare tanfo di Intelligence, per l’uso funzionale al progetto securitario, settario e anti opposizione messo in atto dal partito islamico, cosa che vale per l’omicidio dell’avvocato attivista Elçi a novembre, l’attentato di ieri segue logiche che il Califfo sperimenta in tutta l’ampia fascia di Maghreb e Mashreq. Lì da due anni conduce attacchi con esplosioni, fucilazioni, decapitazioni, crocefissioni. Ora tocca alla terra del sultano doppiogiochista con velleità di uomo-stato. Nella bolgia Erdoğan c’era già entrato di sua volontà trascinando l’intera nazione in un conflitto fra simili, rompendo la pacificazione in corso con la comunità kurda, sbattendo in faccia a Öcalan gli sforzi per il superamento di contrapposizioni ed esclusioni. Ne è nata la guerra civile in corso dalla scorsa estate, coi tremila e cento kurdi assassinati nelle strade di cui il presidente si vanta. Finora sono costati alla Turchia oltre duecento militari, morti anch’essi e un orizzonte fosco, segnato dall’esecuzione di civili, visto che della tragica lista circa cinquecento sono caduti con un kalashnikov in mano. Gli altri sono uomini, anche vecchi, sono donne e ragazzi. I più recenti a Van, altre dieci vite spezzate nella spirale che accompagna la Turchia oscurata da questo cupio dissolvi cercato e subìto.

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